Cultura e Società

La vita di Adele – 2

5/11/13

Di Abdel Kechiche, Francia, 2013, 179 min

commento di Rossella Valdrè

 “L’uomo è un’inutile passione”

(J.P. Sartre)

 

Palma d’Oro a Cannes 2013, La vita di Adele è un film semplice e insieme complesso, dai molteplici registri narrativi. Nella lunga proiezione (lunga rispetto alla durata media, ma per me gradevole, essendo in generale un’amante dei film, come dei romanzi, lunghi) abbiamo modo di coglierne diversi. Trattandosi, dai titoli di coda, dei capitoli 1 e 2, è possibile che vi sia un seguito.

Sulla carnale e appassionata omosessualità delle due protagoniste – splendide e intense Adele ed Emma che prestano generosamente i loro corpi e volti senza lasciare mai la macchina presa – come sempre la critica ha già speso molte parole. Non mi ci soffermerei oltre, se non per notare due aspetti che da un po’ di tempo mi paiono curiosi: l’assoluto interesse del cinema ‘da festival’ francese per il mondo omosessuale (sempre a Cannes ha fatto molto parlare anche Lo sconosciuto del lago di Alain Giraudie) e il fatto che, per trovare vere e classiche storie d’amore, bisogna ormai cercarle nel cinema che narra l’amore omosessuale. Da I misteri di Brokebach Montain del 1995 in poi, fino al recente Gérontothofilia presentato al Festival di Venezia, in uscita in Italia a maggio (vedi link su spiweb), passando per pellicole minori o aspetti marginali di film diversi, i canoni del genere sentimentale-erotico classico, dove i criteri essenziali siano la passione, la terribile sofferenza amorosa, l’abbandono e la gelosia, l’ineluttabilità del sentimento mai completamente corrisposto secondo l’aspettativa di uno dei due, il finale spesso drammatico o comunque non a happy end, il dolore inconsolabile, si ritrovano oggi principalmente in questi cocenti drammi d’amore omofilo, di cui La vita di Adele è un perfetto esempio. Straordinaria capacità del cinema, ancora una volta, di raccontare la realtà, di testimoniare, senza giudicare, la contemporaneità prima di ogni altra forma espressiva? Certamente sì: alla crisi della coppia coniugale, basata sul vincolo eterosessuale, allo smarrimento del maschio e del Padre di cui tanto si discute, alla confusione e alla debolezza dell’uomo e della donna contemporanei di fronte alla responsabilità della complessità dei legami e dei ruoli così mutati, il mondo gay (mi si passi la brutta, ma corrente definizione) risponde con l’orgogliosa marcia per i propri diritti, che anche in Adele non manca: siamo capaci di amare, sembrano urlare, “vogliamo” amare, avere figli, sposarci.

Lungi dall’essere solo una rivendicazione di diritti (la quale, credo, pur legittima, ne fa da copertura) la vitalità straripante, forse repressa per molti anni, dell’amore omosessuale si declina oggi in struggenti e splendide narrazioni che posso solo definire come storie d’amore. Sono le nuove Via col vento, i nuovi drammi del cinema romantico anni ’50-’60, che ha visto infinite pellicole radicate nell’immaginario e nella memoria di ognuno di noi, le “storie” di Adele ed Emma: la cifra stilistica contemporanea, ormai finalmente libera dalla censura, non può non arricchirla (o talvolta impoverirla, ma non è questo caso) con una carnalità rivelata impensabile in passato, ma ugualmente sottesa in mille crepe e doppi sensi. Qualcuno ha parlato, infatti, per La vita di Adele, immancabilmente di film-scandalo.

Ma dove sarebbe qui lo skandalom, l’inciampo della morale? La carnalità dell’amore tra le due ragazze è forte, ma semplice e pulita, le pur lunghe sequenze sulla loro reciproca scoperta del corpo hanno più il sapore, a mio avviso, di una scoperta d’identità, che non un offrirsi al voyaerismo dello spettatore. Il quale, infatti, a differenza che in altri film apparentemente meno scabrosi, non sembra particolarmente turbato.

