Cultura e Società

Poetry

25/01/12

Chang-dong Lee, Corea del Sud, 2010, 139 min
Titolo originale: Shi

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Commento di Fiorella Petrì

Il mio incontro con questo film è avvenuto un po’ per caso in un piovigginoso, mite, pomeriggio domenicale. Della trama non ne sapevo niente e del regista coreano Chang-dong Lee poco o nulla, tuttavia il titolo aveva esercitato su di me una (preconscia) attrazione. Si tratta di un film inserito in quel circuito d’essai che non tanti seguono e ancor di meno ne parlano. E’ stato un incontro piacevole. Sin dalle prime scene mi ha colpito la soavità del personaggio principale: una piccola donna di sessantasei anni, che si muove sulla scena quasi in punta di piedi. Debole nel corpo, ma ancor più nella mente, per l’esordio dell’Alzheimer; il personaggio intenerisce quando cerca di combattere i vuoti di memoria ricorrendo a tante parole per spiegare alcune di senso molto comune, che proprio non riesce più a ricordare; come se la sua mente, persa nell’oscurità, cercasse a tentoni di orientarsi.
Eppure, Yang Mija è una donna serena e forte. La vediamo contrapporsi con fermezza e pazienza all’anaffettività del nipote, un adolescente difficile, insopportabilmente violento nella sua passività, che le è stato affidato dalla figlia separata. La nonna scopre che questo ragazzo, al quale è profondamente legata, si è macchiato, insieme ad un gruppo di compagni, di un terribile reato: lo stupro di una coetanea che, per vergogna e disperazione, si è suicidata. La protagonista vive tutto il senso di colpa che il nipote è incapace di provare. Il regista ci mostra un ragazzo che, come tanti adolescenti di oggi, sembra irraggiungibile nella sua vaghezza, lontano dal proprio mondo emozionale, attratto solo dal consumo e dal divertimento e che sembra tristemente bloccato in quello stato di non-pensiero, di vuoto di sentimenti, di valori e di relazioni significative che ritroviamo in alcuni ragazzi che si rivolgono a noi.
Straziante è la scena in cui la protagonista assiste, per un puro caso, al pianto disperato della madre della ragazza, impazzita per il dolore davanti al corpo senza vita della figlia. Yang Mija impatta anche con degli adulti sordi, insensibili e abbrutiti dal denaro, che non provano senso di colpa, e sono convinti che qualsiasi individuo ha un prezzo, che qualsiasi moto dell’anima, finanche il dolore, può essere messo a tacere con il denaro. Forse la figura dell’uomo anziano handicappato al quale la donna riesce, con compassione e dignità, a far riprovare un momento di virile piacere, rappresenta queste persone menomate di umanità. Questa signora soave, invece, sente di possedere "una vena poetica, mi piacciono i fiori" dice, motivando così alla figlia la sua scelta di iscriversi a un corso di poesia. Bellissime le parole del docente del corso quando cerca di spiegare quale deve essere l’atteggiamento mentale per cogliere l’aspetto poetico di ciò che ci circonda. Ma ben presto la donna si renderà conto com’è difficile trovare una via espressiva, anche se il suo maestro le dirà: "tutti abbiamo la poesia intrappolata nel nostro cuore dovremmo mettergli le ali"; e suggerirà: "per scrivere una poesia bisogna vedere", vedere per davvero, essere interessati, cercare di capire, osservare attentamente, provare a stare dentro le cose che osserviamo. Da questo momento Yang Mija incomincerà a prendere appunti su ciò che la colpisce intorno a lei, ma anche ciò che avverte dentro di lei. Yang Mija ci fa capire che, se anche la poesia non può preservarci dal provare dolore, fa parte della vita e non può aderire a un mondo che nega la colpa e la sofferenza. E ancora. Quante volte la poesia può diventare una forma di ribellione quando trasmette in maniera diretta la verità? (Pensiamo a Borges, Neruda, al poeta guerrigliero peruviano Javier Heraud, a Theodorakis e Ritsos e a Panagulis, solo per ricordarne alcuni che hanno segnato i momenti di rivolta dei nostri tempi).
Questo film è la dimostrazione che la poesia ci può far scoprire la bellezza nel dolore e che "la volgarità insulta la poesia". In Poetry tutto evoca poesia, non solo il personaggio principale e le parole del docente, ma anche alcune immagini e alcune sequenze, come quella delle gocce di pioggia che, miste a lacrime, cadono sul foglio bianco mentre Yang Mija cerca dentro di sé l’ispirazione.
Mi è piaciuto guardare al lavoro di Chang-dong Lee, come ad una denuncia dello smarrimento che affligge i nostri tempi in cui le persone non hanno più la capacità di stupirsi davanti alla bellezza e hanno perso la capacità d’indignarsi davanti alle brutture. Mi sembra di poter rintracciare un’analogia tra la ricerca della protagonista del film e ciò che avviene in analisi: come Yang Mija trova, attraverso la poesia, le parole per esprimere lo stupore, la sofferenza, così, attraverso il discorso analitico ed i sogni, il paziente e l’analista trovano i pensieri e le parole per rendere comunicabili vissuti emotivi grezzi, quei pensieri non pensati in cerca di un pensatore.
La storia finisce con il suicidio, in una sorta d’identificazione con la ragazza, di Yang Mija (suicidio al quale non assistiamo). Nelle ultime sequenze ascoltiamo in sottofondo le parole della prima composizione poetica, che la donna riesce finalmente a scrivere: una poesia, toccante, dedicata alla ragazzina morta suicida. Udiamo la voce della protagonista e quella dell’adolescente scomparsa, vediamo le immagini dei due personaggi susseguirsi; forse, come nella mente della donna, i ricordi delle loro vite si confondono, si sovrappongono.

Canzone per Augunes.
Come si sta lassù? Ti senti molto sola? Il cielo diventa sempre rosso al tramonto? Senti ancora cantare gli uccelli che volano verso il bosco? Lì dove sei puoi ricevere la lettera che non ti ho mai scritto? Puoi ascoltare la confessione che non ti ho mai fatto? Le rose continuano ad appassire con il trascorrere del tempo?
E’ giunto ormai il momento degli addii, come il vento che indugia e poi se ne va come le ombre. Addio alle promesse non mantenute, all’amore rimasto segreto fino all’ultimo, all’erba che accarezza le mie caviglie stanche, e ai piccoli passi leggeri che mi seguono. E’ giunto il momento di dire addio ora che sta per arrivare l’oscurità. Si accenderà ancora una candela. Io prego perché nessuno debba più versare lacrime di dolore, perché tu possa finalmente sapere quanto profondo era il mio amore per te. Le lunghe attese nelle calde giornate d’estate. Il vecchio sentiero che mi ricordava il volto di mio padre. E persino il crisantemo che timido si gira dall’altra parte. Quanto prontamente vi amavo e come batteva il mio cuore, quando sentivo il tuo dolce canto. Io vi do la mia benedizione. Prima di attraversare il grande fiume nero, con l’ultimo respiro rimasto alla mia anima. Ancora una volta rivivo il mio sogno: un mattino radioso pieno di sole e, al risveglio, accecata dalla luce, ritrovo sempre te, lì al mio fianco.

Gennaio 2012

 

 

 

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