Cultura e Società

Hungry Hearts

25/05/15

Di Saverio Costanzo, Italia, 2014, 109’

commento di Elena Riva

Cuori affamati s’incontrano in un ristorante, non a tavola, però, ma in una toelette maleodorante ove rimangono sequestrati, ad anticipare il carattere claustrofobico della vicenda che da lì prende avvio.

Jude (Adam Driver) ha mangiato “pesce andato a male”: i commenti disgustati e il gesto teatrale di Mina di tapparsi il naso per il cattivo odore durante l’intera sequenza, preannunciano il suo rifiuto nei confronti del corpo e delle sue funzioni alimentari e digestive.

Questa scena d’apertura, del film e della relazione di coppia, manca nel romanzo Il bambino indaco, di Marco Franzoso, al quale Saverio Costanzo si è liberamente ispirato per la sua regia, ma anticipa efficacemente il senso della vicenda che da qui si dipana.

Hungry hearts non è solo un film sui disturbi alimentari, è un film sulla perversione del legame materno. È evidente la connessione fra maternità e funzione nutritiva, ed è in quest’ambito che la patologia del rapporto madre figlio si sviluppa.

Mina (Alba Rohrwacher) non sceglie di diventare madre, ma quando le accade il suo mondo interno subisce uno sconvolgimento profondo, la sua vita e la sua identità vengono “divorate” dall’assolutizzazione della funzione materna: scompaiono la coppia, gli amici e il lavoro, sessualità e socialità si annullano e la vita intera è assorbita dal ruolo materno. Da questa assolutizzazione dell’essere madre il figlio viene divorato: è un bambino che resta senza nome, dunque senza identità, è “mio figlio”, vittima e strumento delle ossessioni materne.

L’eleganza del film di Costanzo si coglie nei dettagli, nei gesti e nelle inquadrature prima ancora che nei dialoghi, che anticipano e preparano il dramma finale.

Dalla sequenza del matrimonio veniamo a sapere di particolari importanti della vita di Mina: orfana di madre dalla primissima infanzia, non ha potuto interiorizzare una funzione materna sicura; con il padre che l’ha cresciuta ha interrotto ogni rapporto, e questo spiega, forse, la diffidenza nei confronti delle competenze paterne degli uomini, che si esprime nella progressiva estromissione del compagno dalle funzioni parentali. Di questo parla il sogno ricorrente che progressivamente invade la sua mente, “mostrato” agli spettatori in una sequenza ambigua – episodio reale traumatico, visione onirica o allucinazione – al termine della festa nuziale, un sogno che, non a caso, irrompe con uno sparo a interrompere un rapporto sessuale fra i protagonisti. L’uccisione del cerbiatto da parte del cacciatore diviene la scena simbolo della minaccia rappresentata dal maschio per il bambino.

La gravidanza di Mina è descritta nel film con espliciti rimandi a Rosmary’s baby di Polansky, evocato anche dalla somiglianza fisica fra le due attrici, Mia Farrow e Alba Rohrwacher, ugualmente esili e pallide, dal corpo androgino e quasi infantile, in evidente contrasto nell’immaginario collettivo con le rotondità accoglienti del corpo materno. Il corpo e la psiche di Mina sembrano alludere a una debolezza intrinseca della funzione materna, che deve essere ideologicamente assolutizzata per compensarne l’originaria vulnerabilità.

Non è un bambino qualunque quello che Mina attende, è un bambino indaco dai poteri divini e salvifici. Jude ironizza sulla profezia della veggente a pagamento, inconsapevole del potere che questa fantasia assume nella mente di Mina, che sente di dover proteggere l’essere speciale che porta in grembo da ogni minaccia e contagio. Nella psiche di Mina, figlia troppo presto sola ad affrontare le insidie della vita, spetta alla Madre preservare il bambino dalla contaminazione di un mondo vissuto come “una nube tossica e puzzolente”.

