Cultura e Società

Inside Out

22/09/15

di Pete Docter – USA, 2015, 94 min.

Commento di Amedeo Falci                                                                    

CARTOONOLOGIA DELLA MENTE

Film per bambini, anche se poi per bambini non è.

Diranno che si tratta di un film d’animazione non in linea con le teorie evolutive della psicoanalisi. Con un’impostazione cognitivista, persino. Eppure, malgrado queste verità, si tratta di un prodotto cinematografico interessante, creativo, accurato, e, soprattutto, intelligente e molto divertente.

HOMUNCULUS

Malgrado si rifaccia, per evidenti esigenze narrativa, al vecchio paradigma dell’ ’homunculus’  o del ‘ghost in the machine’ – la mente contiene al suo interno riproduzioni in miniatura dell’essere umano stesso –, il film è sorprendentemente aggiornato rispetto alle scienze della mente, e rispetto al tema delle emozioni primarie e del variegato flusso affettivo e sentimentale che anima la nostra vita interna, e di conseguenza, anche il nostro agire nel mondo (‘inside out’).

DA DARWIN

Emozioni primarie e fondamentali. Un background che parte dal Darwin di  “The Expression of Emotions in Man and Animals” (1872), e passa attraverso un secolo e oltre di ricerche scientifiche sulle emozioni. Dalle notizie sul web apprendiamo di un lavoro di scrittura e preparazione al film di circa quattro anni, con un folto numero di consulenti psicologi per i supporti scientifici alla sceneggiatura.

Dietro l’apparente confezione di un prodotto per infanzia, e malgrado le personificazioni delle emozioni appaiano un espediente ingenuo, ma necessariamente favolistico, alcuni punti del film presentano in realtà non poco interesse.

SEI EMOZIONI UNIVERSALI

Primo: i personaggi delle emozioni di base, sono più o meno il ricalco di una delle più famose e generali classificazione delle emozioni di base, dovute al controverso Paul Ekman  (che pare anche accreditato come uno dei consulenti della notissima Pixar, la casa produttrice): paura, disprezzo, tristezza, gioia, rabbia, disgusto. Un tentativo di arrivare a una grammatica universale delle emozioni umane. Classificazione è solo uno dei tanti tentativi di formulare un elenco delle  emozioni basiche, considerando poi come la vita emozionale consista in flussi di combinatorie di più emozioni. Nondimeno, questo rappresentare la vita mentale come la lotta tra vari stati emozionali, è attendibile, e qui funziona.

L’IO CHE NON C’È

Secondo: nel film non è raffigurato qualcosa come un Io o un Sé unitario e centralizzato. La vita mentale emozionale della piccola protagonista, Riley, è invece rappresentata come un costante negoziato tra varie ‘persone’ emozionali. Se non c’è un Io centrale, l’assetto della personalità, per così dire, è allora costantemente prodotto dall’equilibrio delle componenti emotive in gioco, dal bilancio tra ricordi emozionali evocati, memorie a breve termine, memorie a lungo termine, accessibilità ai ‘ricordi di base’ e tenuta delle varie ‘isole’ che rappresentano le organizzazioni sentimentali. ‘Sentimentali’ direbbe, infatti, qui Damasio, perché i sentimenti si collocano ad un livello organizzativo più ‘alto’ delle emozioni, giacché  sono  stati somatopsichici plurisistemici che diventano rappresentazioni e stati mentali del soggetto. Il Sé insomma è un costrutto eminentemente ‘sociale’ e ‘linguistico’ e non una struttura neurofunzionale, o, almeno, si ipotizza che certe sincronizzazioni neuronali mediane possano essere l’equivalente funzionale di ciò che socialmente chiamiamo un Io riflessivo. È comunque interessante e moderno che il film possa abbozzare un funzionamento mentale basato su una continua competizione tra sistemi, piuttosto che riproporre un Io monocratico.

INNO ALLA GIOIA

Terzo: mi pare interessante e ‘politicamente’ non casuale mettere in posizione egemone la rappresentazione personificata della Gioia. Un ottimismo evolutivo, direte voi, molto lontano dal bambino ‘aggressivo’, ‘pulsionale’, ‘colpevole’, infine ‘tragico’, della psicoanalisi.  Ma, appunto, ben altro racconta la ricerca infantile attuale. Come è noto, Jaak Panksepp [“Archeologia della mente” (2012), Cortina, 2014] ha da anni portato  dato convincenti prove sull’esistenza di sette sistemi emozionali di base, basati su specifici centri e neuro circuiti: 1) il sistema della Ricerca, del desiderio e dell’euforia, legato alla dopamina; 2) il sistema della Rabbia e della dominanza, legato al testosterone e alla serotonina; 3) il sistema della Paura e dell’ansia, legato al cortisolo; 4) il sistema della Sessualità e della brama, legato agli ormoni sessuali 5) il sistema della Cura e dell’amorevolezza, legato all’ossitocina; 6) il sistema della Tristezza, del panico e della solitudine affettiva, legati all’assenza di Cura; 7) il sistema della Gioco, della fantasia e della gioia, legati alla dopamina e all’endorfina. Ora sul sistema della Ricerca (Seek System) si è creata una interessante convergenza da parte di chi vi vede (Solms, ad esempio) un sistema motivazionale di base fondamentale che sembra coincidere con molte delle caratteristiche motivazionali della pulsione freudiana. Personalmente credo si tratti di due concettualizzazioni che provengono da metodi diversissimi ed opposti (metodo scientifico e procedimenti congetturali) e di difficile integrazione. Tuttavia non si può negare che se, nella trama, la Gioia viene eletta come un sistema emozionale di base che guida attivazione, entusiasmo, scoperta e spinta alla conoscenza e alla crescita, allora il film va letto al di fuori da ogni melensaggine alla Disney, e l’idea di un sistema emozionale ‘gioioso’ – che coniugherebbe il sistema del Gioco ed il sistema della Ricerca di Panksepp – come organizzatore della mente, non appare cosi lontano dalle acquisizioni scientifiche correnti.

