Cultura e Società

The Social Network di David Fincher. Recensione di Paola Golinelli

24/01/12

David Fincher, USA, 2010, 120 min.

commento di Paola Golinelli

E’ la storia del giovanissimo Mark Zuckerberg, della sua invenzione straordinaria di Facebook, del suo amico e primo finanziatore e dei due gemelli che ritennero, probabilmente a ragione, di essere stati derubati della loro idea.

Non sono una frequentatrice di Facebook, ne ho anzi una naturale diffidenza, la consapevolezza di essere tagliata fuori da queste forme di comunicazione, per via dell’età e di una “forma mentis” ormai difficilmente modificabile, cui si aggiunge un po’ di sospettosità: un solco incolmabile mi separa dunque dalla generazione di Facebook.
Per me la conoscenza è personale, ha bisogno di presenza fisica oppure è fittizia, letteraria, cinematografica, artistica. Tutti gli altri sono mezzi di comunicazione che utilizzo come tutti, ma che non sostituiranno mai il contatto diretto, con la pienezza delle impressioni che dona.

Lo stesso sentimento mi ha accompagnato nella visione del film: cioè che tutto il mondo che si descrive nel film non mi appartenga, perché ormai io potrei al massimo identificarmi nei genitori evocati dai vari ragazzi, ma anche questo mi riesce difficile.
Cominciamo dai genitori innominati di Zuckerberg, di cui non sappiamo nulla, se non che sono ebrei; passiamo a quelli di Saverin, a quel padre che non lo guarda più in faccia perché il figlio si è fatto “fregare” (chissà se avrà ricominciato a guardarlo in faccia, dopo il risarcimento non quantificato, ma certamente non insignificante, che il figlio ha ottenuto tramite dei potenti legali); ancora al genitore dei due gemelli, proprietario di un grande studio legale, un potente ricchissimo avvocato, che viene sempre evocato come una tutela in sé, con una confusione e una sovrapposizione interessante ( e inquietante) tra genitori e avvocati.
Quasi che la funzione genitoriale nel film fosse esaurita nel rappresentare una tutela legale per i figli in quanto o potenti avvocati, o comunque potenti nel senso della ricchezza, pronti a consigliare a quali potenti legali rivolgersi per avere ragione, per avere fortuna, per difendersi e continuare a difendere uno strapotere acquisito, ma avvertito paranoicamente come precario.
Non esistono nel film genitori che esercitino quelle funzioni banali di cura, preoccupazione, di suggerimento, che a noi ingenuamente appaiono fondamentali, genitori cioè che dicano, magari inutilmente, ai figli di non fare scemenze pericolose, di badare a ciò che mangiano, a che ora vanno a letto, a chi frequentano.
I figli del film sono stati rinchiusi in uno dei santuari della cultura più esclusivi del mondo, l’appartenere al quale è già garanzia di essere dei fuori classe, dove, a parte studiare con i migliori insegnanti esistenti sulla faccia della terra e fare forsennatamente sport, fanno una vita assolutamente becera, pensano e praticano ossessivamente il sesso, cercano in ogni modo di imbarcare ragazze e si suppone anche ragazzi, qualora non abbiano tendenze eterosessuali, cercano e trovano ovunque sostanze per lo sballo del giorno e del momento, per poi fare sesso più o meno promiscuo fino allo sfinimento, inventarsi modi per apparire più “fighi” degli altri, per sfondare, per essere “eccellenti”.
Perché questo è un mondo di eccellenza, tutti ne sono consapevoli e ciascuno a modo suo sta pensando a come dimostrarlo agli altri e affermarlo una volta per tutte.
Il padre dei due gemelli, dopo la loro sconfitta nella regata sull’Hanley e la ferale notizia di essere stati fregati da un imbroglioncello più furbo di loro, dice qualcosa di doveroso, ma assolutamente insignificante per due figli che hanno subito una delusione cocente, dopo avere faticato tanto. Non sembra neanche soffrirne molto, né partecipare molto.
Il rettore di Harvard, altra figura genitoriale, si suppone, o per lo meno di autorità, è talmente sopra le righe, talmente arrogante da chiedersi cosa abbia a che fare con la funzione di rettore, uno che non sembra avere sviluppato una grande sensibilità ai problemi dei giovani, ma semmai a come mantenere la sua università in un empireo di eccellenza, dove si producono solo cose eccezionali. Lui è fuori del comune, per arroganza, mancanza di contatto umano e incapacità di ascolto; lo si potrebbe definire un assoluto incompetente affettivo e relazionale non fosse che ci tappa la bocca ricordandoci che lui è stato ministro dell’Economia di un qualche Presidente degli Stati Uniti. E allora, è inevitabile pensare al disastro dell’economia occidentale…
La sua funzione sembra quella di portare avanti l’idea che Harvard è una università per supermen e tale resterà, dato che evidentemente il dato fondamentale è che lui sia stato ministro dell’economia di un presidente degli Stati Uniti.
Alla fine anche in questi adulti stento ad identificarmi, perché appartengono ad un mondo “altro” dal mio, dove i successi sono stratosferici, tutti sono super intelligenti o ricchi al punto da non riuscire a quantificare i loro patrimoni, che ammontano a cifre incommensurabili.
Viene da chiedersi dove sia finita la vita quotidiana, quella in cui ci dibattiamo ogni giorno.
In questo mondo regnano tempi velocissimi, rumore di musiche assordanti, la solitudine interiore non trova parole né espressione, prevale il visivo, il corporeo sulla parola che è spesso ridotta all’essenziale, oppure sconcia.
Mark è sempre in ciabatte, per stravaganza, per noncuranza, per distrazione, per miseria, non si sa. A meno che non sia il segno di un essere lui uno scalzo, come quelli medievali, santi, poveri, quelli che potevano solo sperare di essere toccati da Dio o dal principe.
E lui sarà toccato da Dio, anche se forse è soltanto un furbastro che si appropria delle idee degli altri e le cavalca più velocemente.
Ma se lui è già uno scalzo, un povero in una società di ricchi, un senza famiglia, in un mondo dove la famiglia deve esserci ed essere anche potente, allora l’abbandono da parte della ragazza è intollerabile e deve trovare una risposta immediata nel diniego: “tu mi lasci e mi riduci ad un oggetto più squalificato e senza valore, e io ti riproduco all’infinito, non ho bisogno di te e ti faccio vedere quanti contatti all’infinito posso avere. Io, guarda, in un baleno ne ho un milione di contatti.”
C’è qualcosa di molto infantile in questo, quando si litigava da bambini e ognuno moltiplicava le sue forze, le sue ricchezze, i suoi difensori ( e io chiamo il mio esercito e ti distruggo e io chiamo Superman e ti faccio portare via etc).
Ma non è forse un sogno infantile quello di Facebook? Di avere contatti all’infinito, senza dipendere da nessuno?di poter moltiplicare i propri contatti, mostrando sempre il proprio lato migliore, i successi, i volti ridenti, di essere sempre vincenti, pieni di amici?
Ho avuto più di un paziente catturato da Facebook, che arrivava a trascorrere ore per andare a vedere se i compagni di scuola di un tempo si erano sposati tutti, se si erano laureati, quanti figli avevano e contare i propri “amici”, fustigandosi poi nella solitaria frustrazione di sentirsi quello che non poteva esibire altrettanto successo.

