Cultura e Società

Remember

13/12/16

Regia di Atom Egoyan, Canada, 2015

Recensione di Giuseppe Riefolo

Il trauma e le memorie

“tu hai distrutto la possibilità che

nella vita io potessi illudermi”

(Sorrentino, The Young Pope, 2016)

Colpi di scena.

Mi sono trovato in un film che mi portava nella logica del trauma e in questo registro, c’é la nostra necessità che l’esperienza abbia continuità e c’è il nostro bisogno di rassicurarci con la ripetizione di eventi che conosciamo bene. E’ la funzione dolorosa del trauma,  perché “il trauma …produce dissociazione che, a sua volta, crea falsificazioni retroattive del passato e della capacità di pensare il futuro” (Bromberg, 1999-2001, 10).

Il colpo di scena suggerisce che viviamo simultaneamente molte vite. Il cambiamento non è semplicemente una storia al posto di un’altra, ma consiste nel potersi permettere e accettare di viverne o, magari, di integrare più storie quando il potere dissociativo del trauma, ridimensionato, ce lo permette. Il colpo di scena nel film ha la stessa funzione che nella nostra vita e nella clinica ha il processo di mobilizzazione del trauma. Ciò avviene non perché introduciamo un nuovo registro interpretativo, ma perché accadono vive “collisioni tra soggettività” (Bromberg, 2011, 69 e 83) in una storia congelata e cogliamo la felice sorpresa dell’esistenza simultanea e potenziale di mille altre storie o versioni della stessa storia. Gli analisti finalmente sanno che la soluzione del trauma non è la catarsi, ma l’edizione aggiornata di un vecchio testo oramai fuori produzione. Le definizioni di trauma sono numerose e ciascuna comporta una teoria di riferimento e, soprattutto, una posizione clinica differente. Se ci pensiamo, però, la gran parte di queste teorie sul trauma, descrivono quello che di patologico accade nella vita di un soggetto e, di conseguenza, suggeriscono, come si possa rimuovere (Freud), desensibilizzare [cognitivisti e comportamentisti, ma anche alcuni analisti (Renik, 2006)], ricomporre (Fonagy e Bateman, 2004; 2006; Clarkin, Yeomans, Kernberg, 1999; Meares, 2012) il blocco traumatico. Non ho dubbi sulla validità di queste posizioni, ma sono sempre più interessato a quelle potenzialità creative che la dolorosa esperienza di un trauma ci costringe ad attivare: “in ogni tipologia di disturbo alcuni stati del Sé contengono le esperienze traumatiche e le molteplicità delle risposte affettive spontanee, altre contengono le risorse dell’Io…” (Bromberg, 1998, 132). Alcuni autori, recentemente ritengono che queste potenzialità creative, nella stanza di analisi, soprattutto quando connesse a stati traumatici, non possano presentarsi attraverso percorsi di ordine simbolico, ma solo agito, ovvero il campo fertile dell’enactment, quando “la reazione dell’analista può essere utile come la prima traccia di ciò che sta accadendo nel paziente” (Sandler, 1976, 43).  E’ il passaggio importante dalla psicoanalisi esplorativa ad una psicoanalisi delle trasformazioni. Gli enactment “non sono errori, ma elementi generatori di elementi creativi che possono alterare la direzione dell’evoluzione della diade…” (Boston Change Process Study Group, 2010, 103). L’analista si trova a mettere in atto un personaggio della storia del paziente (Sandler, 1976) o a reagire emotivamente in modo non pensato (Jacob, 1986) sotto la pressione tansferale del paziente.

Zev.

Alla fine del film, Zev Gutman deve rendersi conto che ha scambiato i nomi che lo riguardano: “Il mio nome è Kulibert Schturm! Otto Vallish sei tu! Come hai potuto dimenticare?”. Gli psicoanalisti hanno sempre avuto due modi per descrivere questa fuga e questa vergogna: la rimozione e l’atto mancato. Da un po’ di tempo, ovvero da quando hanno accettato di essere visibili e attivi nel campo analitico, ne hanno altri, più importanti: l’enactment e poi la self-discosure. Ovvero accettano ed usano di essere un mezzo attivo attraverso cui gli stati mentali potenziali dei loro pazienti prendono forma e diventano reali. Ciò che gli analisti sentono non è più solo il controtransfert, ma una condizione affettiva aperta a potenzialità di cui Zev non conosce il percorso né l’esito perché ci sarà un incontro che intersecherà due storie finallora parallele. Nel controtransfert capiamo come il paziente ci vive e che uso fa di noi, mentre nell’enactment possiamo cogliere che cosa il paziente si aspetta dall’esperienza che sta facendo di noi. Il controtransfert riguarda il paziente, mentre l’enactment riguarda il paziente nel campo relazionale mentre fa esperienza di un altro attraverso il suo transfert.