PAESAGGI DELLA MENTE

Quarto: un film di bella e meravigliosa ‘visionarietà’ dei paesaggi della mente. Paesaggi fantascientifici di un pianeta sconosciuto.  Ed è davvero esuberante la varietà delle ‘monument valleys’ che caratterizzano la mente di Riley. Le biglie dai diversi colori in base alle diverse componenti emozionali, il lancio dei ricordi e delle emozioni nella mente, i compartimenti delle memorie a breve termine, le imponenti scaffalature bibliotecarie  delle memorie a lungo termine, le ‘isole’dei sentimenti stabilizzanti. Ma soprattutto risulta originale la zona onirica, tra un immenso parco divertimenti e stabilimenti di produzione cinematografica, dove, ogni notte, si programmano titoli, si allestiscono sceneggiature e si realizzano film onirici. Inevitabile la zona del rimosso, qui chiamata ‘discarica’, dove vengono eliminati i ricordi inutili e dannosi, che lentamente si dissolvono. C’è persino il Subconscio con i suoi guardiani (ma perché nei film sono fissati con questo ‘subconscio’? i consulenti psicologi non gliel’hanno spiegato che lo usavano solo gli psichiatri e gli ipnotisti nei film d’ante guerra?). Ma è geniale in assoluto la zona del pensiero astratto, dove i personaggi entrando si vanno smaterializzando, assumendo forme non-figurative, perdendo tridimensionalità fino a ridursi piatti [citazione ovvia da “Flatland”!!], fino al rischio di perdersi per sempre.

ROSEBUD

Amabile il personaggio di Bing Bong l’amico immaginario di Riley. Ma soprattutto da segnalare il colto ammiccamento cinefilo al carrettino dei primi giochi infantili, gettato nella ‘discarica’ della mente di Riley, che riprende a volare, e a riemergere dalla ‘discarica’, solo se gli si cantano le canzoncine del tempo passato; carrettino che cita alla grande lo slittino ‘Rosebud’, oggetto d’infanzia perduto dell’ Orson Welles di “Citizen Kane”.

UN APOLOGO DELLA MENTE

Quinto: un interessante apologo circa gli  effetti rovinosi sulla vita mentale determinato da una cattiva alleanza dei personaggi interni emozionalmente  negativi – paura, rabbia, disgusto – quanto non mitigati non solo dalla necessaria presenza della vitalità e del gioco e della ricerca, ma anche, udite udite!, dalla indispensabile presenza della tristezza, che in modo calibrato e regolato lega Riley ai suoi sentimenti depressivi e quindi ai ricordi stabilizzanti di base.

Direte ancora: un film leggerino su cose che noi sappiamo benissimo.

Certamente. Ma due osservazioni ancora.

ESSERE CREATIVI

La prima: che farne un prodotto artistico così articolato, ricco e complesso, che leghi una narrazione significativa, una serie di concettualizzazioni sulle vita mentale, ed una tecnica di animazione perfetta, è un’operazione creativa che solo una casa come la Pixar (sempre gli americani!) con uno staff creativo eccezionale ed un regista geniale  possono portare a termine. Pete Docter  è davvero un genio a cui si devono i grandi film d’animazione della Pixar, che, da “Toy Story” in poi, hanno creato una rivoluzione nel mondo dei film d’animazione, realizzando quei film cosiddetti per bambini che interessano enormemente gli adulti. Se questo è un film leggerino, citatemi qualcosa di filmico che sappia coniugare meglio una divulgazione scientifica con una storia accettabile e credibile, e con un ‘discorso’ semplice e ironico sulla portata e dialettica dei vari sistemi emozionali nella nostra vita interiore. Un film pieno di grazia ironica persino in battuta finale: quando verso la conclusione del film è stata ricomposta una consolle esecutiva più ampia e aggiornata, c’è un bottone molto evidente e rosso, su cui è scritto Pubertà…, ma quello, dice la voce off, meglio lasciarlo stare lì dove sta. (Altrimenti bisognerà fare “Inside out 2. Adolescenza: La tempesta perfetta”)

METAPSICOLOGIA DELLE EMOZIONI?  

La seconda osservazione, al di là dei meriti artistici del film, è un invito, come psicoanalisti, a non guardare con supponenza  – se mai ve ne fosse, ma sicuramente no – ad un’operazione divulgativa di questo tipo. Del resto – e qui il discorso si fa serissimo – che cosa potremmo obiettare se riteniamo ancora che gli affetti si polarizzino intorno a due stati soggettivi principali, l’angoscia e il piacere (con l’ansia in mezzo), se la psicoanalisi si è essenzialmente concentrata sull’angoscia e sulla perdita, se siamo ancora dubbiosi che una gamma variegata di sfumature emozionali, ben al di là di stati di angoscia e di piacere, facciano comparsa nella vita infantile a partire dai primi giorni di vita e si vadano arricchendo man mano che il bambino si va integrando? Che cosa potremmo opporre a questa ‘vulgata’ sui plurimi sistemi emozionali se ancora oscilliamo nell’attribuire agli affetti lo statuto (filosofico) di ‘qualia’, o lo statuto (metapsicologico) di processi di scarica, o lo statuto (strutturale) di ‘segnale’? Avrà qualche significato che, nello sterminato filone della ricerca scientifica sulle emozioni degli ultimi cento anni circa, non ci sia una sola citazione di letteratura psicoanalitica?  E che siamo praticamente assenti dai contributi scientifici sul tema della emozioni? Non sarà che proprio la costituzione ‘forte’, anzi ‘fortissima’, della concettualizzazione psicoanalitica intorno agli assiomi delle pulsioni e delle energie, abbia, proprio per questo, e paradossalmente, lasciato debole e sguarnito il campo di ricerca psicoanalitica su affetti emozioni e sentimenti? Lasciando una serie di fenomeni emozionali senza una precisa collocazione clinica e teorica. L’invidia primaria, tanto per citare un costrutto che ha goduto alcuni decenni di auge, è un affetto, un’emozione, un sentimento? Va inserita tra i sei o sette stati emozionali basici? O va lasciata tra i vizi capitali, come un colossale fraintendimento adultocentrico della vita emozionale infantile?