Facebook è un fenomeno complesso, certamente ha dimostrato le potenzialità del mezzo mediatico, ma alla fine è anche la esibizione della propria ricchezza di amicizie, non sappiamo (e sospettiamo) svuotata del significato profondo di amicizia e di affettività e ridotta ad una clonazione vuota di sagome ridenti, che appaiono in un profilo e in una piccola foto.
Mark Zuckerberg non si esaurisce in ciò, ma la sua creatura è anche frutto di un progetto vendicativo di svuotamento di ogni significato affettivo, come risposta all’essersi sentito svuotato nel momento in cui è stato abbandonato e gettato via come un oggetto senza valore.
Non stupisce che Mark sia ad Harvard e che lì lui trovi il meglio a cui attingere con la sua straordinaria intelligenza mediatica.
Verrebbe da dire che è più facile identificarsi con Mark e i suoi amici,piuttosto che con i loro genitori, miei coetanei. Ed è così fino ad un certo punto: sono giovani, brillantissimi, superdotati.
Prevale forse l’ammirazione per il visionario, il geniale, un’ammirazione inevitabile e doverosa.
Sospendiamo il giudizio e lasciamoci portare dai sentimenti in una sorta di vertigine, quella stessa che vivono quei giovani che intuiscono una nuova dimensione di comunicazione, e di espansione di sé e del mondo.
E’ una vertigine di immagini che scorrono veloci, di suoni altissimi che quasi non fanno sentire il dialogo, di corpi giovani, che ballano, si agitano, si mostrano, si spogliano, fanno l’amore, consumano sesso e droga, parlano a raffica, bevono in continuazione.
Certamente Mark intuisce che c’è qualcosa di straordinario nella sua idea e la sviluppa nel senso letterale del termine, la fa crescere.
E’ giusto considerarlo un animale rapace che ruba le idee agli altri?
Da un certo punto di vista sì, ma a lui è chiaro che gli altri non andranno mai oltre un certo limite, lui ha intravvisto l’enormità della sua idea. Allora, ne reclama l’esclusiva, è sua, ne deciderà solo lui le sorti, non per semplice interesse economico, perché a quel livello probabilmente il senso di cosa significhi essere il più giovane miliardario del mondo non è del tutto comprensibile. Ne intuisce la grandezza e scarta tutto ciò che lo ostacola con la brutalità e la violenza di chi ha qualcosa di prezioso in mano.