Zev e Max abitano il limbo della morte. Entri in quelle sale della clinica sapendo che stai accompagnando qualcuno all’ultimo passo.  La vita è fuori ed i sorrisi e il tono di voce con cui gli infermieri ti parlano, ti dice che tu non sei più un interlocutore: nessuno si aspetta più nulla da te, ma tutti vogliono darti un inutile affetto dolciastro. In quelle stanze, anche se le vedi in un film e sei in un cinema, senti nello schermo l’odore tipico dei vecchi: qualcosa tra la muffa e il piscio, e quell’odore rimane anche se apri le finestre. Nel cinema l’odore si sospende quando Zev parla con Tyler, il bambino che non gli pare vero di essere più adulto di te.

Nel film c’è Max che ti guida e lui ha organizzato tutto il tuo percorso e tu non lo sai. Ti ha dato una lettera dove è segnato già in anticipo ogni tuo passo e la tua demenza ti costringerà a rileggerla continuamente. Ovvio che lo spettatore si chiede: perché non può farlo Max? La risposta che il film ci suggerisce è la più ovvia e concreta: Max è paralizzato su una carrozzina, ma sa ricordare, mentre Zev ha perso la memoria ma può muoversi! Non abbiamo dubbi che Zev sia la demenza che porta metastasi alla memoria. Il colpo di scena finale ci suggerisce la raffinata soluzione dissociativa del trauma, ovvero dissociare l’azione dalla memoria, e la memoria, in quell’attimo, si svela drammaticamente intatta!  Sicuramente non sapere gli effetti di ciò che fai ti permette di essere più determinato ed efficace nelle situazioni più disumane. Una forma molto comune e terribile di dissociazione. Forse quella condizione che ti permette di farti esplodere fra la folla ignara e viva; di sorridere per quelli che hanno perso la casa per il terremoto oppure di far fallire una banca o un’azienda senza pensare a quelli che per questo vedranno la loro vita distrutta. La nostra speranza è che, per quanto la dissociazione ti permetta un’isola di vita, continuamente si ricompone e ci porta un passo più avanti. Non servono per forza i grandi traumi. Quando va bene, si procede per soluzioni di micro traumi sufficienti, che gli analisti chiamano “frustrazioni ottimali” e che la nostra mente cerca di continuo: “ho sempre saputo che mi avresti trovato” (e Kulibert abbraccia Zev).

Il film ci porta lungo una prima storia che per ora ci sembra l’unica possibile. Quando Zev ha accolto il progetto di Max, lascia la clinica e le memorie traumatiche cominciano ad emergere sensibili: il numero inciso sul polso e la doccia che ti cade sul corpo ti riporta in un luogo di tanti anni fa: “lui mi conosce. Ci siamo incontrati molto tempo fa!” (Zev alla figlia di Kulibert). Ora il ricordo ti torna forse perché non c’è più Ruth e ti trovi solo in un posto che non conosci.

Max ti ha dato 4 indirizzi dove cercare Otto Wallisch. Sono quattro tedeschi che “hanno rubato l’identità dei prigionieri” e si fanno chiamare Rudy Kurlander. Uno dei quattro è Otto Wallisch e Zev dovrà ammazzarlo perché “ad Auschwitz ha sterminato le nostre famiglie” e tu parti alla ricerca di Rudy Kurlander. Il film ti fa pensare ad un progetto condiviso fra te e Max, a cui avevate pensato da tempo e che solo ora potete realizzare perché “alla nostra età non possiamo permetterci che sia rimpatriato e processato”. Max ci dice che lui e Zev  sono “’gli unici che possono riconoscerlo” e Zev, quello senza memoria, ora è il solo che può rintracciarlo. Fin qui la storia ci dice che l’impotenza è fisica, ma alla fine del film scopriremo quanto l’impotenza fisica non sia spesso una raffinata soluzione dissociativa.

Il colpo di scena finale – quello che nel senso inverso del trauma interseca finalmente due storie finallora parallele – ti descrive non più complice, ma luogo passivo del desiderio potente ed intrusivo di Max. Alla fine del film sappiamo che Zev non scrive più alcuna storia per sé, ma per Max. E’ una differenza importante che alcuni autori hanno riconosciuto nella particolare dissociazione border. Infatti, pensiamo che Zev si muova e parli come un automa perché è demente, ma poi sapremo che della vita che gli resta, proprio come i border, conosce solo la meccanica, ma non le cause e ancor meno gli effetti.

Io: Otto Wallisch?