CINECLUB. UNA PROPOSTA

Insomma, anche una intelligente sciocchezzuola come “Inside Out”, potrebbe riscattarsi dallo statuto di sciocchezzuola pixariana e alla fine sollecitare un dibattito aziendale interessante.

A fine proiezione quindi, dibattito in sala su “Affetti, emozioni e sentimenti. Ieri, oggi, domani e sempre”. Purché non finisca, fantozzianamente, come per “La corazzata Potëmkin”. (Ma prima leggere Panksepp…)

Settembre 2015

 

Commento di Maria Chiara Risoldi

Inside Out piace ad adulti, giovani e non, piace ai bambini e, almeno a quelli presenti al cinema con me, sì, potrebbe piacere perfino agli adolescenti. Immagino che possa inoltre piacere moltissimo agli specialisti della psicologia e in generale delle neuroscienze, per la profondità degli studi e della ricerca che sono alle spalle del film e che appare perfettamente evidente. Al di là delle diverse scuole teoriche di appartenenza. Mi piace immaginare anche che sarebbe piaciuto moltissimo ad Alice Miller. Il dramma della bambina dotata, l’undicenne Riley è descritto con precisione e meticolosità. Di fronte ad un trasferimento di città con conseguente perdita di amicizie, squadra, scuola e con vari guai che il trasloco comporta, Riley rimane sorridente e allegra, tanto che la madre, dandole la buonanotte la prima sera nella nuova casa, le dice: “Che cosa abbiamo fatto per meritarti?” non cogliendo quali costi la figlia stia per pagare. Per la bambina l’impatto con la nuova scuola è traumatico e il film rappresenta efficacemente il trauma. Le emozioni si sgretolano, gioia e tristezza in particolare. Senza descrivere troppi dettagli la bambina arrabbiata e distaccata per il trauma dagli affetti familiari, organizza la fuga da casa. Mentre è sull’autobus qualcosa si risveglia in lei, scende e, sana e salva, torna dai genitori, che finalmente la capiscono e le consentono così di liberarsi della rappresentazione di bambina sempre felice e sorridente e potere esprimere, senza più timore di ferirli, tutta la rabbia e la tristezza per il trasferimento e la perdita delle cose da lei amate.

C’è chi ha scritto che il film sia anche un riscatto e un elogio della tristezza, perché è questa l’emozione che consente a Riley di elaborare il lutto della perdita degli oggetti amati. In parte è senza dubbio così, anche se la tristezza agisce anche grazie al ruolo che svolge gioia, che finalmente rinuncia al ruolo di capo indiscusso del gruppo delle emozioni, lasciando adeguato spazio a tristezza. Ma c’è un aspetto che gioca un ruolo fondamentale e che è meno citato negli articoli che mi è capitato di leggere. La svolta delle vicende emotive interne la decide l’amico immaginario che si aggira nei magazzini della memoria. Senza entrare in dettagli, che rovinerebbero la sorpresa di trovate deliziose che rappresentano nel film la mente, la memoria e la rimozione, il personaggio dell’amico immaginario, ed il suo superamento, mi ha entusiasmato e incuriosito. Giacchè è grazie a lui, sostanzialmente, che la bambina recupera la fiducia nella vita, nel futuro e soprattutto nei genitori e interrompe la sua pericolosa fuga notturna da casa, mi sono chiesta che cosa avessero voluto rappresentare gli autori del film. Infatti, ogni dettaglio ha un senso e tutto è creato con meticolosa cura scientifica da non consentire di pensare che un personaggio così decisivo sia solo una licenza poetica e fantasiosa, senza radici nelle ricerche e negli studi degli autori del film. Alla ricerca dunque del significato dell’amico immaginario, oltre alla ovvia importanza che ha l’immaginazione nelle vicende dei singoli individui, mi sono risposta che l’amico immaginario sia una efficace rappresentazione dell’istinto vitale, vera chiave di volta delle vicende dei singoli individui. Istinto vitale e immaginazione. Dotazioni non scontate e ovvie, non uguali per tutti, che fanno la differenza. Quella differenza che incontriamo continuamente nel nostro lavoro quotidiano, che ci interroga di fronte ai traumi individuali, così come a quelli collettivi e che tecnicamente viene anche chiamata resilienza. La resilienza proposta con l’immagine dell’amico immaginario, che nel film ha il corpo di zucchero filato, la coda di un gatto, la testa di un elefante, ma evoca anche un delfino ed è rosa, dotato di un carretto, che è anche un razzo, e che compiuto il proprio compito, svanisce (per il momento?) l’ho trovata una invenzione impagabile.

Settembre 2015

 

Commento di Pietro Rizzi

“Non scherzare con la psiche!”, ovvero inside … “Inside out”.
Una nota su “9-1+1=è abbastanza per te ?”

