Cultura e Società

Sul mare

17/05/11

Alessandro D’Alatri, I, 2010, 100 min.

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Commento di Nicola Nociforo

Sul mare, di Alessandro D’Alatri racconta la storia di Salvatore, giovane barcaiolo per turisti dell’isola di Ventotene pieno di amore e di vitalità, che muore all’inizio del film cadendo dall’impalcatura di un palazzo in ristrutturazione dove lavora come muratore durante la stagione invernale. Il film consiste nel suo racconto della propria vita nei pochi attimi che lo separano dalla morte.
Strana sorte per lui che, degno del proprio nome, aveva salvato dal rischio di una stessa fine un compagno africano. Ma Salvatore se lo sentiva che sarebbe successo qualcosa, ed in effetti da qualche tempo, da quando la ragazza amata lo aveva lasciato, aveva sviluppato uno strano sintomo: gli succedeva di dimenticarsi come si cammina, non sapeva più come usare le gambe.
Si era innamorato per la prima volta nella sua vita di Martina, una delle giovani turiste dell’isola.
Martina è bella e appassionata. Non è una delle tante turiste che cercano solo svago e intrattenimento. Lei ama l’apnea, vuole essere portata "alle anfore", nel luogo dei resti, delle antiche origini.
Ma Martina ha la psoriasi, "la malattia del pensiero delle cose che non accadono". Purtroppo, però, le cose tragiche sono già accadute e la malattia di Martina non può più evitarle: suo padre, giornalista, è morto nell’esplosione di una bomba di mafia. La pelle lacera di Martina sembra così rappresentare la lacerazione drammatica degli uomini e delle donne appassionate, dei figli di questo Paese dilaniato, esploso. La malattia dei pensieri delle cose che non accadono parla del desiderio di tornare indietro, come in un rewind cinematografico, di fare che la tragedia non sia accaduta. Ma testimonia al tempo stesso la lacerazione che c’è già stata, il Paese che è esploso, caduto, i padri benevoli uccisi ed i figli che cadono dalle loro braccia, come Salvatore.
La pelle è la delicata membrana che separa e mette in comunicazione l’interno e l’esterno, stabilendo una differenza e quindi la possibilità di una relazione. La pelle è la funzione basica di un corpo che pensa, che tocca e vive. Il corpo lacerato del nostro Paese non stabilisce più differenze, non ordina e non dirime, non sussulta e non riceve, in un caos in cui le passioni non trasudano nei pensieri ma esplodono nelle angherie dei potenti, o vengono soffocate nel nascere dall’omertà, dal silenzio che nasconde i pensieri, che teme il cambiamento.
Martina è la giovane donna dilaniata che soffre. Martina è l’Italia.
Martina, infatti, si innamora di Salvatore, ma non riesce a lasciarsi andare al suo amore. E’ diffidente, indecisa e, una volta partita, sparirà. E’ a questo punto che Salvatore si dimentica come si cammina, cadendo in uno stato depressivo che gli impedisce di lavorare. E cade, cade, finché Martina non tornerà, chiedendogli di salvarla, ma per lasciarlo di nuovo. E mentre Martina se ne va, il padre di Salvatore, amante dei quiz a premi, ammonisce il figlio innamorato e sofferente. Gli dice che "Se è capace di fottersi quella è pure capace di andare a lavorare". Così Salvatore torna ad ammalarsi. Si dimentica di nuovo come si cammina.
Salvatore e Martina sono la coppia di amanti violentata da un Paese che uccide i propri figli.
C’è una scena molto intensa e per me molto significativa del film che mi ha fatto notare una cara amica. Mentre Salvatore e Martina provano ad immaginare il proprio futuro sul tetto del palazzo dove il ragazzo aveva salvato il compagno africano, si intravede una bandiera italiana lacera, come la pelle di Martina.
Continuiamo a vedere la pelle lacerata dei nostri figli e delle nostre bandiere rimanendo impassibili, difendendoci dietro il pensiero delle cose che non accadono, in un’immobilità narcisistica, oppure a nostra volta vittime delle bombe mafiose, degli abusi perpetrati contro la Cosa Pubblica, inconsapevolmente identificati con l’aggressore. Quello di cui dovevamo avere paura, invece, avrebbe detto Winnicott, è già accaduto.
Le bombe ed il pensiero mafioso che ci pervadono hanno lacerato la speranza nel futuro, hanno tolto l’impalcatura ai figli, alle giovani coppie di amanti, alla possibilità di ritrovare padri e madri integri da potere amare dentro di sé per portarne avanti il progetto vitale.