Un’interpretazione integralista della filosofia vegana ben si presta ad assumere la regia di questa missione, ma non è in questione la dottrina vegana – come dichiara in alcune interviste il regista, prevedibilmente attaccato sul web a questo proposito – bensì la declinazione radicale che assume in una mente terrorizzata da un mondo vissuto come un contenitore venefico e ostile, inadatto ad accogliere il bambino che sta per nascere. L’inquietudine che suscita in Mina questo fantasma è evidente nello sguardo intenso che rivolge alle antenne che proliferano sui tetti, prima di crollare svenuta.

È ovvio, in questa prospettiva, che Mina scelga di partorire in una clinica di medicina naturale e omeopatica: non la chimica dei padri, ma la natura della madre può salvare il bambino. La sua incapacità di integrare in modo armonico natura e cultura, universo simbolico materno e paterno, esplode in modo traumatico sulla scena del parto. È, infatti, costretta da un corpo già troppo indebolito dalla cattiva nutrizione per affrontare le fatiche del parto, a rinunciare a partorire nell’acqua per sottoporsi a parto cesareo; Mina vive tutto ciò come un tradimento da parte degli uomini, il marito e il ginecologo. La sofferenza fetale che obbliga il medico a intervenire anticipa il rischio che le scelte alimentari di Mina rappresentano per la salute del suo bambino.

L’acqua, simbolo materno per eccellenza, torna in molte scene del film, le uniche in cui madre e figlio giocano sereni immersi nel liquido purificante, fino alla gita catartica sulle rive dell’oceano. L’acqua è anche l’unica sostanza di cui vediamo Mina nutrirsi: coltiva ortaggi, cucina, apparecchia la tavola, ma non mangia; il suo corpo accoglie solo acqua purificante.

L’impossibilità a celebrare il rituale della nascita con un parto “naturale” nell’acqua, collaborando attivamente al distacco dal figlio, e la costrizione a subire il taglio della separazione da parte del medico-Padre, ha un profondo impatto traumatico su Mina. Incapace di separarsi dal figlio lasciandolo nascere come individuo Altro da sé, Mina mostra i primi segni evidenti di sofferenza psichica. Le sue parole e i suoi gesti al risveglio rivelano la fantasia che il figlio le sia stato sottratto e la sua determinazione a combattere per riaverlo.

Si colgono in queste scene anche i primi segni dell’impotenza e del fallimento della funzione paterna: sia Jude, sia il medico, falliscono nel contenere e rassicurare la madre, consentendole di elaborare la separazione dal suo bambino. Il tentativo affettuoso di Jude di avvicinarsi alla compagna per celebrare insieme la nascita del “loro” bambino è immediatamente respinto: Mina ha già smesso di essere la sua compagna, di qui in poi vuole solo “suo” figlio.

In questa logica affettiva ogni distacco fra madre e bambino ha una valenza traumatica: il piccolo non può essere affidato ad altri che alla madre, la medicina stessa, con i suoi venefici rimedi, è vissuta come una minaccia. Mina si affida solo al proprio “sentire”, certa che l’istinto materno la guidi a riconoscere ciò che serve al benessere del figlio.

Mina recide ogni contatto con il mondo, non risponde al telefono, non desidera riprendere il proprio lavoro; Jude, unico “estraneo” ammesso al tabernacolo della coppia madre bambino, è invitato a lavarsi le mani e a togliersi le scarpe, a lasciar fuori il cellulare prima di entrare.

La telecamera coglie la progressione di un’espressione sempre più angosciata, di un corpo sempre più magro, fino al deformarsi delle forme che segnala la follia che progressivamente l’invade.

Mina nutre poco e male se stessa e il suo bambino, che alimenta solo con cibi naturali, semi e ortaggi coltivati da lei sul terrazzo di casa, in preda all’ossessione di purificare i corpi da sostanze venefiche che s’infiltrano attraverso cibi manipolati, farmaci chimici e aria inquinata. Ogni cibo di origine animale, frutto della violenza dell’uomo sulla natura cui allude anche il sogno dell’uccisione del cervo, è bandito.  