Premettendo che …

Roberto Goisis, nel suo intervento a proposito dei due film in questione, suggerisce in modo “impertinente” di cogliere quella che si potrebbe chiamare la loro “complicità”, pur nella loro evidente, enorme differenza. Cosa possono avere in comune il colosso Pixar/Disney, rivolto al pubblico mondiale, e un raffinato esercizio di sperimentazione/ricerca visuale con un titolo significativamente enigmatico, come “9- 1+1= è abbastanza per te?” Sono agli antipodi, suggerisce Goisis, eppure hanno qualcosa di sostanziale in comune. Quanto segue prende le mosse da questa acuta suggestione: la premessa è accettare l’idea di una “complicità” di fatto, non certo voluta, eppure esistente. E se c’è complicità, c’è anche una sorta di destino comune, che sta a noi scoprire. Anticipando la risposta più banale, il terreno comune è l’immagine della mente: mostrata esplicitamente in “Inside out”, suggerita ma per così dire sperimentata direttamente nel film di Federico Tinelli. E, andando in là, scopriamo che dal reciproco attrito dei due film emergono quei fenomeni inediti, quelle strade mentali alternative che senza saperlo ci portiamo dietro, nella nebulosa di pensieri, fantasie, emozioni corrispondente all’idea della nostra stessa mente e dei suoi contenuti.
Perché “Inside out”?

Il successo straordinario e trasversale di “Inside out” nasce appunto dal fatto di aver intercettato un antico desiderio – infantile e in seguito adolescenziale – di vedere messo a nudo, portato alla luce quel mondo interno che a quel tempo ci sembrava così complicato e misterioso: ‘inside out’ non per nulla, si legge nelle istruzioni che richiedono di lavare un indumento delicato rivoltandolo dentro/fuori. Entra qui T.O.M., come la chiamano in psicologia dello sviluppo e in clinica: “Theory of Mind”, la teoria della mente che si forma insieme a diverse altre “teorie” infantili riguardanti il funzionamento delle cose, dalle più semplici a quelle più ardue, come 1 l’universo, la natura, la vita e la morte e – come hanno scoperto proprio gli psicoanalisti – la sessualità, la generazione e la propria specifica origine. T.O.M. ha una particolare importanza e pregnanza, perché implica il riconoscimento dell’Altro, fondamento prima delle relazioni primarie, poi dei modelli affettivi che ne seguiranno – dato che non sono certo i troppo spesso evocati neuroni-specchio a fare tutto il lavoro. Una “teoria della mente” confusa e oscillante non è certo un buon sintomo di salute mentale. Ecco che, con una eccezionale competenza visivo-cinematografica, “Inside out” è riuscito a rendere percepibile e per così dire tangibile quel mondo di operazioni mentali – e, non dimentichiamolo, affettive – che la nostra T.O.M. artigianale si limitava a presupporre, con una sorta di bricolage talvolta piuttosto bizzarro: e questo, inutile negarlo, vale anche per gli “specialisti” della questione. Un desiderio infantile dimenticato, o rimosso – controllare la propria mente, sia pure nella fantasia – che improvvisamente si realizza sotto gli occhi di milioni di persone. E’ lì, evidente, ed è anche divertente: perché, qui più che mai, lo spettatore gode della sua posizione, appunto di chi guarda lo spettacolo, senza esserne coinvolto nella sua parte adulta, ma identificandosi e giocando con le proprie parti infantili colorate, allegre e destinate a un sicuro lieto fine, promesso dalle regole non scritte, ma ferree, del genere. La Pixar non tradisce, ancor meno la Disney: la globalizzazione, per quanto riguarda le favole, può risultare rassicurante. Di qui, anche, l’entusiasmo, se non l’euforia. con il quale la vicenda di quelle cinque emozioni fondamentali sullo schermo è stata accolta. L’astuzia registica si misura tutta nel rendere la Gioia-euforica, tra le cinque, come la vera protagonista, il pilastro del benessere e di tutta la storia, la quale del resto coincide con la Mente stessa, Mente qui non a caso con la maiuscola.