Fatta questa premessa (forse inutile, ma che, all’ennesimo film di questo tipo, non potevo non segnalare come interessante presa del cinema sul mondo in cui viviamo), torniamo a quelli che abbiamo chiamato i molti registri del film.

Un altro è senz’altro l’adolescenza. In La vita di Adele compaiono solo volti-corpi giovanissimi, o bambini (poiché Adele, rinunciando alle sue incerte passioni letterarie, fa la maestra). Lo si potrebbe definire quello che un tempo si chiamava romanzo, o poema di formazione. Adele è una diciassettenne, tormentata e intelligente, curiosa di apprendere a scuola e piena di ammirazione per gli insegnanti dalla cui bravura “dipende”, come lei stessa dice, il suo andamento scolastico (dipendenza che ritroveremo nel legame amoroso), ma circondata da compagne invidiose e grette, con quella feroce crudeltà che solo gli adolescenti, quando feriti nel loro narcisismo, sanno esprimere. Ne invidiano la bellezza (paffuta e morbida bellezza della bambina, prima ancora che dell’adolescente), ne colgono la sottile aurea di mistero che ben presto si rivela. Ad Adele piacciono le ragazze: il suo sguardo affamato d’oggetti incrocia quello di Emma, studentessa d’arte di poco più grande, più esperta e un poco più segnata dalla vita, il magnifico sguardo obliquo e dolente marcato da occhiaie pensose, che sembrano offrire un appoggio alla crescita pulsionale ancora caotica di Adele.

Nel doloroso crocevia adolescenziale, dove la pulsione, in alcuni più che in altri, fa percorsi e tentativi tortuosi prima di trovare il suo oggetto e il suo orientamento, mentre Emma si è assestata in una scelta oggettuale femminile definitiva, non celata ma, anzi, sostenuta dal suo ambiente artistico, troviamo Adele ancora, nella prima parte del film, alle prese con i risvegli di una sessualità (o meglio, una psicosessualità) che la tormenta e la confonde. Attraverso l’incontro con Emma, Adele capisce.

L’urgenza si placa, trova il suo oggetto: è la felicità, è tutto per Adele, non le occorre altro. Senza che il regista vi si soffermi (il franco-tunisino Abdel Kechiche, già premiato per film precedenti di cui il più noto è forse Cous-cous), l’ambiente e la vita precedente di Adele le sfumano alle spalle: la scuola e i vaghi sogni di scrivere, il gretto circolo delle amiche (malriuscito tentativo di sublimare l’omosessualità nel gruppo dei pari), la famiglia.

Si trasferisce da Emma, tenta di “piacere” ai colti amici di lei, impara a mangiare ostriche lei che si abbuffava di spaghetti e dolciumi in quella tipica compulsività adolescenziale, ma non dura a lungo, non basta.

 

Veniamo così all’altro registro, quello su cui m’interessa maggiormente puntare il riflettore: il conflitto Natura/Cultura. Può durare, può esistere l’amore appassionato e dedito, che non chiede altro, che non abbisogna d’altro, chiuso nel magico cerchio del godimento e della sessualità inizialmente urgente e giocosa, di cui Adele è immensamente paga senza altri bisogni? Possiamo lasciare la civiltà, per restare nel terreno freudiano, fuori dalla camera da letto? Vivere di juissance, per sempre, o non può che trattarsi di una parentesi, che ha disvelato l’identità, ma porterebbe alla follia se oblitera il linguaggio della Cultura, se si riduce a pura carnalità fine a se stessa? La crepa inizia così, anche se esplode con una successiva scenata di gelosia: la frattura inizia quando alla festa con i suoi amici e colleghi artisti, Adele accudisce e serve tutti, cucina stupendamente, ma non le importa chi sia Klimt, non le entra in testa cosa vogliano dire gli strani quadri di Schiele, né le opere della stessa Emma, che ammira in quanto opera della sua amata. Non vorrei qui banalizzare: non vi è alcun intento intellettualistico in Emma, che anzi soffre moltissimo a sentire di “dovere” rinunciare a quest’ amore dedito ed esclusivo, né nel film in generale. La frattura è scandita nei lenti dialoghi, negli sguardi, nei non detti: film prevalentemente impressionistico, volutamente non psicologistico, non enuncia tesi ma si limita ad affidare alle immagini il senso e lo sviluppo della narrazione.