Hungry hearts descrive bene, con Mina, una delle forme di disturbo alimentare di più recente comparsa, inserito fra le patologie psichiatriche nel DSM V, l’ortoressia(dal greco ortos = corretto, e orexis = appetito) espressione di un’attenzione abnorme alle regole alimentari, alla scelta del cibo e alle sue caratteristiche.

L’ortoressia di Mina allude a una visione del mondo che affida alla Madre ogni competenza e potere, estromettendo il Padre e i suoi presidi – la medicina, la scienza, la tecnica – dalle funzioni genitoriali. Jude inizialmente accetta di affidarsi al “sentire” materno aderendo all’ideologia naturalistica della compagna, ma quando diviene consapevole dei rischi per la salute del figlio, che così alimentato non cresce, chiede aiuto al pediatra e a sua madre, “tradendo” Mina e diventando anche lui un nemico per lei.

Jude, che pure prova a rassicurare la compagna garantendole che “sono una famiglia”, si scontra con l’impossibilità di Mina di accettare qualunque compromesso relativo alla cura del figlio. Il grido di dolore di lui – “Quindi mi sta dicendo che non posso fare niente?” – esprime in modo eloquente l’impotenza del padre che fa da contraltare all’onnipotenza materna.

Il film che è iniziato come commedia si trasforma in dramma, in un crescendo di cui diventa prevedibile un tragico finale. Mina non può accettare aiuti, né fidarsi di nessuno: non di Jude, che vorrebbe nutrire di nascosto il bambino, non del pediatra, che gli prescrive diete e farmaci venefici, tantomeno della suocera, che cucina soffriggendo salsicce in una casa sulle cui pareti fanno bella mostra di sé trofei di caccia.

Il terzo personaggio del film, la madre di Jude, ci era stata presentata alla festa di matrimonio come una donna intrusiva, che attraverso la seduzione della nuora cerca di riavere uno spazio nella vita del figlio; quando Jude, che fino a quel momento aveva respinto ogni suo tentativo di avvicinamento (e quale storia avrà alle spalle questa seconda coppia madre e figlio? Anche qui una separazione difficile?) decide infine di chiedere il suo aiuto, fra le due madri è da subito guerra aperta: nessun tentativo di contenimento, rassicurazione o dialogo, da parte della suocera, subito arruolata alla missione di salvare figlio e nipote, liberandosi di “quella pazza” di Mina.

Due madri così diverse nello stile di vita, sono egualmente determinate, però, a rivendicare il possesso dei figli, e per questo avviano una battaglia senza esclusioni di colpi. Per “salvare” il suo bambino dalle contaminazioni venefiche dei cibi cucinati dalla suocera, Mina non esita a rivolgersi ai servizi sociali, accusando Jude di averglielo sottratto e inducendolo a quella violenza che da sempre attribuisce ai maschi.

La forza pubblica che interviene per restituire il bambino alla madre appare stolidamente schierata, sorda alle ragioni dell’uomo. Di nuovo il Nome del Padre si rivela del tutto inadeguato a svolgere il suo ruolo di tutela del bambino, insieme impotente e prepotente, privo dunque di ogni autentica potenza virile.

In campo rimangono solo le madri: mentre Jude ancora prova a convincere Mina e a chiedere la mediazione della Legge, sua madre non esita a farsi giustizia: imbracciando uno dei fucili da caccia che immaginiamo conservi nella villa dei trofei, avvera l’incubo di Mina trasformandolo in sogno premonitore.

Quando nessuna integrazione è possibile fra cultura materna e paterna, il potere decisionale che “salva” il bambino è affidato al sacrificio onnipotente della Madre, come ripete ossessivamente fra sé la madre di Jude, chiedendosi se il figlio potrà mai perdonarla: “Se il bambino fosse rimasto con Mina, ripete, lui sarebbe morto e lei sarebbe qui al mio posto”.

“Vita tua – mors mea”, direbbe Franco Fornari di questa militarizzazione ideologica onnipotente del codice materno, che assolutizzandosi ed escludendo la funzione paterna, impazzisce e uccide la “buona famiglia interna”.

Maggio 2015

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