Visibile e invisibile

La mente è entrata, con “Inside out”, nel regno del visibile. Ma in tal modo è stata implicitamente assimilata all’altro “organo” dotato più di ogni altro del privilegio della visibilità, il cervello: reso “visibile” grazie alle tecniche di neuro-immagine, ma soprattutto dalla loro disseminazione indiscriminata nell’immaginario popolare. E non dovrebbe sfuggirci il fatto che il “vedere” diventa in tal modo “capire” e “spiegarsi” i 2 fenomeni più vari e soprattutto le relative cause e processi, quasi senza mediazioni – secondo una antichissima tradizione della scientificità popolare, che la divulgazione negli ultimi decenni non ha fatto che rinforzare. “Inside out” arriva a concludere questo processo, annettendo insieme mente/cervello/visione/conoscenza e soprattutto. Implicitamente, controllo. Così, la mente appare non soltanto popolata di rappresentazioni – come già pensava Freud stesso – ma come fosse una rappresentazione essa stessa, ovverosia un campo immaginario, eppure dotato di realtà, entro il quale tutto il mondo interiore si fa oggetto, figura, forma spazio-temporale tangibile. Anche perché il “cartoon”, evocando un’esperienza infantile precocissima e ormai comune a quasi tutti i bambini occidentali, quella di guardarli in TV “a portata di mano”, crea una sensazione tattile che altri generi cinematografici non consentono. Insomma, la mente diventa in tal modo, e sempre di più, una macchina sofisticata ma controllabile e interamente comprensibile, quindi manipolabile a piacere – esattamente come sembra essere diventato il sistema nervoso soggetto alle scansioni elettromagnetiche, e gli organi del corpo, e il corpo stesso, leggibile in tempo reale e a piacimento. Stiamo attribuendo a un film di cartoni animati, sia pure digitali, un’importanza che non ha? Forse, ma è certo che è stato visto – e apprezzato, talvolta in modo entusiastico – da milioni di persone in tutto il mondo; e la condivisione di certe idee, di certe emozioni, da individuale si è fatta collettiva. La Pixar ha sempre avuto una grande attenzione per il mondo psichico e una grande efficacia nel rappresentarlo: “Wall-e”, “Coraline”, “Up”, persino “Monsters and Co.”, sono dei piccoli capolavori, in cui si specchia l’universo adolescenziale con tutte le sue sfumature più variegate e spesso sorprendenti, ma sempre con un tocco tra l’ironico e il giocoso, tra il sofisticato e l’ingenuo, che li rende affascinanti – e graditi anche agli adulti. “Inside out” – un prodotto Pixar + Disney – ha assunto piuttosto il determinismo e la determinazione della macchina da guerra, senza margini di improvvisazione e incertezza. Fin dall’inizio, la storia della ragazzina/protagonista segue un percorso del tutto prevedibile; di conseguenza le rappresentazioni del suo mondo interiore, superata l’inevitabile, piacevole sorpresa dello spettatore nel vederlo rappresentato così vivacemente, a ben vedere assumono il carattere di perfetti meccanismi di una macchina 3 a orologeria. E’ pur vero che buona parte del film consiste in una vertiginosa cavalcata/avventura dell’emozione dominante, non a caso la Gioia, attraverso il paesaggio immaginario offerto dalle strutture della mente – dalla memoria al pensiero, dai sogni al “compagno immaginario” – in un succedersi di invenzioni/rappresentazioni visivamente assai originali e affascinanti: ma proprio questa inaudita ricchezza finisce per saturare l’attenzione e l’immaginazione dello spettatore, al quale viene impercettibilmente sottratta la sua parte del gioco. Quale sia questo gioco, non sempre è facile riconoscerlo: nella mente dello spettatore, è la capacità preconscia di “muoversi”, tra le scene offerte dalla storia che sta scorrendo di fronte a lui, in modo da non sentirsene completamente vincolato e assoggettato. E’ la capacità di immaginare istintivamente dei “contro- esempi” – ipotesi completamente diverse rispetto agli eventi in corso – o dei “contro-fattuali” – percorsi alternativi degli eventi, se si fossero verificate altre scelte in passato. Controesempi e contro-fattuali non sono solo quello che viene prodotto dalla mente quando “discute” del film – o di qualsiasi prodotto artistico – dopo averne fruito, ma sono eventi mentali che avvengono già durante la visione, la lettura o l’ascolto, e permettono di “allargare” i propri territori mentali al di là delle previsioni e dei limiti abituali. Questa esperienza – che si esprime nel piacere di avere visto un “bel film” e di portarlo con sé – è quella che differenzia il prodotto mediocre da quello qualitativamente superiore, con quel “certo non-so- che” capace di farlo ricordare a lungo. Ebbene, in “Inside out”, tutto è talmente scintillante, colorato, immaginifico, che rimane poco spazio alla “nostra” immaginazione: siamo costretti – anche noi “Psy” – a inseguire il modello che ci viene proposto, senza avere il tempo di creare, appunto, le ipotesi alternative. Ma qual è, in realtà, il modello che ci viene proposto, come se fosse indiscutibile e corrispondente al “dato” scientifico – e anche questo è un sottinteso non insignificante? Natura e cultura Le cinque emozioni fondamentali che sono l’asse portante della storia, non sono lì per caso. Vengono da una lunga tradizione della ricerca empirica cognitivista e 4 evoluzionista che, ispirandosi alle teorie darwiniane, si è sforzata di individuare basi comportamentali innate, comuni non solo alla specie umana ma anche alle specie limitrofe, le scimmie cosiddette antropomorfe – i gorilla, i gibboni, gli scimpanzé, i bonobo, gli oranghi. Le emozioni fondamentali funzionerebbero quali difese e guardiani della sopravvivenza, quanto meno allo stato di natura: il problema è se mantengano lo stesso significato nella vita associata attuale. Ispiratori di “Inside out” sono due psicologi californiani, Paul Eckman e Dacher Keltner, che sono appunto interessati a questo tema. Paul Eckman in particolare ha studiato per molti anni le espressioni facciali delle emozioni primarie, giungendo alla conclusione che sono sostanzialmente identiche, o assimilabili, indipendentemente dall’etnia, dalla cultura, dall’età e dal sesso di chi le manifesta. Con le sue tesi, ha ispirato fortunate serie TV, come “The mentalist” e “ Lie to me”. Non si tratta ora di discutere questo tipo di ricerche, quanto di rilevare l’opzione naturalistico/biologica che le sostiene, cui si aggiunge una sorta di utilitarismo pseudodarwiniano, in base al quale l’emozione vincente è quella socialmente più efficace, quella che permette di prevalere nella competizione quotidiana e di ottenere maggiori soddisfazioni. Ecco perché protagonista indiscussa di tutto il film è la Gioia, che domina sulle altre emozioni. Si può dire che i due terzi del film consistono nella sua interminabile cavalcata attraverso varie regioni della mente, che la Gioia percorre in preda a un’eccitazione inarrestabile, trasformandosi a poco a poco nella figura dell’Euforia, cosa che del resto è tipica di questo genere di film. Solo alla fine,con una sorta di colpo di scena, Gioia e Tristezza imparano a convivere, e dalla loro integrazione nasce un nuovo paesaggio interno che riporta la ragazzina Riley sulla … retta via. Non fuggirà da casa, abbraccerà di nuovo i genitori, ricostruirà sé stessa e i suoi ricordi si faranno più realistici.

