Cultura e Società

Mia madre – 2

6/05/15

di Nanni Moretti, 2015, I-F-G, 106 min

commento di Giuseppe Riefolo

Perdite e ricomposizioni

“non riusciva a spiegarsi come ci fosse qualcuno che
volesse mutar vita, introdurre in essa qualcosa di nuovo,
mentre per lui la vita era oramai finita”
(Tolstoi, Guerra e Pace, Parte terza, XXIII)

Perdite.

Comincio dalla fine. Quando la madre è morta, e il film sta finendo, tutto si rimette in movimento e la parabola riprende una nuova direzione. Arrivano due vecchi allievi. Non si tratta di un evento, ma a me ha fatto pensare che, mentre tutto è pronto per la fine e nella stanza si ritrovano i due fratelli e la nipotina adolescente, suona il citofono e il gruppo si trova costretto a sospendere la celebrazione del lutto oramai inevitabile. Il campo, come direbbe Nino Ferro, ha una turbolenza (2002; 2010). Questa turbolenza costringe il piccolo gruppo familiare a spostarsi in cucina dove accogliere il vecchio allievo e poi c’è anche l’allieva che intuisce la cesura: “ti chiedo scusa, Margherita, non vorrei offendere il tuo dolore, ma per ciascuno di noi tua madre è stata davvero una madre!” Ho pensato che, improvvisamente, nella turbolenza inaugurata dal citofono che suona e da quegli “ospiti inattesi”, non si trattasse più solo della madre di un piccolo gruppo di figli (alla fine, anzi, sin da prima di entrare nel cinema, ciascuno di noi sa che tutti quei personaggi, Margherita e poi Turturro sono solo Moretti…), ma improvvisamente si tratta della madre di tanti altri personaggi che oramai il film fa entrare in scena e non controlla più perché, aperta la porta, possono entrare tutti. Io ho immaginato intere classi che entravano a salutare la propria madre, perché finalmente “da queste turbolenze si realizza una sequenza di congiunzioni costanti…” (Gaburri, Ambrosiano, 2007, 107). Non si tratta semplicemente di una “fantasia” che ti può venire mentre sei al cinema, ma per me è la mia precisa posizione di analista che va al cinema, perché in quel momento che il film stava finendo ho rivisto (più precisamente potrei dire: sono stato preso da) mille passi dei miei incontri quotidiani con i miei pazienti che mi suggerivano nuovi vertici da cui osservare la loro sofferenza. “C’è un dolore, ma questa volta si sa dove si va a finire; si sa che noi dobbiamo accompagnare questo dolore; non interrompere così tragicamente, brutalmente una cosa… lì muori anche tu. Qui tu da vivo devi essere molto amorevolmente vicino alla persona che se ne va e accorgerti di lei” (Giulia Lazzarini, Coming Soon, Intervista).
Nei giorni successivi, avendo in mente la mia esperienza del film, nella stanza di analisi mi sono trovato ad ascoltare più volte il citofono che mi annunciava allievi, mai conosciuti, ma che avevano avuto intensi contatti con “mia Madre”: io sapevo della loro esistenza, ma solo ora venivano a presentarsi.
Sandro mi racconta che è stato a cena da un caro amico vegetariano. Si è trovato bene; rispetta le sue scelte e alla fine, pur non essendo lui vegetariano, ha apprezzato la cena. Il problema è stato però di essere frainteso: la sua compagna ha ironizzato che, parlandone in modo così positivo, ora anche lui evidentemente era diventato vegetariano! Mentre Sandro mi racconta, io vedo la cucina dove tutto si sta preparando; lui e l’amico che parlano e lui che si sente fortunato in queste sue nuove conoscenze. Ma da un po’ di tempo, nonostante Sandro sia entusiasta dell’esperienza analitica io sento che l’aria e ferma… che le sedute si celebrano in una stanza dove non succede nulla. Mi viene in mente il film che ho visto il giorno prima e capisco che il problema è che l’incontro con me può significare per Sandro una grave perdita per tutto ciò che finora, nonostante il dolore, lo teneva vivo. Mentre ho questi pensieri, il suono del citofono arriva attraverso un’immagine che lui mi propone. “mi ha molto irritato, mi dice, che Cecilia possa aver frainteso che io mi possa far plagiare dal mio amico: io lo rispetto, ma non diventerò mai vegetariano. Però ho sentito che finalmente io non accettavo quello che lei mi diceva e sentivo che ora doveva accettare che io non ero quello che lei voleva. Ho avuto un’immagine. Come se uno si aspettasse di trovare sempre Cristo sulla croce, mentre questa volta Cecilia trovava che la croce era vuota e Cristo era seduto su una poltrona a fianco alla croce!” Quando Sandro è andato via, ho ritrovato una sottile irritazione per alcuni passi del film che ho sentito troppo sottolineati: le due scene in cui Margherita scorre i libri della madre, e li deve toccare con le dita. Ho pensato che se fai fatica a separarti, quei libri li devi per forza toccare (è ovvio che quei libri sono i veri libri della madre del regista…), mentre ora, nel mio film, Sandro può permettersi la distanza e i libri sfiorarli solo con lo sguardo e la scena diventava più leggera.

