Cultura e Società

The tree of life

7/06/11

Terrence Malick, India-GB, 2011, 138 min.

http://www.youtube.com/watch?v=BsGS8_f0H6Y

L’albero della vita

commento di Giorgio Bubbolini

Dottore in filosofia e regista indipendente e di culto, cinque film in quasi 40 anni, Terrence Malick vince il Festival di Cannes con The tree of life, un film che, ai margini della sua lineare purezza drammaturgica, conferma il senso più profondo del suo itinerario filosofico, artistico ed estetico, iniziato col durissimo, desolato e, alla fine, anche un po’ patetico Badlands, del 1973. L’insieme della sua opera, ritmata da continue risonanze universalistiche, forza lo spettatore ad un confronto serrato con i significati, primi e ultimi, dell’esistenza; ma, in quest’ultimo film, l’Autore affina ulteriormente la propria visione della condizione umana, contraendola in un orizzonte in cui non esistono che due sole Vie possibili, ed entrambe ben poco propizie all’uomo. Non è certo un caso che proprio un cineasta filosofo evochi il tema delle due Vie, che ha una lunga tradizione filosofica risalente nientemeno che a Parmenide. Malick fa intendere di conoscerla finemente e se ne fa interprete. Là erano le Vie dell’Opinione e della Verità. Qui, invece, ammonisce la voce fuori campo, proprio ad inizio film, sono le Vie della Natura e della Grazia: l’una tracciata nel solco dell’onnipotenza della creazione (come da esergo tratto dal libro di Giobbe) e, perciò, incombente, gratuita, estraniante ("la natura compiace solo se stessa", dice la madre in una delle prime scene del film); l’altra che s’ispira ad uno scetticismo radicale verso ogni forma di soggettivismo ed umanismo, verso la forza del desiderio e il principio di responsabilità, e che vanamente è invocata ("Grace, grace!", dice ancora la madre) ed attesa come segno divino di un’unica redenzione possibile. Si tratta di una vera e propria dichiarazione d’intenti sull’inconsistenza dell’umano, con i personaggi e le loro vicende resi strumenti di un discorso che li scavalca e che va diretto al cuore ed al cervello dello spettatore, precostituendogli un punto di vista forte ed una chiave di lettura ferrea.
In questo scenario, lucido ed estremo, lo stile rappresentativo e narrativo dell’Autore compone un’estetica del tutto conseguente. Sotto le fronde siderali dell’albero della vita, il film è pensato, girato e montato per dare conto, in modo nitido e rigoroso, dell’incidentalità del vivere, della sua predeterminazione e predestinazione, nel quadro di una progressiva attenuazione della luce stessa della Grazia, sempre più radente rispetto al bisogno umano di illuminazione e salvezza. Proprio per illustrare lo squilibrio tra onnipotenza della Natura e debolezza della Grazia, l’opera è formalmente strutturata su due piani ben distinti e definiti: rispetto alla Natura, alla sua anomia e anonimia, l’Autore opta per immagini in grado di restituire il senso del grandioso, dell’assoluto, del soverchiante; rispetto ai personaggi ed alla loro ordinaria e cieca routine, baciata appunto dalla (dis)Grazia, egli utilizza inquadrature sfuocate, instabili, contratte, in campi prevalentemente corti. Si osservano, poi, movimenti di macchina che inseguono i protagonisti, ma non per rimarcarne conformismi e nevrosi, quanto per non farli sentire abbandonati alla loro impotenza; commenti musicali che sembrano giungere dai primordi, decomposti in sonorità prime, sdrucciolevoli, ripetitive; infine, e perfettamente conseguenti, scelte di montaggio limpide, asciutte, le due Vie ben demarcate, nessuna indulgenza per la suggestione. Si tratta di opzioni stilistiche volte a dare conto della titanica asimmetria nel rapporto Natura/Grazia e, di conseguenza, di una partitura che per l’uomo è già stata scritta una volta per tutte. Magari casualmente, in questi destini già segnati, può dischiudersi un’estetica dell’ibridazione, nei giochi d’acqua dei bimbi, ad esempio, nella breve, ma icastica sequenza della raccolta degli ortaggi, o anche nei sorrisi della madre, che perlopiù appaiono della stessa anonimia della Natura e che certamente esprimono più smarrimento che empatia. Mai, però, tali ibridazioni fanno realmente pensare ad una ricomposizione, sul piano estetico, che costituirebbe anche il segno di una redenzione possibile; esse restano sul bilico di una Natura empia, soggette presto ad inabissarsi nuovamente nell’automatico e nell’impersonale. Ad osservarli bene nel loro fondo, i sorrisi, gli sguardi, gli stessi dialoghi si rivelano generalmente crudi, impassibili, meccanici, come persi nel vuoto e senza alcun reale riverbero affettivo e relazionale.
