Cultura e Società

 “Il sacrificio del cervo sacro” di Y. Lanthimos, a cura di D. Scotto di Fasano, V. Berlincioni e M. Francesconi

25/03/19
 "Il sacrificio del cervo sacro" di Y. Lanthimos, a cura di D. Scotto di Fasano, V. Berlincioni e M. Francesconi

Autori: Daniela Scotto Di Fasano, Vanna Berlincioni, Marco Francesconi

Titolo: Il sacrificio del cervo sacro

Dati sul film: regia di Yorgos Lanthimos, Usa, Gran Bretagna, Irlanda, 2017, 121

Genere: Drammatico

 

 

 

 

 

Il film non è leggero. È un film misterioso, inquietante. C’è un residuo non risolto, un resto indecifrabile. Ha scritto Freud (1899) che è presente infatti un “resto” indefinibile nei sogni, che possiamo intravedere, ma mai del tutto comprendere: è il nostro lavoro, in Psicoanalisi, tentare di avvicinarci quanto più possiamo a questo nucleo misterioso del sogno. Il film narra di Steven, famoso cardiochirurgo che insieme alla moglie Anna, alla figlia Kim e al figlio Bob vive in una lussuosa casa di Cincinnati. Un giorno il medico diventa amico del sedicenne Martin, che ha da poco perso il padre, e decide di prenderlo in affido. Quando il ragazzo viene presentato a tutta la famiglia cominciano a verificarsi eventi perturbanti, che ben presto mettono in serio pericolo geometrie familiari fino a quel momento stabili e certe, obbligando Steven a compiere un’azione per lui fino ad allora impensabile.

Un residuo onirico – il cosiddetto “ombelico del sogno”, il suo “resto” irraggiungibile – rimane oscuro e inspiegabile. Allora, forse, possiamo avviarci a tentare di comprendere “Il sacrificio del cervo sacro” di Yorgos Lanthimos trattandolo come fosse un sogno. Accontentandoci di capire quel che capiremo. Ma crediamo di essere già sulla strada giusta, poiché immediatamente balza all’occhio il nucleo portante della vicenda narrata, e cioè la problematica edipica che, come sappiamo, fonda la nostra identità umana. Con cosa è stettamente implicata tale problematica? Nella sua dimensione più nota, con il fatto per cui bambina desidera unirsi al padre e il maschietto alla madre, comportando però, tali desideri amorosi, anche desideri distruttivi: reciprocamente, disfarsi del la madre, disfarsi del padre. Su un versante affettivo dell’Edipo accade questo, con la conseguenza, su un altro versante, della paura di subire da parte della o del rivale le stesse aggressioni che noi faremmo a lei o lui; con un sovrappiù d’angoscia, per il bambino e la bambina, relativa alla frustrazione di sapersi, e sentirsi, piccoli. E qui ci viene in aiuto, nel nostro tentativo di capire il film – sogno, un episodio: quello in cui Steven adolescente, alle prese con le sue prime masturbazioni ed eiaculazioni, per lui umilianti per quanto sono povere di sperma, si avvicina al padre addormentato e lo masturba. Con la conseguente bruciante ferita narcisistica provocata dalla vista della generosa abbondante eiaculazione del padre. Crediamo che la chiave della lettura del film risieda proprio in questa specifica scena. Impastata di rivalità, confronto, invidia, quegli stessi sentimenti sperimentati da Martin: come tutti i bambini del mondo, ha a sua volta nella remota infanzia desiderato uccidere il padre e giacere con la madre.

Oggi, a sedici anni, esposto, com’è fisiologico in adolescenza, alla reviviscenza delle sue intense passioni edipiche, si trova in balia della gioia di un hic et nunc in cui, per mano di Steven, il padre è davvero morto.

Si tratta tuttavia di una gioia che impone un pesante tributo di colpa. Ed ecco avviarsi il ciclo – controfobico – della vendetta: “Non è vero che ho desiderato la morte di mio padre, e non è vero che ho quindi gioito della sua morte, anzi! Mi vendicherò con il suo assassino imponendogli di dover uccidere una persona cara, a dimostrazione del fatto che mio padre era per me una persona cara”. A dimostrazione del fatto che Martin in tale frangente inquietante tende a agire in modo controfobico, lo vediamo proporre a Steven la madre come amante. Purché Steven sia nei fatti, naturalmente in modo del tutto inconscio, il suo alter ego: l’assassino del padre e lo sposo della madre.

