Cultura e Società

Detachment

3/07/12

Tony Kaye, Stati Uniti, 2012, 97 min.

commento di Rossella Valdrè

C’è un dolore autentico nel bellissimo Detachment, opera seconda (dopo American History X del 1999) del regista Tony Kaye; tutti i personaggi ne sono profondamente pervasi. E’ il dolore di un lutto autentico, incessantemente presente: il trauma non solo non elaborato, ma mai dimenticato, il cui ricordo persecutorio preme continuamente alla mente, invadendo ogni spazio della vita e della coscienza. Il passato è presente: il passato infantile di Henry Barthes, insegnante di letteratura supplente per un mese in un liceo per adolescenti difficili del New Jersey, si mescola e si confonde con un presente che sembra continuamente riprodurlo.

Con un efficace registro narrativo che alterna brevi flash antichi alla vita quotidiana del prof. Barthes nell’oggi, accompagnati dalla sua voce fuori campo che riempie le pagine del diario (una voce fuori campo che, a mio avviso sempre difficile da inserirsi, è qui invece scelta stilistica del tutto appropriata), seguiamo una vicenda che si snoda con forte carica emotiva, ma che senza enfasi o retorica riesce a sfuggire allo stereotipo che investe molti film sulla scuola, o sui ragazzi difficili che finiranno per amare il timido professore. In Detachment, tutto è rigorosamente più vero e più doloroso, né lo si può riduttivamente definire, come in talune sbrigative recensioni, un film “sulla scuola”: sono le istituzioni stesse qui ad essere coinvolte – la scuola, l’ospedale – paralizzate tra la necessità di essere efficaci e far quadrare i conti, ed il peso del dolore immane di cui devono farsi carico. E’ la relazione stessa di cura, a partire dal nucleo originario della famiglia, sui bambini prima e su tutti coloro che saranno portatori di un bisogno in seguito, ad essere profondamente in crisi, praticamente impossibile.

Ma andiamo con ordine. Nell’arco del suo mese di supplenza, Henry (l’intenso Adrien Brody, che tutti ricordiamo ne Il Pianista di Polanski) riesce ad intercettare l’attenzione, e quindi la stima, di adolescenti dati per perduti, irrecuperabili, violenti e provocatori, segnati dal cosiddetto ‘deficit di attenzione con iperattività’, una massa di bambini deprivati in attesa, come ricordava Winnicott (1984), di quella seconda occasione, quella seconda opportunità che può ancora condurli ad una vita umana. Henry è in grado di capirli davvero: conosce quella rabbia, conosce quell’impotenza e quella desolazione, è anche lui un bambino traumatizzato, violato per sempre. Sa cosa vuol dire crescere soli, con un bagaglio da maneggiare che altri ti hanno lasciato, e che è quasi sempre destinato a restare fissato nell’inconscio, o “circoscritto in un nucleo scisso da cui lancia segnali”, o ripetuto incessantemente in identificazioni patologiche totalizzanti (Oliva de Cesarei, 2004), ma comunque inelaborato, non metabolizzato: sua madre, una donna sola, è morta suicida, davanti a lui bambino. L’ha uccisa un padre abusante, la cui memoria di vecchio morente è oggi devastata dal rimorso e di cui Henry si prende comunque cura fino alla fine, poiché lui sì, è stato capace di riparare, almeno in parte, e tentando di gestire il trauma sofferto, ma senza farlo scontare ad altri, vive la sua difficile quotidianità in tentativi faticosi di aiutare, di farsi carico del dolore dell’altro: gli allievi adolescenti, una prostituta bambina raccolta per strada, il nonno stesso….

Possiamo supporre, certo, in queste forme aiutative un atteggiamento difensivo dove Henry si cura di parti sofferenti di sé messe nell’altro, o l’espiazione costante di quel senso di colpa inconscio di cui spesso il bambino è portatore in questi casi; ma non credo sia questo, almeno nel mio sentire, il cuore pulsante del film.

