Cultura e Società

Robinù

10/09/16

Robinù (Italia, 2016)

Regia di Michele Santoro

Fuori Concorso

Genere documentario

Commento di Elisabetta Marchiori

“Abbiamo fatto tutto, per questo figlio, tranne guardarlo”. A pronunciare queste parole é il padre di uno dei ragazzi rimasti uccisi negli scontri tra le “paranze dei bambini” a Napoli – sessanta vittime, di cui la maggior parte minorenni – nel film “Robinù”, ideato e diretto da Michele Santoro con la sceneggiatura di Micaela Farrocco e Maddalena Oliva. Che invece li guarda da vicino e ce li fa vedere, li fa parlare, i Robinù, “quei ragazzi feroci di Napoli”, come li definisce Roberto Saviano in un articolo su la Repubblica (8 settembre 2016), che vale la pena di leggere.  Qui lo scrittore, oltre ad approfondire i fatti e descrivere i volti della nuova camorra, spiega i motivi per cui “è riduttivo chiamarlo documentario”: “è il racconto di Napoli attraverso voci che in genere non ci arrivano così, nitide, chiare, pulite, senza rumori di fondo”. Non ci sono commenti, il giudizio è sospeso, lo spettatore si trova faccia a faccia con questi adolescenti che iniziano da bambini “per gioco”, “per scherzo” a “fare macelli”, per poi scoprire che “più macelli fai, più la gente tiene paura di te”. E loro, di paura, da adolescenti, non ne hanno, e raccontano dal carcere minorile o dalla strada con aria tranquilla, il sorriso sulle labbra, di quanto amano le armi, di quanto rimpiangono la loro icona, Emanuele Sibillo, il “padrino” ammazzato di recente a diciannove anni, che li proteggeva e li “aiutava”, di cosa sono disposti a fare per  “il quartiere”  e per avere soldi da spendere, di come sono e di come il carcere non li farà cambiare.

Intanto i genitori piangono, come i fratelli che per poter “fatigá” devono rifugiarsi all’estero e sono rinnegati. Le donne, che si trovano giovanissime con i figli da mantenere perché il padre è in galera, preparano le dosi di droga e spacciano, alcune per “vocazione”, altre per “necessità”. E amano i “ragazzi di strada”, perché “hanno più cuore” di quelli che vanno a scuola o lavorano.

Ma cosa vuol dire? Spiazzano, gli sguardi intensi e i sorrisi di Michele, Mariano e gli altri, se si pensa alle loro azioni, al fatto che, mentre scrivo, stanno facendo una rivolta in carcere. Si percepisce, in contrasto con la ferocia, un ‘fattore umano’ profondo che non ha avuto la possibilità di evolvere e che li rende vulnerabili e saranno i primi a pagarla, con la vita o con il carcere: odio e amore, a livello pulsionale, coesistono senza conflitti e sono agiti nell’immediato, in una fantasia di onnipotenza e di immortalità.

Questo lavoro di Santoro si inserisce nel dibattito sul “male assoluto” scaturito dal successo della serie televisiva “Gomorra” (di Stefano Sollima), ispirata all’opera di Saviano, mostrando che “il male” , in questi adolescenti, non è, forse, ancora assoluto, definitivo: se si guardano e si ascoltano con attenzione emerge un aspetto vitale, passionale, che potrebbe essere incanalato verso la creatività piuttosto che la distruttività.

Durante il “Q & A” (ovvero “questions and answers”, come si chiama oggi il confronto tra pubblico e autori) Santoro ha sottolineato che la criminalità è un sistema che produce ricchezza e questo porta a situazioni collusive di poteri, impedendo  l’attuazione di un progetto sociale e culturale in grado di offrire alternative plausibili alla “carriera criminale”.

La famiglia, il quartiere, il carcere fanno parte dello stesso “ambiente”, con confini che questi ragazzi non hanno mai oltrepassato e che difendono come fossero minacciati da un’invasione aliena, utilizzando gli strumenti che conoscono. La citazione di Abrahm Maslow tratta dal film Arrival, “se conosci solo il martello, vedrai tutti i problemi come se fossero chiodi” torna appropriata. 

Per definizione, i minorenni dovrebbero essere tutelati, e non trattati come carne da macello, lasciando, permettendo che si ammazzino tra loro, valorizzarne gli aspetti vitali, far loro conoscere in tempo il gioco “vero”, prima che si spenga la luce che hanno negli occhi.

Può sembrare retorica, ma ne ho viste tante, in questi giorni, di immagini di sguardi adolescenziali spenti, persi nel vuoto, disorientati, opachi, non ricambiati, folli. Penso a quelle di “Dark Night”, di Tim Sutton (USA, sezione Orizzonti), ispirato alla strage di Aurora, Colorado, a quelle di “Home” della esordiente belga Fien Troch (Belgio, sezione Orizzonti), per citarne un paio.

Non è solo a Napoli che gli adolescenti vengono trascurati, incompresi, lasciati soli, vittime di privazioni affettive e violenza,  trasformati in carnefici. Guardiamoli, per cominciare.

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