D’altronde, è tipico nella vicenda edipica temere di ricevere quanto si è desiderato di dare, secondo lo schema della legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente. Forse per tale ragione – ma sempre per interposta persona – Martin spinge Steven a modificare radicalmente i suoi affetti verso i figli. E potremmo anche chiederci, spingendo l’analisi ancora più a fondo, quanto Martin non trovi terreno fertile in Steven; alla pari di Laio, desidera disfarsi del figlio, il rivale, che nel succedersi delle generazioni, cresce e lo espone all’uscita di scena.  La vicenda è resa ancor più complessa dalla natura fondamentalmente anaffettiva di Steven e Anna, come vediamo nel rapporto sessuale in ‘anestesia totale’ tra i due coniugi, come capiamo attraverso la terribile frase proferita da Anna quando sceglie di immolare un figlio (e non se stessa, ad esempio, per amore dei figli): “perché tanto un figlio lo puoi sempre rifare”.

Non si può inoltre ignorare l’immaturità emotiva di Anna e di Steven, probabilmente a loro volta ancora alle prese con una vicenda edipica non sufficientemente elaborata e quindi non ancora superata: forse potremmo chiederci se è per tale ragione che si deve avere il rapporto sessuale mettendo reciprocamente in scena un’assenza di coscienza: in anestesia totale? Come se Anna pensasse: “Non è vero che ho un rapporto con mio padre, poiché sono emotivamente anestetizzata. Non è vero che ho un rapporto con mia madre, qui c’è una sorta di bambola di cera”.  Rapporti genitali autentici – che sono l’orizzonte di un complesso edipico felicemente superato – non sono presenti: ciò che potrebbe esservi di autentico, tra marito e moglie, deve avvenire come un atto solamente masturbatorio, come di uno Steven adolescente, e di Anna che si presta come oggetto inanimato al medico anestesista.

Infine, tornando all’”ombelico del sogno”, il suo nucleo indecifrabile: in cosa consiste il “potere magico” di Martin? Come fa a provocare i sintomi che ammalano i due adolescenti? Certo, in Psicoanalisi sappiamo del potere dell’identificazione proiettiva, concetto descritto da Melanie Klein e particolarmente esplorato poi da Bion e dagli autori post kleiniani. L’identificazione proiettiva è caratterizzata da un particolare tipo di manipolazione interpersonale, cioè da un’intensa pressione che un soggetto provoca in un altro soggetto spingendolo a provare alcune emozioni non sue come fossero invece proprio sue, a compiere perfino certe azioni senza comprendere che non sono azioni che avrebbe scelto di compiere. Un po’, “mutatis mutandis”, come in stato di ipnosi. Potremmo chiederci: perfino a ammalarsi? Gianna Polacco Williams ha scritto un libro un interessante ed esaustivo libro su questo argomento, Paesaggi interni e corpi estranei (1999).

In effetti, una ulteriore possibile lettura del film può snodarsi lungo un tragitto che ipotizzi in Martin una rappresentazione figurata di una parte scissa della stessa mente del chirurgo Steven. Se nel ragazzo “perturbante” vedessimo il ritorno della colpa rimossa, non un soggetto separato dotato di misteriosi poteri, ma la forza stessa di un settore della propria psiche, ci potrebbe essere più facile comprendere il potere di far ammalare, di imporre la propria volontà distruttivo/punitiva – si noti – nella totale assenza di repressori legali esterni. Si possono seppellire cadaveri in giardino, si può massacrare qualcuno senza che accadano conseguenze, si può sparare in un improbabile girotondo senza che nulla accada in termini normativi) Tutto avviene nel mondo interno, dove delitti, colpe ed espiazioni si svolgono interamente nel teatro della mente, lontano dall’esame di realtà e la colpa è già una punizione. Non è certo una novità, ameno in psicoanalisi, che il figlicidio si intrecci con il parricidio: le colpe di Laio e quelle di Edipo, ovviamente, ne sono le radici, ma vale la pena ricordare in tempi non sempre inclini alla memoria, il complesso lavoro di Raskowski (1973), così come potrebbe essere – cosa qui impossibile – utile approfondire la trasformazione del sacrificio dei figli da ineluttabile e concreto evento tragico in assunzione egosintonica della colpa da riparare con graduale passaggio attraverso (posizione maniacale?) resurrezioni e trasformazioni simboliche che permeano tanto l’intrapsichico che il religioso.”