Il film si chiude con suoni e personaggi che finalmente possono entrare. La frase finale, prima dei titoli di coda mi ha fatto pensare agli altri film di Moretti: “mamma a cosa pensi?”; “a domani!”. Mentre ero ancora seduto e guardavo scorrere i titoli di coda ho pensato che quello non era un singolo film, ma apparteneva a una serie di film che ultimamente venivano dal regista. Ho pensato a una sua forma di cura attraverso il film; qualcosa che appartiene ad un processo iniziato da molti altri film precedenti. Ho subito pensato che “La stanza del Figlio” si chiude nello stesso modo: una lettera che, quando tutto è spento, ti viene recapitata da una persona viva che l’ha conosciuto e che solo nell’incontro con te apprende della fine, e mentre la incontri ti riporta la sua vita che pensavi finita. Ho pensato al “Caimano” quando nonostante ti sfondino il luogo in cui vivi, e la donna che ami ti lasci per un altro, Bruno, contro ogni logica decide di girare comunque l’ultima scena del film. Poi ho pensato a un corto che, per una serie di motivi, ho amato molto e che Moretti si trovò a girare, casualmente, durante la prima negli Usa (New York?) de “La stanza del figlio”. “The last customer” (2002) narra dell’ultima giornata di esercizio di una vecchia farmacia che sarà demolita per lasciare posto ad un centro commerciale. Ancora una chiusura, che potrebbe essere una perdita definitiva se non arrivasse un regista che si incuriosisce per l’evento e si presenta con una telecamera ad intervistare gli ultimi clienti. Allora la demolizione della farmacia appare ancor più violenta se confrontata con l’anonimo centro commerciale che si annuncia, ma ci sono le persone che riportano scene di vita e si può buttar giù la farmacia, ma le loro storie rimarranno: ancora il citofono che squilla. Persino “Habemus Papam”, ora posso leggerlo come un frammento di questo processo: un conclave paralizzato e proprio lì, uno psicoanalista che organizza impensabili partite di pallavolo!

Ricomposizioni.

