Cultura e Società

Il cigno nero

8/11/11

Darren Aronofsky, USA, 2010, 110 min.

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Commento di Pietro Rizzi

Wholeness

Nell’elogio funebre di R. Weisz, ne "L’albero della vita", viene citata la "completezza", la wholeness, come una parte importante del suo percorso esistenziale e del suo carattere. In realtà, "wholeness" significa anche "integrità", ed è spesso richiamata, nel mondo anglosassone, come una caratteristica importante della personalità. Il termine è ricco di significati, designa un vero ‘campo semantico’ che ruota intorno all’idea di una totalità nella quale si rispecchiano il mondo esterno (addirittura "the Whole" per eccellenza, il Cosmo, l’ordine dell’Universo, tema del film) e il mondo interno, il "carattere" intorno al quale ruota tutto il percorso identitario di una persona, quindi anche l’eredità affettiva che essa lascia, in questo caso, ai superstiti.
La ‘completezza’ diventa il punto di arrivo di una persona che vuole realizzare la coerenza a ogni costo; la ‘integrità’ rappresenta il modo in cui questo obbiettivo viene raggiunto, senza lasciarsi distogliere dai "colpi dell’avversa fortuna" (v. Amleto) o dalle lusinghe del mondo sociale che vuole non l’integrità, ma l’integrazione, ovvero la rinuncia alla propria identità profonda.
Sotto questo aspetto, anche il protagonista di "The Wrestler" persegue la propria ‘completezza/integrità’ tramite l’adesione al modello professionale che scopre essere la sua vera ‘scelta di vita’: il lottatore sul ring, ma anche il guerriero di una singolare forma di combattimento, dove il "vero" e il "falso" si compenetrano in una ‘armonia’ sublimata dalla loro "rappresentazione".

Rappresentazione

La Rappresentazione diviene, ne "Il cigno nero", il sinonimo e il simbolo della "completezza", il luogo dove l’integrazione sociale e l’integrità personale coincidono (dovrebbero coincidere) perfettamente, nel caso della danza in forma tanto sublimata da potersi permettere di espellere il mezzo di comunicazione umano più potente mai scoperto: la parola.
Il corpo della ballerina deve raggiungere la totale assenza di peso, fino a rappresentare, appunto, la perfezione che nell’immaginario romantico si attribuisce allo Spirito. Si ha una vera e propria "trasmigrazione" o "trasmutazione" del corpo in quello che tradizionalmente è il suo opposto, appunto lo spirito, l’Ideale, l’Assoluto. Visione tipicamente romantica e ormai anacronistica di cui il balletto classico tardo ottocentesco è profondamente intriso.
Ma quale è il prezzo di questa meravigliosa trasformazione? Spostando lo sguardo ‘dietro’ lo splendore della Rappresentazione di fronte a un pubblico che si suppone estasiato, Aronofsky produce, agli occhi dello psicologo, un vero e proprio trattato di quanto può costare questa singolare operazione. Singolare in apparenza, in realtà rappresentazione sintetica e assai ‘concreta’ delle molte trasmutazioni che la vita normale e i percorsi esistenziali di ciascuno richiedono, nella storia quotidiana di chiunque.
Sceglie però, significativamente, un momento dello sviluppo psichico che sappiamo oggi essere di capitale importanza per tutta la storia evolutiva seguente: l’Adolescenza. Nina è prima di tutto una adolescente che transita da un mondo scomparso (forse solo in apparenza) rappresentato dalla danza classica allo stato puro, a un mondo di oggi che riesce ancora a trarne piacere proprio per l’anacronismo che quel tipo di balletto rappresenta, ma di norma è "in tutt’altre faccende affaccendato".