In tale prospettiva, il pensiero va al freudiano Totem e Tabù (1913), al romanzo di William Golding Il signore delle mosche (1954) e al bellissimo film che ne ha nel 1963 tratto Peter Brook. Come si ricorda, i ragazzi sperduti nell’isola deserta, al culmine dell’angoscia e del terrore, fanno dell’oggetto mostruoso che li terrorizza un dio da venerare e al quale offrire sacrifici umani. Così Anna, di fronte a Martin vissuto come onnipotente, si inginocchia a baciargli i piedi insanguinati. E, poi, lo libera. Forse, potremmo chiederci, riconoscendogli – in quanto essere onnipotente – il diritto e la libertà di uccidere.

A tale proposito, ci sembra molto utile sottolineare l’importanza di approfondire e riflettere su tali questioni anche da un vertice di osservazione etnopsichiatrico-antropologico. La storia di questo complicato film prende infatti le mosse dalla uccisione per colpevole imperizia chirurgica di un paziente cardio-trapiantato. Parecchi anni dopo il figlio sedicenne dell’ucciso pensa di vendicarsi sul chirurgo e la sua famiglia. Il tema della vendetta è onnipresente nell’ambito della narrativa non solo cinematografica, ma ci sono aspetti di questo film che strutturalmente ricordano “Teorema” di Pasolini (1968): anche qui infatti il protagonista attraverso la seduzione e le colpevolizzazioni conduce alla distruzione un’intera famiglia, come un altro esempio cinematografico potrebbe essere quello rappresentato in “La voltapagina” di Dercourt (2016). Nel “Sacrificio del cervo sacro”, all’iniziale seduzione erotico-narcisistica da parte di Martin seguirà un esteso gioco perverso di colpevolizzazioni del chirurgo/”padre”. Il delitto originario del parricidio determina nella famiglia una sorta di “malattia sui generis” in tutti i suoi membri, altro aspetto mutuato dalla narrazione edipica. Per uscire da questa situazione distruttiva a carico di tutta la famiglia, è richiesta al padre un’azione sacrificale, quale essa sia. L’idea è che per riportare l’ordine nella famiglia (o nel gruppo sociale) ci deve essere una vittima sacrificale, secondo una logica propria di molte culture tradizionali. È qualcosa che ricorda il dilagare distruttivo nella collettività narrato nel mito di San Giorgio e il Drago: il sacrificio dei figli, anche qui sorteggiati, serve a placare l’avidità persecutoria del drago che assedia la città. Solo nel momento in cui il “padre”/chirurgo aderisce alla paranoia attivatasi nel collettivo familiare e alla necessità di superare il sentimento di colpa persecutoria, verrà attuato l’omicidio salvifico. Il riferimento a “La violenza e il sacro” di René Girard (1972) s’impone. L’uccisione sacrificale del figlio minore, piccolo Cristo in miniatura, medica la “peste” sviluppatasi nel microcosmo familiare. Altre soluzioni si sarebbero potute prospettare: la vendetta perpetrata direttamente nei confronti del chirurgo, o al contrario l’uccisione da parte del chirurgo del figlio persecutore. Oppure l’uccisione di un animale sacro cui allude il cervo del titolo dell’opera. Martin invece sottomette il “padre”/cardiochirurgo alla propria volontà imprigionandolo in una situazione di delirio colpevole e masochistico. Il film è dunque ricco di momenti di rilevanza antropologica che consistono nel fallimento della gestione collettiva del sentimento di colpa, nel sacrificio rituale con l’uccisione della vittima sacrificale che mira a risolvere la persecuzione connessa al patricidio e figlicidio. Infine, in quella sorta di divinizzazione e onnipotenza che l’inquietante Martin incarna, e che  radicalizza attraverso modalità deliranti, e di idealizzazione di sé. Tutti aspetti poi attivati in tutti i membri della famiglia, ognuno a suo modo. Il film testimonia della grande confusione dei ruoli e delle funzioni esistenti nell’odierno contesto sociale permeato di movimenti totalmente irrazionali e privo di soluzioni culturali accettabili ed evolute.”