Prima di entrare nel cinema tutti sappiamo che Margherita è Moretti. Ma io sempre più sono abituato a leggere le storie dei miei pazienti (anche la mia vita…) attraverso gli infiniti personaggi che compaiono nei loro racconti. Seguo i personaggi che si cercano e segnalano una continuità che si crea e si modifica continuamente perché “ho nello studio fantasmi che ascoltano il paziente e si animano ascoltandolo” (Mitchell, 1993, 134). Io nella mia stanza di analisi (e non solo…) ho mille storni che compongono continuamente configurazioni precise e mobili come nel cielo di Roma, in autunno. Quindi, sin dalle prime immagini, Margherita, Giovanni e poi Barry per me sono la stessa persona. Ovvio che il film, e lo stesso regista, vogliono che si tratti di Moretti, ma io non vado al cinema per vedere “il film di un altro”, ma il film di un altro deve porgermi un mio film, una mia storia. Quindi Margherita, Giovanni e Barry Huggins sono io. Al cinema, ha senso aver pagato il biglietto se trovi che la storia “…somiglia a qualcosa dentro ciascuno di noi che guardiamo” (De Gregorio, La Repubblica, 1.5.2015). Allora Margherita mi suggerisce la stanchezza e il vuoto di quello che sei stato e che tutti amano sia confermato: “tutti pensano che io sia in grado di capire quello che succede, interpretare la realtà, ma io non capisco più niente!”; “Margherita, fa qualcosa di nuovo, di diverso. Rompi almeno un tuo schema…!”. Giovanni riesce a trovare soluzioni dolorose, che persino sorprendono chi ti conosce, e forse anche te stesso: “ho immaginato Giovanni come una persona molto diversa da me… come una persona presente… una persona posata!… io non sono così!” (Nanni Moretti, Coming Soon, intervista). Barry è la necessità e il transito necessario tra Margherita e Giovanni quando è soprattutto il corpo ad imporre e portare il cambiamento. Ho pensato che Barry Huggins è la vera invenzione del film. Quella sollecitazione al cambiamento che conosciamo bene nel lungo passaggio dell’età di mezzo, quando il corpo, nonostante i tuoi tentativi sbruffoni, ti dice che non sei più lo stesso di prima: “in me qualcosa si ribella a considerare la cosiddetta età matura come l’apice di questo sviluppo”. (Musil, 279). Allora, se non hai il coraggio di ammettere che non ricordi più le tue battute, il mondo ti verrà in soccorso, violentemente: “sei uno stronzo” non ti ricordi una battutta.. una sola battuta! La verità è che non hai mai recitato con Kubrik! Basta! Va fan culo!”. E’ toccante, poi, la cena a casa di Margherita in cui Barry confessa le sue angosce di vedersi cambiato nel corpo: “queste sono le fotografie di quelli della troupe… altrimenti non li riconosco.. “. Poi mostra un piccolo notes su cui ha scritto le brevi battute che non riesce a ricordare e a recitare sul set. Barry è la continua oscillazione tra Margherita e Giovanni, l’angoscia che le trasformazioni (a partire dal corpo) siano solo un grave lutto. Ma anche qui squilla il citofono ed è bello e incredibile vedere Barry che balla, senza bisogno di foto o di notes, alla festa del suo compleanno organizzata sul set. Lui sceglie un’improbabile ballerina della troupe che accoglie il suo invito e ci sorprende nelle sue movenze.

Infine

Sono entrato nel cinema portandomi molte voci che si dicevano deluse perché questa volta Moretti non era riuscito a toccare come altre volte. Nella sala, ogni tanto qualcuno rideva o commentava ad alta voce, come succede soprattutto con i film di Moretti, perché ai film di Moretti si va sapendo che lui riuscirà ad autorizzarti sensazioni che non riesci ad esprimere. All’inizio senti che non è il film di Moretti che ti aspetti. Ricordavo che molte critiche parlavano di “delusione”. Cominciavo a esserlo anch’io finché Annamaria mi ha sussurrato: “è angosciante!”. Significa che qualcosa passa e tu ne sei l’oggetto e il tramite! A quel punto il mio film è diventato intenso ed ho cominciato a seguire non più la storia fin troppo esplicita di una comune normalità, ma la rincorsa intensa di personaggi che vogliono vivere sapendo che devono trasformarsi, continuamente, perché si muovono in una stanza che si allaga e il film, per fortuna, non ti dice quell’acqua da dove viene.