Happy End?

Non c’è dubbio che gli sceneggiatori e registi Pixar – J. Lasseter, P. Docter – conoscono bene il loro mestiere e sanno dialogare in modo originale col loro pubblico, che a questo punto si estende a tutto il mondo. “Inside out” è un condensato di inventiva visuale, capacità narrativa, godibilissime soluzioni scenografiche e di sceneggiatura. Nessuno si 5 sarebbe aspettato, fino a qualche tempo fa, un’impresa produttiva così rischiosa e audace. E di successo. Eppure qualcosa resta fuori da questo circolo “magico” dove convivono felicemente l’imprevisto e l’abituale, l’invenzione e l’armonia, come nella grande musica. Sono le “regole narrative” del genere a creare uno sbarramento insuperabile. E’impossibile far rientrare in questo piccolo trattato di teoria della mente, ciò che caratterizza davvero lo psichismo umano e lo rende originale: sono gli affetti e i sentimenti, nei quali possiamo certo trovare le emozioni di base che li costituiscono, ma che sono strutture ben più complesse, continuamente cangianti e in movimento. Sono strutture che vivono nel tempo e col tempo fanno continuamente i conti. In “Inside out” il tema è presente nella rappresentazione della Memoria, vista come un immenso Archivio di dati in continua ristrutturazione. Ma per rendere l’idea della temporalità psichica diventa necessario moltiplicare i passaggi, gli attraversamenti del Pensiero, dei Sogni – e infine di quel Buco Nero che dovrebbe rappresentare l’Inconscio … un Inconscio simile a una palude oscura, vera immagine di qualcosa di infernale. E forse in questo c’è qualche suggestione interessante, per lo spettatore d’oggi. Non si tratta evidentemente di chiedere a un film della cultura “pop” qualcosa che non può dare. Ma è proprio questo il punto: quanto le immagini/rappresentazioni in movimento, possano trovare, nonostante tutto, il proprio limite espressivo nella rappresentazione della temporalità psichica, dato fondamentale della mente umana.

Solo il linguaggio …

Un film come “Inside out” convoca inevitabilmente una riflessione sul rapporto tra l’immagine visiva – il visuale – e la parola nelle sue varie manifestazioni. Può davvero esistere un racconto fatto solo di immagini? Non c’è dubbio; ma senza una narrativa, la mente è destinata a non poter essere oggetto di auto-percezione. La soggettività, in generale, appare soltanto come effetto ottenuto attraverso un dialogo interno – consapevole o meno – ed è proprio quello che manca alla piccola Riley, nel film. La sua storia si manifesta piuttosto come un tessuto di eventi ricordati, che lo spettatore, certamente, si incarica di rendere significativi. La nostalgia che da un certo momento in poi tormenta l’animo della ragazzina sembra creata dalla mente dello spettatore più che 6 dalle narrative interne alla storia. Mancano drammaticamente le parole, non solo quelle della ragazzina, ma ancor più quelle dei genitori, descritti fondamentalmente come afasici, oltre che mentalmente distanti. Si verifica così una sorta di distorsione, nel corso del film, che tende a passare inosservata per il ritmo accelerato degli eventi e delle relative emozioni che si riversano sullo spettatore – con una modalità che talvolta “vira” verso l’eccitazione isterica, stile narrativo che, del resto, è tipico di questo tipo di cinema. Si tratta di una specie di inversione tra quanto rappresenta il “contenitore” – la mente di Riley – e il suo “contenuto”, fatto di emozioni, strutture operative, banchi di memoria, e così via. La “mente” o, nel nostro linguaggio, l’Io si allontana verso un orizzonte sempre meno percepibile, proprio a causa della debolezza delle sue narrative interne – la scomparsa delle parole, in altri termini – che lasciano spazio soltanto a gesti, comportamenti, esclamazioni, messaggi operativi. La mente di Riley perde, nella parte centrale del film, la capacità di sintesi, in un certo senso si “ammala” di una – transitoria – nevrosi d’angoscia, contro la quale la sua rappresentante “vitale”, la Gioia, si lancia con tutta l’energia di cui è capace. Il “gioco di prestigio” del film – probabilmente quello che tanto affascina adulti e bambini, ma soprattutto i primi – consiste nel riempire lo schermo con la figuretta luccicante/luminosa della Gioia, trasformandola nella vera “persona” in campo, quella che riesce a ristabilire la “salute” mentale e l’equilibrio vitale compromessi dai vissuti di perdita e lutto che Riley non è in grado di sopportare.

Una lezione di Psicologia Dinamica?