L’uccisione del padre giornalista da parte della mafia e le conseguenze sul corpo e sulla mente della figlia ci dicono non solo di una verità sociale ben nota ma delle sue terribili conseguenze, di cui bisogna che, come psicoanalisti, ci occupiamo. Per dirla con Bion, ci racconta degli effetti traumatici e paralizzanti, per i figli e per la società, che derivano dall’odio per la verità e per il cambiamento e dall’attacco, intrapsichico o sociale che sia, alla funzione della pubblic-azione. L’uccisione del padre giornalista simboleggia la riduzione al silenzio cui siamo stati costretti, e insisto su questo "noi" e su un’estensione sociale della mia riflessione perché è difficile nutrire sufficientemente la funzione analitica e l’analisi in un contesto sociale malato, che non può fare da contenitore adeguato ai propri cittadini, compresi noi analisti.
L’esplosione c’è già stata, quindi. Adesso possiamo solo rimanere silenti e morire da morti, o capire che non c’è alternativa alla rivoluzione, al cambiamento, alla cura della società e delle nostre istituzioni malate e aggredite. In un’interessante, recente intervista, il regista napoletano Mario Martone, autore di "Noi credevamo", un bel film sul risorgimento italiano, sosteneva che l’Italia avrebbe bisogno di uno psicoanalista dei popoli. Forse il popolo degli psicoanalisti italiani potrebbe cogliere l’invito accorato.
C’è un Paese dilaniato che andrebbe ricomposto con pietà. E’ questa la rivoluzione che ci chiedono i nostri figli abbandonati.
E’ questo che ci chiede Salvatore, figlio abbandonato che si dimentica come si cammina. C’è tutto in quella dimenticanza. C’è la voglia di rinascere, come dice lui stesso, la necessità di imparare di nuovo a camminare, come dopo un grande trauma. C’è l’amore per Martina, così amata da diventare letteralmente una parte del suo corpo. L’amore per Martina è nelle gambe di Salvatore, è le sue stesse gambe, ma se si vive in un Paese in cui l’amore è degradato al fottere, quando Martina va via Salvatore è fottuto: perde le gambe, perde tutto.
Ho pensato ad una delle frasi che lessi durante un grande corteo in memoria delle vittime delle bombe mafiose a Palermo nel 1992. C’era scritto: ""Le vostre idee cammineranno sulle nostre gambe".
C’è bisogno di gambe per portare i padri, le madri e le loro idee. Ma per andare avanti e oltre, nella strada che hanno tracciato, c’è bisogno di fare i conti con quei padri che continuano a confondere amore e fottere, e con noi stessi, vittime del passato e genitori indifferenti del presente.
Il processo di integrazione ha un prezzo, spesso molto doloroso. C’è bisogno di passione e pietà per fare i conti con il nostro passato, con quello antico e con quello più recente. La nostra rivoluzione sarà quella, se ne sapremo soffrire il dolore, di riprenderci le nostre gambe, di rimetterci sui piedi della nostra storia e della nostra dimensione interiore, assumendoci il dolore della ricerca dei padri, dei genitori dilaniati dalle aggressioni continue, esplosive e feroci all’amore per i figli, per la vita, e per la Cosa Pubblica.
In fondo, mi viene in mente, perché un genitore dovrebbe curare con passione ed amore l’intimità affettiva dei propri figli se non per permettere che abbiano gambe forti per sostenere ed amare a loro volta la società? L’amore per la società è l’estensione riuscita dell’amore per i propri genitori. In Italia oggi accade il contrario: le bombe mafiose, la cultura mafiosa hanno imposto una cultura incestuosa basata sull’idea che la società debba essere asservita agli egoismi della "Famiglia", è così che i mafiosi chiamano il proprio gruppo. Questo è l’attacco al futuro che toglie la pelle e le gambe ai figli, lasciandoli nell’impotenza della sfera incestuosa.
Non c’è miracolo che possa eludere i bastioni di questa condizione, perversa e tragica al tempo stesso, che ha fatto e continua a fare la storia di questo Paese; c’è solo la faticosa possibilità di fare come Martina, la protagonista del film, provando ad immergerci nei fondali delle nostre origini per a rimettere insieme i cocci, i cadaveri, le memorie, il pianto, gli affetti, i genitori, quelli amati e quelli odiati.
"Sul mare" mi è sembrato un grido di disperazione, un appello accorato ad aprire gli occhi, a svegliarci, a guardare ai nostri figli ed al loro dolore di fronte ad un futuro senza impalcature né rete, che continua a cadere negli abissi dell’illusione che tanto niente sia mai accaduto e che tutto si possa superare senza dolore.
E invece c’è da stare lì, sotto l’impalcatura, giorno dopo giorno, a salvare Salvatore, reggergli l’impalcatura, le gambe, il futuro, e l’amore. Come un altro leggendario personaggio del mare. Come Colapesce.

16 maggio 2011

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