 

Di fatto, come nota Angelo Moroni (www.spiweb.it) “Lanthimos ci mostra una sorta di geometria escheriana generata dal contatto tra la famiglia e il lato oscuro, ambiguo evocato in ciascuno di noi dall’adolescenza. Martin personifica infatti il versante della potenza pulsionale distruttiva adolescenziale, quando essa è identificata con una missione vendicativa radicale. Il sordo rancore di Martin rende concreti i suoi effetti, traducendosi in una vendicatività che lo fa diventare un vero e proprio Angelo della morte”. E – continua Moroni – “nessuna corazza scientifica o medico-chirurgica sarà in grado di tenere a bada le forza tellurica inconscia delle emozioni”. Concordiamo nel dire che “Il sacrificio del cervo sacro” è un film cupo e inquietante, che fa dell’angoscia e della colpa persecutoria la sue cifre stilistiche preminenti, e mescola con sapienza sogno e realtà attraverso la mediazione di un sonoro altamente evocativo e toccante, e di una sceneggiatura che si è ben meritata il premio ricevuto a Cannes nel 2017. E di quanto l’ambiguità giochi un ruolo di primo piano nel film è testimoniato anche dalla scena conclusiva. Dove un’ambigua e perfino, forse, ammiccante Kim assapora patatine fritte nella sequenza finale del film (uno degli alimenti preferiti di Martin, che le lascia sempre da mangiare per ultime, come dice a Steven in uno dei loro incontri al bar) al ketchup mentre Martin la osserva da lontano. Si tratta della scena conclusiva del film, una scena che lascia nello spettatore un’ombra di disagio: cosa comunica Kim a Martin? Come ha notato Veronica Russo, responsabile a Pavia di due Comunità Educative per adolescenti “non accompagnati”, tra le adolescenti si allude alle mestruazioni con la frase “ho la patatina al ketchup”. Non appare quindi fuori luogo chiedersi se un’ennesima sottolineatura dell’ambiguità che caratterizza l’intero film non ne caratterizzi anche la conclusione.

 

Molti restano i temi che potremmo approfondire, ad esempio il senso di colpa di Steven che lo spinge a compensare e risarcire in qualche modo Martin sia frequentandolo sia invitandolo a casa; l’etilismo di un tempo, che probabilmente gli ha fatto uccidere il padre di Martin; l’anaffettività di tutti, Martin compreso nei confronti di Kim in particolare; la solitudine di Bob e di Kim, nonostante l’apparente prodigalità delle cure materne, tant’è che Anna è pronta a sacrificare uno dei figli: tanto un figlio lo si può rifare; e, infine, non c’è lo spazio per allargare il discorso, come si dovrebbe, alle tragedie greche, in particolare al sacrificio della figlia Ifigenia da parte del padre Agamennone, o all’uccisione dei figli da parte di Medea per punire il proprio sposo. Essendo il regista greco, non c’è dubbio che si tratta di rimandi e sfondi molto presenti.

 

 

Bibliografia

Freud S., (1899), L’interpretazione dei sogni, OSF, 3, Bollati Boringhieri, Torino, 1987.

Freud F. (1913). Totem e tabù, O.S.F. Vol. 7, Bollati Boringhieri, Torino, 1987.

Girard. R. (1972), La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 1980

Golding, W. (1954), Il signore delle mosche, Mondadori, Milano, 2016

Moroni, A. (2018), commento a “Il sacrificio del cervo sacro”, Spiweb: https://www.spiweb.it/cinema/sacrificio-del-cervo-sacro-yorgos-lanthimos-commento-angelo-moroni/

Polacco Williams, G. (1999), Paesaggi interni e corpi estranei. Disordini alimentari e altre patologie, Bruno Mondadori, Milano, 2007.

Raskowski A., (1973), Il figlicidio, Astrolabio, Roma, 1974.

 

Marzo 2019

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