Forse stiamo attribuendo a “Inside out” intenzioni e meriti che non sono suoi. Ma è certo che, analizzandone le implicazioni, il film si presta a una serie di considerazioni e “scoperte” che aprono a letture ancora più complesse di quelle, pur raffinate, che siamo soliti fare con la nostra ottica psicoanalitica di “primo livello”. Il lato interessante, almeno per noi, di tutta l’operazione culturale sottintesa da “Inside out” risiede nella trasformazione, che si verifica nel corso del film, del “modello della mente” iniziale, semplificato, cognitivo-comportamentale ed evoluzionistico, in un modello molto più sofisticato, dove appaiono aree mentali non descrivibili in quei termini – i sogni, il pensiero, l’inconscio – e non riducibili a cognizioni/comportamenti, e dove, soprattutto, avvengono conflitti tra forze e rappresentazioni contrapposte. Si passa, in altre parole, da una visione della mente piuttosto meccanica, basata sulla 7 coppia azione-reazione, ad una visione che potremmo definire psicodinamica e prossima alla psicoanalisi. Del resto, è stato notato che i registi e gli sceneggiatori della Pixar, o almeno del suo ceppo originario, sembrano aver assimilato, forse senza averne piena consapevolezza, il modello psicoanalitico come è stato trasmesso dalla Psicologia dell’Io: istinti, difese, affetti, relazioni, ecc. Perché allora non si è scelta quella strada? Siamo nel campo delle ipotesi, ma possiamo pensare che la differenza risieda nelle scelte produttive. L’investimento su “Inside out” è stato enorme ed è venuto dalla Disney, il partner dominante nella associazione con Pixar. Disney significa “progresso senza avventure” e lo si vede nel modo in cui viene trattato il “ritorno all’ordine” della piccola Riley e dei suoi familiari. Non troppo zuccheroso, ma solidamente impiantato nei valori della comunità e della famiglia. Di conseguenza, niente psicoanalisi, piuttosto l’attuale mainstream cognitivocomportamentale, più sicuro sotto tutti i punti di vista. Anche se, al dunque, diviene necessario introdurre qualcosa di più complesso, una psicologia dinamica che però non si manifesta come tale. Un aspetto che può forse avere tratto in errore quanti hanno trovato il film meritevole di interesse in quanto capace di offrire, della vita psichica, un’immagine soddisfacente. Se questo è avvenuto, è per quello che è stato trasmesso nonostante l’impianto di partenza: il che non significa che il film non sia stato godibile e eccezionalmente stimolante per un pubblico assai vasto e vario, compresi gli psicoanalisti!

 

Commento di Rossella Valdré

Anche i più reticenti, come me, nei confronti del genere d’animazione, di fronte ad Inside out si devono necessariamente ricredersi: realizzato dai Pixar Animation Studios e diretto da Pete Docter insieme al co-regista Ronnie del Carmen (basato su un’idea originale dello stesso Docter), Inside out realizza, infatti, un piccolo capolavoro. Sintesi perfetta e mai eccessiva tra raffinatezza grafica, originalità narrativa e squisito scavo psicologico, o persino più propriamente psicoanalitico, questo secondo film del geniale Pete Docter – già esordito a Cannes nel 2009 con “Up”, primo film d’animazione ad aver aperto un Festival, a dimostrazione di come il ‘genere’ si sia oggi evoluto in forme contenutistiche e stilistiche decisamente al di là del film ‘per bambini’- sorprende piacevolmente per molte caratteristiche, ma, dal nostro punto di vista, soprattutto una: la magia d’aver saputo incarnare il mondo oggettuale interno di una bambina.

Se, infatti, con “Up” il regista prendeva le mosse dalla vecchiaia ed evocava la narrazione “da fuori”, in Inside out il focus è posto sull’altro polo della vita, l’infanzia, e sull’esclusivo dominio del mondo interno e dei suoi personaggi, le emozioni. Perciò ho parlato di un film finemente psicoanalitico, più che semplicemente psicologico.

Quella che seguiamo è, infatti, la vita della giovane protagonista, Riley, e dei suoi complicati passaggi di ragazzina di undici anni: non più bambina, non ancora adolescente, Riley, circondata da affettuosi genitori e attrezzata del suo bagaglio di emozioni che letteralmente ‘abitano’, come personaggi di un sogno, il suo mondo interno, deve attraversare quel delicato guado in cui si perdono le certezze dell’infanzia per accedere a una nuova, ignota, ma affascinante complessità. Il ‘passaggio’ è reso anche atto concreto dalla necessità di un trasferimento: Riley e i genitori devono, infatti, trasferirsi dal Minnesota a San Francisco, dove li aspetta una nuova vita.

La svolta è drammatica: il quartier generale delle Emozioni, popoloso e vivace mondo oggettuale interno, è messo repentinamente in subbuglio. Niente è improvvisamente più come prima. Gioia, elegante nella sua figura snella, che ha finora tenuto le redini della felice infanzia di Riley, insieme all’inseparabile Tristezza che, sotto i suoi tenerissimi occhialoni non fa che lamentarsi, perdono il controllo del quartier generale delle Emozioni lasciando le altre tre – Rabbia, Disgusto, Paura – a governare la complicata faccenda.

A San Francisco, infatti, Riley ha una scottante delusione: la aspetta una casa disadorna e le mancano i suoi oggetti, ha perduto gli amici e l’adorato lago ghiacciato dove fare hockey, e con i nuovi compagni di scuola, adombrata com’è da Tristezza, non riesce a integrarsi. Che fare, che accade dentro di lei?

Seguiremo per tutto il delizioso film le peripezie di Gioia e Tristezza (acutamente inseparabili fin dalla nascita) decise, guidate dall’ottimismo di Gioia ma via via anche del ruolo sempre più necessario di Tristezza, a tornare al loro posto di comando per riportare Riley alla felicità perduta.

