Cultura e Società

Il figlio di Saul

18/02/16

(di Lázló Nemes, Ungheria, 2015, 107’)

Manuela Martelli

Quanto Male, inteso come violenza, dolore, vuoto di senso, possiamo vedere? Quanto ne possiamo sopportare?

È questa la domanda che mi ponevo, mentre guardavo il film Il figlio di Saul, dell’esordiente regista ungherese Lázló Nemes.

Vedendo i pochi spettatori presenti in sala, nonché il tempo breve di permanenza del film nei cinema di prima visione, mi sembra di intuire una risposta, peraltro evidente nel momento in cui mi sono rialzata (quasi sopravvissuta, persa e ritrovata) da quella poltroncina per uscire … dal cinema e dal film.

Vi si racconta la storia di un orrore, quello della Shoah, visto attraverso gli occhi di un uomo internato nel campo di concentramento di Auschwitz.

“Tempesta devastante”: questa è una delle traduzioni possibili della parola Shoah al capitolo 47, versetto 11 di Isaia. Una catastrofe inaspettata, piuttosto che un sacrificio necessario, significato invece della parola Olocausto, più dura e contrastata se si pensa che nessun genocidio possa essere inevitabile, a meno che non si riconosca l’ineluttabilità della libertà del Male.

Il significato della morte in croce del Gesù dei cristiani e forse di tanti martiri o ritenuti tali di altre fedi, non necessariamente religiose, che la storia e il mito ci raccontano, sembra proprio essere l’ineluttabilità di un orrore conseguente alla libertà. Questa necessità è drammaticamente messa in dubbio da film come questo e come altri, in questi giorni nei nostri cinema in prossimità del Giorno della Memoria. Tra questi, segnalo Una volta nella vita, della regista Marie-Castille Mention-Schaar che, con grazia forse un poco semplicistica, ma non per questo priva di efficacia, riporta la Shoah ai giorni nostri.

Ricordare ci aiuta a ripensare e a mettere in discussione l’ineluttabile, sapendo che a volte ci si scontra con l’impotenza, non senza aver prima combattuto fino a dove sia possibile. Questo combattimento a volte è ciò che ci mantiene in vita.

Lo abbiamo letto tante volte negli scritti e ascoltato nelle parole dei sopravvissuti dai campi di concentramento: siamo rimasti in vita per poter raccontare.

Per Saul, protagonista del film, sembra quasi che il sopravvivere siano motivati dal bisogno e dal comando interno, senza desiderio e piacere; lo sostiene una sorta di “spinta ad esistere” (Ambrosiano, Gaburri, 2008), una forza impressa dalla storia, che ci chiede di garantire ad altri, prima di noi e accanto a noi, il valore della vita, in sé e nel ricordo. Il vivere è per dare continuità alla specie umana, forse anche perché non si riesce a decidere di morire.

Saul guarda sempre e solo davanti a sé, quasi per oscurare tutto il dolore, la disperazione che c’è intorno a lui, muovendosi incessantemente e trascinandoci con lui in questo non sostare, non pensare, vedere solo ciò che non ci ferma.

Egli fa parte di un Sonderkommando, gruppo di Ebrei costretti dai Tedeschi a sterminare i propri compagni, “uomini a termine”, che sapevano di avere garantita la loro vita a prezzo della morte di quella di altri per un tempo prestabilito, dopo il quale sarebbe toccata loro la stessa sorte. E in quel tempo bisognava sopravvivere, nient’altro, nell’illusione forse di fuggire, o di svegliarsi dall’incubo.

La macchina da presa segue Saul nel suo muoversi attraverso spazi che sono solo intravisti, evitiamo di guardare in faccia l’orrore esattamente come ci immaginiamo che stia facendo Saul, mentre alle spalle lo seguiamo. Come riuscire a vivere se ci si guarda intorno?

Come psicoanalisti alle spalle dei nostri pazienti, a volte ci ritroviamo a pensare che l’unico modo per sopravvivere è stato ed è per loro guardare solo avanti a sé, cercando di lasciare alla periferia dello sguardo ciò che, almeno per il momento, non può e non ha potuto essere guardato! Quante volte guardiamo per loro, forse prima di loro e con loro ci ritiriamo. A volte, invece, cerchiamo di mantenere quello sguardo terrorizzato, di renderlo sopportabile, affinché anche loro possano arrivare a sostenerlo, per quanto sarà loro possibile, per poterlo poi lasciare al ricordo, distinto dal presente. Questo, analista e paziente lo scoprono insieme, come facciamo nel film stando alle spalle di Saul e come facciamo nelle nostre vite, stando dietro e a fianco di amici, familiari, in una condivisione a volte unidirezionale e a volte reciproca. Nella consapevolezza che lo sguardo di ciascuno necessita di quello dell’altro.

A un certo punto lo sguardo di Saul viene catturato da una visione che non riesce a lasciar scorrere via: un giovanetto in cui crede di riconosce suo figlio. Da quel momento in poi il suo muoversi acquista un nuovo e più forte significato: seppellire il presunto figlio ad ogni costo. Poco importa la realtà: quella convinzione gli permette di procedere nel suo cammino, passo dopo passo, senza guardare lontano, stando nel presente. “La spinta a esistere” è diventata motivazione, prendendo una forma, una misura. Nel momento in cui l’obiettivo individuato, la sepoltura del figlio, sarà raggiunto anche la vita di Saul potrà essere lasciata andare, sembrerà essere stata data ad altri, perché possa proseguire la vita oltre gli individui, oltre la morte per chi crede in una religione o nella fede del ricordare ed essere ricordati, nella vitalità del pensiero.

Nel film le emozioni sono tutte contemporaneamente urlate e sommesse, estreme al punto da confonderci e anestetizzarci.

Accanto al Male, evidente, non è protagonista il Bene, se non in pochi barlumi di solidarietà umana, l’orrore avvolge e toglie respiro a tutto. Si creano alleanze passeggere, in cui ciascuno sembra perseguire la sua causa, la sua illusione di vita che, nella privazione degli oggetti reali, si aggrappa a un oggetto interno, illusorio o ricordato poco importa.

Nonostante la devastazione dell’esperienza, che il film ci fa intensamente rivivere, in cui ci trascina senza lasciarci libertà di scelta, se non quella di uscire dalla sala, si rimane vivi, anche interiormente. In contrasto con ciò che si è visto o anche solo intravisto, un barlume di vita e di senso si sono generati: il pensiero che tutto questo non è ammissibile, deve essere visto e ricordato. Combattuto prima di tutto nel ricordo, perché non accada di nuovo.

Dopo la visione di questo film, ho visitato la mostra a Bologna che mette a confronto i tre genocidi del XX secolo, quello degli Armeni, quello degli Ebrei e quello dei Tutsi, senza dimenticare tutti gli altri fenomeni di violenza di massa identificabili come “Crimini contro l’umanità”. Nell’ultimo pannello si fa cenno anche al recente genocidio dei Curdi.

Fatti del presente, su cui dobbiamo rimanere vigili.

Questa fiammella di vita che il vigilare/ricordare accende, mi sembra generi la visione di questo film.

13 febbraio 2015

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

"La sala professori" di I. Catak. Recensione di E. Berardi.

Leggi tutto

"Estranei" (All of Us Strangers) di A. Haigh. Recensione di F. Barosi

Leggi tutto