Poi ieri, al servizio, incontro Gabriella per il nostro appuntamento settimanale. Le è morta la sorella da poco tempo. Quando l’ho salutata l’ho vista cupa e gliel’ho detto (è un po’ una mia forma di ciò che gli analisti chiamano Self-disclosure, l’intersezione fra le mie urgenze e quelle del paziente che, se va bene, concerne stati non formulati e solo potenziali della mente che attendono di accedere ad una dimensione processuale…). Lei si è stupita: “dottore, è morta mia sorella! Come potrei sentirmi?”. Formalmente è un rimprovero, e un po’ mi vergogno della mia superficialità (era l’ultima paziente, dopo tanti altri che incontro il giovedì pomeriggio…facile pensare alla stanchezza…), ma recupero la mia posizione di analista e penso si tratti di una piccola breccia in una condizione, forse, di reciproca collusione. La collusione è nel progetto che quell’incontro non debba modificare nulla. Io so che il lutto non è la perdita (quello è un fatto, ovvio…), ma la fatica e il dolore necessari nel processo delle continue riformulazioni del Sé. Quindi, io so che nella nostra vita si procede continuamente (e per fortuna) attraverso le infinite intersezioni del lutto senza che debba necessariamente morire qualcuno. Quindi, l’assurdo della psicoanalisi è che, prima che la sorella, il lutto concerne una frattura fra me e lei. Infatti Gabriella mi sorprende: “ho fatto due sogni. Nel primo ero a casa di mia zia dove nel piccolo ingresso c’è sempre stata una credenza con le foto dei morti e noi bambini, non appena entrati, dovevamo sempre andare alla foto di Gabriele (il suo nome viene proprio dalla morte prematura di questo cugino che fece decidere alla madre di portare avanti la gravidanza da cui lei sarebbe nata…) e recitare l’Eterno Riposo. Nel sogno tutte le stanze erano bianche e vuote e le finestre aperte… finestre che, in realtà, non c’erano a casa di mia zia. In un altro sogno incontravo il mio maestro di yoga. Mi diceva che avrebbe organizzato un seminario e mi sorprendeva che mi dicesse che, se volevo, potevo parteciparvi anch’io!” Io, allora, capisco meglio perché, all’inizio della seduta, le avevo goffamente segnalato il suo aspetto triste. Penso che, visibilmente, Gabriella mi stia parlando di un ulteriore breccia in quel lutto antico che per lei ha significato la vita! Io vedo le pareti bianche, finalmente libere dagli altarini della zia e le finestre per cambiare aria! Però il bello del mio mestiere non è avere la conferma di quanto tu sia intelligente a sondare l’inconscio del paziente, ma godere col paziente delle sorprese che ti procura quel percorso. Infatti, Gabriella commenta: “il primo sogno era angosciante soprattutto perché le stanze sembravano essere state svuotate… non c’era più niente! Però mentre ero in attesa quì fuori aspettando la mia seduta, ripassavo i sogni e mi sono detta che sicuramente il dott. Riefolo avrebbe visto questo sogno in modo diverso! Mi avrebbe detto che finalmente mi ero liberata di tutti quegli altarini che trovavo a casa di mia zia (mia zia, ha portato il lutto per tutta la vita!…) e che le finestre aperte volevano dirmi che finalmente c’era aria. Dico bene?” Io sono molto toccato e felice che, dopo tanti anni che io e Gabriella ci incontriamo ogni settimana, lei si senta finalmente autorizzata a partecipare ai miei pensieri. Ho visto e sentito distintamente il citofono che squillava nella stanza del film. Ho pensato alla fortuna che avevo in quel momento perché avrei sicuramente riportato quei sogni (quella situazione) in ciò che pensavo di scrivere oggi sul film! Ma Gabriella mi precede ancora: “del secondo sogno ho pensato che c’entriamo io e lei, anche se, le confesso, mi vergogno di pensare che io possa partecipare ad una riunione dove ci sia lei!”

“l’analisi e il dispositivo di essa sono più forti delle teorie che usiamo”
(Ferro, 2007, 28)

aprile 2015

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

"La sala professori" di I. Catak. Recensione di E. Berardi.

Leggi tutto

"Estranei" (All of Us Strangers) di A. Haigh. Recensione di F. Barosi

Leggi tutto