Ciò detto, però, non ci si può non chiedere se il binomio Natura/Grazia, che a livello filosofico ed estetico impegna così diffusamente le categorie dell’assoluto, dell’immenso e dell’eterno, si rifletta sull’umano in modi esclusivamente spersonalizzanti e alienanti. Cioè a dire: in che misura e fino a che punto al soggetto è precluso uno spazio/tempo della soggettività e della libertà? E’ ancora presto perché l’Autore possa venirci in aiuto. Più che veri e propri soggetti, o personaggi, egli sembra infatti tratteggiare figure dell’incoscienza e dell’irresponsabilità, pedine che recitano il copione di una sorta di nevrosi originaria e inemendabile, individui che molto si affannano, ma senza il senso di una provenienza e di una meta. Occasionalmente, essi riescono anche a trasmettere un bisogno vitale di ossigenazione e nutrimento identitario, ma ad un ritmo e con un’intensità simili a quelli della luce di una lampada che sta esaurendo il proprio combustibile. Costituiscono sì una "famiglia", madre, padre e tre figli preadolescenti, ma appaiono già da sempre inghiottiti, non solo nelle sabbie mobili di una cittadinanza provinciale, l’America del profondo Sud, ma soprattutto nei vani automatismi del loro micro/calvario nevrotico. Diverse sequenze, a mio avviso, mostrano tutto ciò con esemplare lucidità, ad esempio quando il padre, un uomo che a poco a poco, nel film, si rivela insicuro, egocentrico, autoritario ed anche violento, si assenta da casa per motivi di lavoro. Complice una madre prevalentemente muta e sorridente, sembra aprirsi per i figli, e in particolare per il primogenito Jack, il più tormentato dei tre, uno spazio/tempo di tonificazione. Più che di un’apertura, però, presto ci si accorge che si tratta di niente più che di quell’"ora di libertà" che, come diceva Fabrizio De André, un prigioniero non può comunque mai spartire col proprio "secondino"; che alla fine, infatti, trascorsa l’ora d’aria, torna a chiuderlo dietro le sue sbarre. Una condizione simile si osserva anche in alcuni flash-forward che mostrano Jack già adulto, ma non per questo meno spaesato, sempre in balia degli eventi, dentro un ingranaggio che non ne ha affatto disinibito l’affettività e la soggettività e che lo ha invece ancor più alienato nella cupa logica del principio di prestazione. Così, nelle quasi tre ore di film, l’indifferenza della Natura/Grazia e il contrasto tra macrocosmi naturali e microcosmi sociali, familiari e personali si dipana con un rigore che, in genere, solo il cinismo e l’empietà sanno garantire ed a cui finiscono per soggiacere anche le più temerarie ed apparentemente vitali torsioni del materiale filmico.
Così proseguendo, però, ancora non è venuta meno l’impressione che l’Autore ci abbia condotto in un tunnel desolato, di fatalismo o nichilismo. Eppure, nel film, si continua ad avvertire la latenza di una spinta che si oppone tenacemente a tale liquidazione e che preme per schiudere lo spazio/tempo della soggettività. Per quanto sin qui detto, tale spinta non può essere certo ricondotta all’illusione palingenetica di marca leninista e/o marcusiana, cioè all’evocazione insieme infantile e sovversiva dello stato di Natura come luogo di un nuovo inizio, o comunque di un’utopia della regressione e della rigenerazione in grado di sottrarre l’individuo dagli alienanti meccanismi del progresso e della storia. Ciò accadeva, ad esempio, in Zabriskie Point, giocato sul filo dei contrasti tra civiltà e rivoluzione e tra eros e thanatos; o in Stalker, ove proprio il tentativo di disalienarsi dall’ingorgo sovrastrutturale attraverso il lungo pellegrinaggio nella "Zona" costituisce