Il percorso di ricomposizione del trauma procede. Ovviamente è un processo fasico; oscillazioni continue di ricomposizioni e nuove dissociazioni. Ma il dispositivo interessante per me sono le micro dissociazioni creative. Ovvero quando la solida struttura dissociativa si incrina e, per mantenere la continuità del Sé c’è bisogno di rimettere insieme i pezzi in un ordine nuovo che rintracci configurazioni di esperienza mai realizzate prima e ti permetta di procedere. Per la seconda volta il trauma in cui naviga, dissociato, Zev, incontra la disarmante semplicità di una bambina che sa mettere insieme Disney Channel, le caramelle e la morte di Ruth e di Kurlander. La bambina è lo stato dissociativo di Zev che prende vita: “mi piace Disney-channel e le caramelle!… tu sei Zev… posso aprire la lettera? E’ normale: i vecchi dimenticano…!”.  La bambina gli dice cosa ricordare e la promessa della magica vendetta: “nel posto del trauma il soggetto non è consapevole di essere in un ricordo: recita un copione sapendo di vivere un’esperienza. (Meares, 2012, 10). Nello stato dissociato le parole perdono la profondità degli affetti e semplicemente ti descrivono ciò che meccanicamente devi fare: la bambina gli parla di Ruth e di uccidere Wallisch; nessuna preoccupazione: “credevo mi portasse le caramelle!”; “Lo credevo anch’io!”

La legge della sceneggiatura ci ha anticipato che, ovviamente, il quarto incontro sarà quello con Otto Wallisch: non c’è bisogno di indagini preliminari! Ti colpisce che in quella casa dove è caldo l’affetto dei figli e dei nipoti si sia incistato per anni un terribile dolore (ancora: la dissociazione permette nel trauma uno spazio, più o meno ampio, comunque di vita…). Ho pensato che è bello che l’incontro fra i due non si organizzi sul dispositivo simbolico delle parole, ma sulle memorie implicite che si organizzano sui dispositivi sensoriali del corpo. L’incontro avviene sul registro sensoriale della musica, dove è custodita una identità antica. Zev si siede ancora una volta al pianoforte (penso che tutte le volte che nel film l’ha suonato ha trovato le emozioni e la sorpresa sua e di quelli che l’ascoltavano, mentre il film sembrava descrivere il suo percorso di vendetta meccanica…). Da Kurlander c’è il pianoforte e lui non vuole parlare di Auschwitz. Zev suonerà il pianoforte per tornare quello che era ad Auschwitz.  Questa volta suona Wagner e questo è l’anello che lega Kurlander a Zev e ad Auschwitz. Infatti: “un sopravvissuto non dovrebbe amare Wagner!”, commenta Kurlander. “Non si può certo odiare la musica!”. La ricomposizione dissociativa a questo punto corre veloce e le sequenze, ora sono vorticose ed non hanno la scansione dei significati, ma della sensorialità: “non avevo riconosciuto la tua faccia in quelle foto, ma la tua voce non è affatto cambiata!”.  Zev lo dice in tedesco e noi non capiamo il contenuto, ma a noi interessa che il tedesco sia soprattutto un suono, come la musica di Wagner: un suono che è rimasto esattamente quello di allora. E’ il timbro della voce, e non i significati, che introduce al ricordo e dalla voce Zev è sicuro che quello è Otto. Il trauma si ricompone non perché una storia scalza un’altra, ma perché due (molte…) storie parallele si intersecano: “ora digli il tuo vero nome. Il mio nome è Kulibert Schturm… tu… tu sei Otto Vallish eravamo tutti e due Blockführer. Ora Zev scopre che cercava se stesso: “come hai potuto dimenticare? Ti sei fatto chiamare Zev perché Zev significa lupo… dicevi che eravamo lupi!..”. L’intersezione delle storie a volte è insostenibile: “Me lo ricordo!”.

L’ultimo colpo viene perché aspettava da tempo in canna ed era tenuto da Max che attraverso Zev poteva chiudere il cerchio. E’ un percorso di morte, forse perché Max, il vero protagonista delle storie, ha sentito che stava morendo. A noi fa pensare che la dissociazione non serve solo a separare, ma anche a preservare piccoli frammenti di vita in attesa che possano essere usati: “la fuga psicogena non è sempre difensiva, ma di frequente rappresenta la ricerca di cura e conforto” (Stengel, 1939, cit. in Meares, 2012, 138). In altri casi le collisioni di frammenti dissociati non producono soluzioni creative, ma chiudono il cerchio: “una struttura mentale dissociativa è progettata per prevenire la rappresentazione cognitiva di quello che per la mente può essere troppo da sostenere” (Bromberg, 2011, 21).

Dicembre 2016

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