Chi coltiva una grande passione, persegue la sua meta con ogni mezzo e diventa crudele verso chi non partecipa alla sua visione grandiosa. Quando Mark capisce che l’amico Saverin non è all’altezza, lo fa fuori, dopo avergli dato alcune possibilità di capire.
Quando incontra Mash, non ne resta affascinato per le sregolatezze, per gli aspetti esteriori, per le donne più belle di cui questi si circonda, anzi probabilmente non gli piace proprio per quelle debolezze e vanità, ma intuisce che l’altro ha la sua stessa visione grandiosa e che lui e non gli altri gli darà i contatti per realizzarla.
Non elimina subito Saverin, mentre ha eliminato immediatamente i gemelli, perché in questo gioca la differenza di classe sociale. I due gemelli sono di un upper class che non lo farebbe mai entrare nel suo mondo, lui figlio di ebrei poveri, probabilmente neppure ora che è uno degli uomini più ricchi del mondo lo riconoscono come uno di loro, perché non è nato e cresciuto nel posto giusto e nella famiglia giusta.
Saverin invece è suo amico, come lui è un escluso, pur essendo uno studente di Harvard.
E’ così forte il tema della discriminazione di classe che Saverin è disposto a compiere inaudite stupidaggini, tipo andare in giro con una gallina per una settimana, pur di entrare in un club esclusivo.
Mark lo elimina perché la sua stupidità è un limite intollerabile per lui, che, dopo avergli offerto un paio di possibilità, deve andare oltre.
Mash invece lo elimina perché è pericoloso per la sua creatura; le esagerazioni, le debolezze gli hanno già giocato brutti tiri e finirà per perdere e Mark non può permettersi di essere travolto nella sua caduta rovinosa.
Ne cavalca la capacità di provocare, la visionarietà simile alla sua, ma Mash non ha la sua lucidità, il suo contenimento, la sua visione grandiosa.
Ha avuto un’idea geniale, ma troppo distruttiva nei confronti di chi gli si opponeva, idealmente le figure di autorità: la sua idea si è rivelata giusta, ha piegato le case discografiche, ma le ha distrutte economicamente.
Mash sembra funzionare solo sulla base del principio di piacere, vuole la musica gratis e se la procura in un’orgia di piacere, la vuole donare anche agli altri in un mondo di giovani che inneggiano al piacere, al sesso, alla musica, alla droga, contro un mondo di adulti arraffoni e che controllano le loro fonti di piacere.
Eredi di un immaginario 68 che non sanno neppure cosa sia, sembrano realizzarne gli slogan: vogliamo tutto e subito.

Siamo davvero lontani mille miglia, ciononostante c’è un senso di ammirazione e di preoccupazione per questi giovanissimi, per i loro giochi, perché stanno giocando anche se il gioco ad un certo punto diventerà molto grande e rischieranno di essere travolti tutti. Cresciuti troppo in fretta, troppo in fretta passati dalla dimensione adolescenziale a quella di un mondo adulto spietato che ne sfrutta l’intelligenza, la genialità, senza esercitare alcuna funzione paterna.
Alla fine gli adulti non direttamente coinvolti come genitori, sono ancora una volta avvocati o difensori o accusatori, alcuni difendono i loro protetti, altri cercano di incastrarli.
Ci sono solo avvocati in questo mondo, che cavalcano e sfruttano le trovate geniali di questi ragazzini troppo intelligenti e troppo immaturi affettivamene.
Più che di autenticità i giovani protagonisti del film sembrano mancare di capacità di riflessione, di solitudine, di silenzio. Nessuno rivolge mai all’altro domande semplici, “Come stai?” “che fai?”, perché sono/siamo assediati da richieste di risposte e di comunicazione continua.
Questi giovani sono volontariamente immersi in una rete di mobilitazione totale, in mano al Web, oltre ad averlo sottomano.

Forse loro, come noi tutti dobbiamo escogitare una terapia per poter godere del web e non restarne ingabbiati.

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