la condizione necessaria (non sufficiente) per accedere finalmente alla "Stanza dei desideri". L’albero della vita, invece, procede su un binario differente, che ne fa emergere un nuovo e forse ancor più peculiare profilo. Nonostante tutto, infatti, l’indifferenza della Natura e la fiacchezza della Grazia non arrivano mai a rendere davvero banale la vicenda individuale, né a sopprimerne la pressione e l’urgenza. In effetti, come si può pensare che il raggio d’azione della Grazia, non fosse che per l’aura teologica e mistica che ancora il termine conserva, sia limitato alla trama della pura e semplice sopravvivenza? Se neppure il dolore e la colpa riescono a dare l’idea di un riscatto possibile, perché corrispondenti più ad un automatismo dell’espiazione che ad una reale possibilità di liberazione emotiva ed affettiva, nel loro insieme Natura e Grazia, proprio in quanto radicate nell’eterno ritorno di una partitura già da sempre scritta e musicata, fanno trasparire in filigrana un altro livello del film. Lo si potrebbe definire fedeltà al creato, una fedeltà che mi pare di poter interpretare come espressione di un più profondo sentimento d’innocenza. A questo livello, la Grazia non è più solo garanzia di sopravvivenza, dono di una trascendenza anonima, ma trasforma l’insensatezza del vivere in una prima possibilità di significazione affettiva, legata appunto ai primitivi vissuti d’innocenza.
E’ in quest’ottica che si può allora comprendere perché il film comincia dalla fine, con un primo flash-forward, un portalettere inviato dal caso, una notizia luttuosa, la morte di un figlio, l’anticipazione di un destino tragico che coincide con la sua predeterminazione: non è forse questa condizione a restituire all’uomo il senso della sua innocenza, che non va affatto confusa con la mancanza di responsabilità? Solo in quanto si faccia corrispondere la salvezza all’espiazione, allora il lutto, il dolore e la colpa apparirebbero solo come spicchi del cerchio già chiuso di un’impossibile redenzione. Per chiudere la porta al nichilismo, alla mancanza di senso, occorre invece pensare al dolore (della madre) ed alla colpa (del padre) come due nuove Vie, su cui, però, si possa scorgere il senso della fondamentale innocenza dell’uomo.
Credo sia proprio per contrastare l’immagine di un’umanità già da sempre abbandonata al proprio destino che l’Autore scopre tutte le proprie carte all’inizio del film, come fossero ipotesi da dimostrare e come se il film ne rappresentasse la dimostrazione. Da un parte l’esergo tratto dal libro di Giobbe, dall’altra l’annuncio delle due Vie, dall’altra ancora l’esperienza del Lutto, del Dolore e della Colpa definiscono nel loro insieme una prospettiva diversa da quella del semplice girovagare nelle insensate scenografie del creato. V’è nel film una sequenza davvero stupenda e lancinante. Lungo un maestoso torrente che pare attorcigliarsi in una valle proprio come un albero della vita, un animale preistorico si avventa su un cucciolo spaventato e ferito, sembra volergli schiacciare la testa con i propri artigli per poterlo poi divorare, ma alla fine gli fa Grazia della sua innocenza e lo lascia vivere. Credo che niente meglio di questa scena straordinaria riesca a dare conto di come individuazione e soggettivazione non possano che nutrirsi di sopravvivenza e innocenza.
Per concludere. La posta in gioco della concezione del mondo sottesa ad un’opera come L’albero della vita sembra dunque essere la disalienazione dell’uomo dall’angoscia dell’abbandono e dell’insensatezza, prodotta dall’onnipotenza della Natura e debolmente riscattata dall’intervento della Grazia. Tuttavia, proprio il sostegno della Grazia potrebbe rivelarsi propizio, ove fosse possibile identificarla come luogo primo della significazione, significazione della condizione umana a livello di un arcaico sentimento d’innocenza. Non si tratta ancora della nascita del Soggetto, ma, per ora, solo della Grazia di una possibilità per l’uomo di autoriconoscersi come innocente anche al cospetto dell’empietà della Natura.


6 giugno 2011

 

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