I volti e le maschere del Sé

La costruzione del proprio Sé costituisce un lungo, complesso e difficile lavoro psichico che inizia nella primissima infanzia e prosegue, in un certo senso, lungo l’arco dell’intera esistenza. Può essere visto, il Sé, come un contenitore e insieme un centro di forze nel quale confluiscono strutture di varia natura, dove si incontrano mente e corpo (il Sé psicosomatico), dove si confrontano il mondo interiore, di cui l’Io cosciente è solo una parte, e la propria, particolare immagine pubblica, esposta alle richieste sociali, alla quale si è applicata la prima versione del Sé, il "Self" dei sociologi.
Nell’adolescenza il Sé subisce il proprio assestamento e i più importanti rimaneggiamenti, tanto che si dice che essa costituisce spesso "la seconda chance" verso l’equilibrio e la salute; benché oggi l’adolescenza non sia più considerata un ‘transito’ verso la maturità (di cui oggi non è facile dare una definizione), ma piuttosto una specie di substrato psichico mai del tutto scomparso, in grado di fornire momenti di creatività inaspettata o, al contrario, penose regressioni.
Nel Sé adolescenziale si incontrano i fantasmi del passato, le buone o cattive ‘imago’ genitoriali, le aperture verso la realizzazione affettiva, l’incontro con la sessualità e la identità di genere, e soprattutto si fa esperienza dell’Altro come non la si è mai fatta in precedenza.
Tutto questo ha inoltre il sigillo della ‘autenticità’, un’altra manifestazione della Wholeness, intesa come il bisogno insopprimibile di sentirsi "veri", nel proprio corpo come nella vita mentale, nel proprio essere più privato come nell’immagine pubblica: la mancanza di tale integrità porta con sé penose angosce e crudeli sensazioni di inconsistenza che giungono all’estremo del crollo psicotico.
E’ possibile riconoscere molti di questi aspetti, condensati e tumultuosi, nella vicenda di Nina, esaltati all’inverosimile dalla carriera artistica che ella sta percorrendo e dall’appuntamento con il ruolo che avrà, come prima ballerina, ne "Il lago dei cigni".
La parte di Odette/Odile, cigno bianco/cigno nero rappresenta il punto d’arrivo, reale e insieme fortemente simbolico, di una via percorsa con estrema determinazione e, si vede, con estremi sacrifici. Maturità personale (completezza) e artistica (compimento) sotto il segno della integrazione di tutte le proprie capacità e potenzialità.
Ma quest’ultimo tratto di strada è irto di ostacoli: sono proprio coloro che le hanno offerto la possibilità di realizzare il sogno, la madre di Nina e il suo Maestro, a mostrarsi incapaci di comprenderla e aiutarla veramente.
Essi si tramutano in crudeli persecutori, assumono l’aspetto di spietati sfruttatori del suo talento, figure vuote che solo in apparenza partecipano del suo desiderio: in realtà cercano soltanto di realizzare, attraverso di lei, i loro scopi personali, più o meno nascosti. Il trionfo di Nina sarà bruciato, come in un sacrificio pagano, sull’altare del narcisismo materno e di quello del maschio dominatore autoritario.
Il fragile Sé di Nina è sottoposto a tensioni quasi intollerabili; l’autenticità si perde dietro la maschera, sempre più incomprensibile, dell’Ideale artistico, altra figura persecutoria (all’insaputa del soggetto) del mondo adolescenziale: forte sicuramente in quello di un tempo, quando gli ideali apparivano più potenti, ma tuttora presente nella forma della ricerca spasmodica del Successo.
Nina mette in atto, allora, in gran parte inconsciamente, una serie di ‘manovre’, fatte di sottomissioni e ribellioni alternate confusamente, per mantenere una sufficiente coesione del Sé, con il fine di salvaguardare la propria autostima e insieme tutelare quegli aspetti della sua persona mentale e anche fisica che le richieste dei persecutori (con i quali peraltro è spinta a identificarsi profondamente) rischiano di distruggere forse per sempre.
Nel corso di questa spasmodica ricerca di salvezza, Nina sembra trovare degli ‘alleati’, la giovane ballerina Lily, che la porta con sé nel ‘mondo’ dei piaceri della sua età e, sul filo del paradosso, la ‘vecchia’ ballerina Beth, allontanata dal balletto, che Nina va a visitare all’ospedale, in seguito a un grave incidente, probabilmente autolesivo.
In lei Nina cerca di esorcizzare le sue pulsioni masochistiche, ma forse è pur sempre alla ricerca (tradita) di una figura materna sostitutiva, dato che anche l’oppressiva madre di Nina ha visto interrotta la sua carriera per un non meglio identificato "incidente", di natura sentimentale.
Purtroppo per lei, questi due personaggi non possono essere suoi alleati: sono dei Doppi.