E’ l‘uccisione delle figlie il nucleo tragico da cui nasce la catena dei traumi; al ricordo della madre, si attualizza in parallelo il suicidio di Meredith, l’allieva più dotata, più creativa (fa splendide fotografie che colgono l’anima dei soggetti), ma devastata dalla voce interna di un padre disprezzante, e rifugiata ormai in un’obesità compensatoria che la isola sempre di più. In mondi familiari assolutamente frantumati, dove i genitori mancano se non per identificarsi con la rabbia dei figli nelle assurde rivendicazioni contro la scuola e lo Stato (che dovrebbe ‘risarcire’ senza far pensare e crescere), sembra che la violenza di padri rimasti allo sbando si scateni sulle figlie, e queste a loro volta non riusciranno a sopravvivere, immettendo desolazione, rabbia e senso di morte nei loro bambini (Henry), o nei loro prodotti (le immagini di Meredith). La scomparsa del Padre, la sua evaporazione nella definizione lacaniana che ben ne sottolinea la dissolvenza, non lascia semplicemente un vuoto, poiché forse il vuoto non esiste nella vita psichica in quanto tale, ma lascia il posto, in questo film, ad un padre cattivo, assassino, per sempre persecutore e da cui ci si libera solo uccidendosi, modalità ultima per farlo fuori dentro di sé.

Trovo straordinarie le parole di una donna scrittrice, Ingeborg Bachmann, su questi delitti che lei stessa conosceva, quando scrive che in un sogno:

“….. e così mi apparve davanti agli occhi un cimitero, all’ora del tramonto, e in quel sogno si diceva: questo è il cimitero delle figlie. E allora io guardavo giù verso la mia propria tomba, perché facevo parte delle figlie, e lì mio padre non c’era. Ma io ero morta per causa sua ed ero sepolta. Forse che tu, in stato di veglia, sai qualcosa del cimitero dei figli, e sai per colpa di chi muori? Questo non lo vieni a sapere mai, pensaci pure, con tutte le tue forze, non lo scopri mai, ma quando lo scopri in quel modo, da dentro te stesso, nell’attraversare il tunnel, durante la notte, allora sai che è vero”. (corsivo mio)

                                                                                        (Il caso Franza)

Pur con tutto il suo carico di rabbia e dolore, e consapevole dei prezzi che ha dovuto pagare (Henry sceglie di fare il supplente, vuole cambiare continuamente scuola, cioè non può legarsi: attiva un aiuto che sarà mutativo, ma poi deve staccarsi…), lui tuttavia non è diventato uno di quei ragazzi, è il loro professore, in qualche modo è riuscito a essere quel genitore mancato, un uomo sofferente ma vivo. Come? Lo enuncia in classe dal primo giorno: con la lettura. L’universo transizionale della cultura, della conoscenza, è ancora una volta il terreno privilegiato grazie al quale Henry bambino si salva la vita; se non riuscirà propriamente ad amare in maniera durevole, riesce a restare vivo grazie alla conoscenza, all’accesso al mondo simbolico e condiviso della parola dove può riconoscersi, sviluppare un pensiero autonomo, essere un soggetto. In un corpo insegnanti dove tutti sono sconfitti dalla fatica di vivere e dalla solitudine, in lui sembra mantenuto un nucleo di risorse e dignità umana; nel linguaggio di Bion, se non L (love), K (Knowledge), e la tensione verso la verità. Lascerà la classe, infatti, in questa sua sofferta coazione a ripetere i distacchi, detachments, con un germe di metafora che ora i ragazzi sono in grado di accogliere, da La caduta della casa degli Usher, uno dei più bei racconti di Edgar Allan Poe (The Fall of the House of Usher, 1926), dove vita e morte si compenetrano….:

 ” Guardavo la scena che si presentava davanti ai miei occhi, guardavo quella casa e le nude strutture della proprietà, le mura lugubri segnate dagli sguardi vuoti delle finestre, i sedili, i tronchi bianchi degli alberi morti. Guardavo, con quell’oppressione totale dell’anima (…) il tragico cadere del velo. Era agghiacciante da far mancare il cuore, si era assaliti da un’irrimediabile tristezza che nessuno stimolo dell’immaginazione avrebbe più potuto sublimare”.

Riferimenti bibliografici:

– Bachmann I. (1978): Il caso Franza, Adelphi, Milano, 1988 (Der Fall Franza)

– Oliva de Cesarei A.(2004) : Trauma e violazione del senso di esistere, Quaderno di Psicoterapia del bambino e dell’adolescente, vol19, 67-75

– Poe Edgar A. (1926): La caduta della casa degli Usher, in: Tutti i racconti, Newton & Compton, Roma, 2004

– Winnicott D.( 1984): Il bambino deprivato, Cortina, Milano, 1986 (Deprivation and Delinquency, London, Tavistock)

luglio 2012

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