 

Conflitto ineludibile dell’umano, è il disagio della civiltà. Natura e cultura possono coesistere nella passione amorosa solo per magici momenti effimeri, che forse ciascuno di noi ha vissuto o si ritaglia in esperienze scisse dalla quotidianità, ma sono destinate a concludersi. L’attaccamento che di null’altro ha bisogno se non del suo oggetto come vorrebbe Adele, si rivela utopico, lascia Emma nel tempo inquieta e insoddisfatta, e la porterà a ritrovare la compagna e amica del passato, artista come lei, con cui la sessualità si relega consapevolmente in secondo piano (“non è come con te” dirà ad Adele), offrendo sicurezza a prezzo della normale infelicità umana, come scrive Freud nel Disagio della Civiltà: “da un lato l’amore si oppone agli interessi della civiltà, dall’altro, la civiltà minaccia l’amore con gravi restrizioni.” (1930)

E’ forse qui lo skàandalom? L’inciampo rispetto a una vicenda che avrebbe tutti gli ingredienti per la felicità, e invece sancisce l’impossibilità del desiderio senza rinuncia?

Adele, dal canto suo, che faticosamente cresce e trova una fragile stabilità nel suo lavoro, non più affannosamente bisognosa di riempirsi di cibo e di serate per terrore dell’abbandono, sembra destinata a un percorso solitario (la bella scena di chiusura), paradossale esito proprio in lei che non avrebbe chiesto altro che una domanda d’amore.

E’ a mio avviso questo conflitto la chiave più originale e raffinata del film, lo testimonia la stessa scelta narrativa: a scene di pura carnalità e amore erotico, si alterna la voce di fondo della cultura, della storia delle idee. Il film si apre, infatti, con le lezioni di letteratura che segnano in Adele la passione per Pierre de Marivaux, attraverso gli interrogativi degli studenti (‘cosa manca al cuore?’), il dotto riferimento al romanzo epistolare di Laclos di fine ‘700 (più nota al pubblico la splendida trasposizione cinematografica in Le relazioni pericolose di S. Frears dell’88), fino alle citazioni di Sartre riferite da Emma, al significato dei fiori in Klimt o ai corpi scarnificati di Egon Schiele. Natura e Cultura. Tutto ci appartiene: al linguaggio della sessualità (di cui la scelta lesbica non mi pare aggiunga niente al discorso, se non per rafforzarlo), si associa in parallelo quello della Kultur. Se di entrambi abbiamo certamente bisogno, chi più chi meno, chi con maggiori sbocchi sublimativi chi più arroccato al soddisfacimento diretto, non sembra che possano a lungo convivere nell’amore umano, indipendentemente dalla scelta d’oggetto. O c’è passione carnale o c’è linguaggio e conoscenza. La sfumatura che, a mio avviso, forse manca a questo eccellente film (in cui dominano soprattutto le due interpretazioni) a non farne un capolavoro, sta forse nell’aver lasciato un po’ languire, sotto la pressione delle immagini e del risalto del corporeo, la natura perturbante e inquieta di questa conflittualità, universale e non solo legata al genere o all’età.

 

Mi torna alla mente uno dei carteggi meno ‘tecnici’ e forse meno frequentati di Freud, quello con Lou Salomè, che nella sua prima edizione italiana dell’83 prendeva il nome di “Eros e Conoscenza” (Boringhieri). Possono convivere, Eros e Conoscenza?

 

Caro Professore,

…..

La ringrazio con tutto il cuore di avermi trascinata in questa follia; immorale qual sono, traggo sempre il più gran piacere dai miei peccati –

                                                                              (Gottinga, 1924)

 

Mia cara Lou,

……

…ho rinunciato completamente al fumo dopo che mi è servito, per cinquanta’anni esatti, da protezione e da arma nelle lotte dell’esistenza. Adesso mi sento meglio di prima, senza essere però più felice –

                                                                            (Tegel, 1930)

 

 

Novembre 2013

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

"La sala professori" di I. Catak. Recensione di E. Berardi.

Leggi tutto

"Estranei" (All of Us Strangers) di A. Haigh. Recensione di F. Barosi

Leggi tutto