Il Doppio, figura del Perturbante

In un film del 1917 ("Lo studente di Praga") gli psicoanalisti avevano trovato una perfetta rappresentazione visiva di una figura presente nella letteratura e nell’arte, che risponde al nome di ‘Doppio’ o ‘Sosia’. Il Doppio è una immagine di sé che un soggetto, per potere soddisfare le proprie pulsioni aggressive/sessuali, crea inconsciamente proiettando dentro di lui i propri aspetti colpevoli e inconfessabili. Si libera così delle proprie inibizioni, ma il Doppio torna alla fine a chiedere il conto; nel tentativo di sopprimerlo o di renderlo innocuo, il soggetto fa esperienza del Perturbante: lo "Unheimlich", ciò che è insieme estraneo e familiare, una figura misteriosa che occorre infine riconoscere come parte di sé, ma che è portatore della rovina psichica e (nella finzione letteraria o cinematografica) anche di quella fisica del suo interlocutore.
Sebbene il "vero" Doppio si presenti come un sosia identico in tutto e per tutto a chi lo ha prodotto, e tuttavia disconosciuto, la forma più frequente di Doppio è quella definibile come ‘complementare’. Versione universalmente nota è quella del Dottor Jeckill e di Mr. Hide, talmente popolare che si contano, sul tema, decine di imitazioni letterarie e ancor più cinematografiche, con una fortuna forse di poco inferiore a quella di Dracula il Vampiro (il quale, a ben vedere, trasforma le sue vittime nei propri "sosia" vampirici).
Ne "Il cigno Nero" è evidente che la ballerina che danza nel finale entrambe le parti, quella dell’innocente cigno bianco e quella del mortifero cigno nero, fa vivere al pubblico appunto una esperienza di ‘Doppio perturbante’, per l’evidente complementarità (e anche la quasi identità percettiva, non fosse che per il colore) sottolineata anche dai nomi di Odette e Odile.
Verso questa ‘integrazione’, peraltro psicologicamente ai limiti del possibile, deve viaggiare con sforzi sovrumani una Nina che non trova dentro di sé la maturazione psicologica necessaria, e si rivolge all’esterno per trovare una ‘pozione magica’ capace di renderla vitale al punto giusto.
Ma, cercando di difendersi dall’influenza della Madre e del Maestro, riesce a trovare delle figure femminili che da alleate si tramutano in suoi doppi, con tutta la carica distruttiva connessa a questo genere di esperienza. Sono due ballerine, l’una rappresenta il suo possibile futuro felice (Lily) mentre l’altra, come abbiamo visto, le mostra un futuro amarissimo se non apertamente tragico.
A Nina, dunque, non resta altro che chiudere il cerchio, diventando il Doppio persecutore di sé stessa: il Doppio perfetto, di cui lo specchio dà una esatta testimonianza. Ma il Doppio, alla fine della corsa, uccide il suo creatore perché contiene le parti distruttive e violente (malvage, nelle versioni "morali" della storia) che questi ha espulso da sé per liberarsene.
Così, la tragedia si compie. Il destino di Nina è la malattia mentale, un crollo psicotico in piena regola che Aronofsky descrive con grande abilità e una encomiabile economia di mezzi espressivi. L’esito è dunque l’uscita dalla realtà, anche da quella intrisa di fantasie che comunque Nina ha attraversato fino a poco prima.
Sarebbe tuttavia ingiusto e scorretto fermarsi a categorie clinico-psichiatriche. Nina entra, piuttosto, nella più pura delle follie, dove la follia è una forma di vita, una ‘parola’ esistenziale e insieme artistica che sfugge alle descrizioni in termini categoriali e in fondo a qualsiasi inquadramento.
Così, l’inverosimiglianza della danza finale con un pugnale di vetro infisso nel diaframma, vera sfida a qualunque esame di realtà, assume un carattere di ‘autenticità’ che travalica ogni altra considerazione, se non quella della coerenza interna della rappresentazione con sé stessa, quasi ci fosse un significato metafisico (meta-fisico) che si impone, con una luce improvvisa, nella mente dello spettatore.
Il pubblico immaginario de "Il lago dei cigni" dentro il teatro, a sua volta dentro il film, e il pubblico "reale" che ha visto il film, infine il "pubblico di una sola persona" di chi vede il film in questo preciso momento su uno dei supporti a disposizione, sono per un momento uniti in una forma di "follia positiva" nella quale aleggia la "Wholeness", l’autentica completezza alla quale, se non ci siamo clamorosamente illusi, sembra aspirare il cinema di Aronofsky.
Chissà che "Il cigno nero" non contenga anche un’allusione a quell’evento unico, che mentre fa cadere certezze consolidate dall’esperienza ("tutti i cigni sono bianchi") tuttavia al tempo stesso costringe a trovare nuove esperienze o teorie ("Tutti i cigni sono bianchi o neri") e soprattutto rende tutti un po’ più consapevoli dei limiti delle umane teorie.
7 novembre 2011

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