Non di sole cinque Emozioni fondamentali si compone il vivace mondo interno di Riley, e di tutti gli esseri umani: esse si trovano ad avere a che fare col complesso, labirintico, in parte inconscio meccanismo della mente. Fondamentali sono i Ricordi: i Ricordi di base, belli e brutti, che hanno segnato gli antichi traumi e i momenti essenziali; la memoria a lungo termine; le Isole della personalità…il tutto a contribuire, a completare quel marchingegno miracoloso, che ora ci assiste così come ci può abbandonare, che è il funzionamento della mente. Nel loro viaggio rocambolesco per tornare al quartier generale, Gioia e Tristezza incappano in diversi personaggi e scenari: incontrano il tenero Bing Bong, gatto-elefante-delfino, l’amico immaginario di Riley bambina ormai abbandonato, ma che, conoscendola nel profondo, è in grado di aiutarli. E’ attraverso l’accesso alla zona dell’Immaginario, infatti, che Gioa e Tristezza trovano insperate risorse: possono far ricorso al teatro del sogno, modificandolo a seconda di cosa si muove nell’inconscio della bambina; possono salire al volo sul Treno dei Pensieri e, particolare non da poco, per la prima volta accedono alla Zona pericolosa del Pensiero Astratto. Uno degli accessi all’ignoto che Riley, col suo concerto emotivo, deve affrontare: le cose non saranno più solo concrete, si entra in un territorio, con l’astrazione, che permette grandi viaggi, ma anche grandi rischi. Nel frattempo, sperduta senza il supporto delle sue Emozioni, nelle sole mani di quei pasticcioni di Rabbia, Disgusto e Paura, Riley non sopporta la nostalgia di casa e, sotto l’effetto di Rabbia, decide di fuggire in autobus da San Francisco per tornare in Minnesota.

Gioia e Tristezza, mentre cercano di raggiungerla, assistono impotenti a intere Isole di personalità di Riley che franano: l’Isola dell’Onestà (poiché per il bus deve rubare i soldi alla mamma), dell’Amicizia, dell’hockey tanto amato, perché perde la prima partita nella nuova squadra, persino l’Isola della Famiglia, nido tanto rassicurante fino ad allora. Le Emozioni di Riley, tuttavia, sono tenaci e ben allenate e non la abbandonano: se così fosse, nell’attimo in cui sale sull’autobus, si aprirebbe la peggiore delle condizioni. Essere senza emozioni. Occorre chiamare in causa quella guastafeste di Tristezza: anche se Riley ha avuto la fortuna di un’infanzia dominata da Gioia, ora le cose si fanno più complesse, e per farla tornare sui suoi passi attraverso il ricordo e il rimorso, occorre il contributo di Tristezza.

Abbandonato l’amico immaginario (come non pensare al “gemello immaginario” di Bion? Agli oggetti transizionali di Winnicott?), eliminati dalla pulizia della mente Ricordi inutili e ingombranti, ma mantenendo quelli di base su cui si fonda la sua identità, una volta tornate al quartier generale Gioia e Tristezza, la vita può riprendere. Non sarà più come prima, però: macchinari più complicati, una ‘console’ dei comandi più grande…la mente si è ampliata. Per accedere a Pubertà (cosa sarà? Si domandano stupefatti) qualcosa della beata infanzia va mantenuto, qualcosa va lasciato, e Gioia non può cavarsela da sola: anche Tristezza, con la sua anche dolente capacità nel farla pensare, deve fare la sua parte.

Meraviglioso messaggio: chi dice mai ai bambini che anche della Tristezza, se calmierata dalla Gioia, c’è bisogno?

Morale positiva, senza scivolare né nel magico né nel buonismo, ai molti bambini e i pochi adulti presenti: di Emozioni c’è assoluto bisogno, di ‘tutte’ le emozioni. Per crescere, per vivere. Del loro concerto armonico, del loro bilanciamento dentro di noi. Di memoria, di Ricordi, c’è altrettanto bisogno, pena uno smarrimento identitario che rischiava di fare di Riley una ragazzina perduta, senza più un Sé, e anche di Immaginario c’è bisogno, che con le sue bizzarre e infinite risorse ci apre porte, come l’insidioso Pensiero Astratto, inaccessibili nell’infanzia. E del Sogno, c’è bisogno, che si apre e chiude secondo desideri e urgenze non pertinenti alla veglia, e certamente della valle profonda dell’Inconscio (qui chiamato Subconscio) c’è bisogno, dove “finiscono quelli che non si vuole vedere”: le Isole che compongono la personalità, solide e fragili al tempo stesso come zolle emerse dal mare, sono pronte a franare se uno di questi elementi è fatto fuori. Ma la direzione del concerto, senza dubbio, spetta alle Emozioni.

Poteva il più raffinato, il più creativo degli psicoanalisti infantili o meno, produrre una “mise en scène” più perfetta? Se mai era necessario, dobbiamo ancora una volta agli artisti il merito, come Freud ci ha sempre ricordato, di arrivare al cuore delle cose molto prima, molto più efficacemente di quanto non facciano le nostre necessarie, ma a volte complicate teorie.  Il solo titolo, Inside out, è pura psicoanalisi: è da dentro che vediamo il fuori, che il bambino crea, inventa la realtà. Ai geniali sceneggiatori e registi, il merito di avere ‘tradotto’ in un linguaggio narrativo originale e graficamente perfetto, corredato da dialoghi accattivanti e insieme profondi, il complesso linguaggio interno delle Emozioni. Come diceva Picasso, i colori seguono i cambiamenti delle emozioni: ecco allora la verde Gioia accanto alla blu Tristezza, le palline di colori diversi che contengono i Ricordi, il rosso furente di Rabbia. Che delizia di intelligenza, cinema, psicoanalisi e sogno, per grandi e piccoli!

Non si perdano i titoli di coda nella fretta: il gioco emotivo interno si estende, per qualche divertente minuto, persino a cani e gatti.

All’uscita dalla sala gremita al novanta per cento di bambini, inconsapevoli credo di trovarsi di fronte ad un prodotto tanto elaborato, sorge spontanea la domanda: avranno compreso? Si saranno riconosciuti, si saranno visti? Sarà giunto il messaggio fondante:

 “Innanzi tutto, l’emozione! Soltanto dopo la comprensione”                                                                                                             (Paul Gaugin)

settembre 2015

 

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