Cultura e Società

Settimana 5 – Basilio Bonfiglio e Anna Maria Nicolò

6/05/13

Basilio Bonfiglio e Anna Maria Nicolò

Ancora una volta Mari ci cimenta e ci stupisce. Arriva a studio con la sua aria triste e seria e incontra nel cortiletto all’aperto Lea che lo aspetta. “No, questa volta Pietro non c’è”. Lea comunica che Pietro stesso l’ha invitata a venire da sola alla seduta. C’è perciò un’altra variazione di setting. Sarà possibile che in una seduta di coppia si veda uno dei due da solo.? Se la coppia è un’unità diadica (Dicks) e si lavora sul legame costruito tra i partners, dovremmo pensare che non è possibile, almeno senza buone ragioni. In effetti per alcuni analisti inglesi  (ad esempio Tom Main ) si potevano in momenti particolari  prevedere nel processo  sedute individuali a ciascuno dei due coniugi, mantenendo però la neutralità tra i due  (ad esempio offrendo  una seduta all’uno e una all’altro). Ma in generale Mari ha un atteggiamento abbastanza easy, e perciò non si stupisce, ma accetta, non si interroga, non è per lui un’eccezione. Infinite sono le variazioni di setting che osserviamo in questo nostro intrattenimento, quasi dimenticandoci che il setting è una delle invenzioni più straordinarie che Freud ci ha lasciato e che è uno dei presupposti per la costituzione di una “situazione psicoanalitica”.  Intorno al setting, in effetti, assistiamo a comportamenti contrastanti  e opposti di Mari che vanno  dal far aspettare Lea fino allo scoccare del tempo di inizio  della seduta, fino alla preparazione, che egli stesso  fa, del caffè per un altro paziente.

Ma ecco un altro punto interessante: Lea dice che Pietro, grazie alla terapia  (o alla minaccia di abbandono) è cambiato, e a lei, in questa nuova veste, non piace più. Lo preferiva aggressivo, duro e violento soprattutto nel rapporto sessuale. La sua nuova dolcezza lo rende “zombi”. Lei ha deciso allora di tradire Pietro e andarsene con il suo capo, Dal Pra che lei non stima per niente. Certo ci potremmo domandare intorno a questa novità e riflettere sulla rottura del patto inconscio nella coppia che,  come capiamo ora, si reggeva grazie al conflitto e alla violenza.  Un patto inconscio in cui l’eccitazione e l’aggressività tenevano a bada un’antica depressione di ambedue, come scopriremo. Naturalmente pensiamo a quante coppie si reggono su un compenso reciproco delle problematiche inconsce di ciascuno, di modo che ognuno dei due partners si cura nell’altro e attraverso l’altro (o alienandosi nell’altro come ci ricorda la Aulagner). A volte ahimè queste coppie si curano attraverso il figlio che diventa il porta parola della loro sofferenza. Ma la situazione non è così semplice.  Dal momento in cui Pietro è cambiato, Lea ha un ticchettio nella testa, qualcosa non le suona. “Perché sto per fare questo?”  si chiede accennando al suo tradimento con Dal Pra. E così rapidamente si dispiega la sua storia di bambina grassa  e rifiutata, di una madre matrigna  di un padre affascinante e dolce, di una sorella insensibile e crudele. Ci appare più chiaramente, sotto l’apparenza di una donna forte, sicura di sé, mangia uomini, assetata di sesso (“A me piace proprio scopare”),  la fisonomia di una donna   problematica. Ricorda il suo corpo forse non riconosciuto dalla madre, che diventa obeso alla pubertà, la sua competizione fraterna, il rifiuto e la non empatia della madre che definitivamente si allontana e si deprime alla morte del padre quando Lea aveva 13 anni, quel padre dolce, ma lontano che le ispirava tenerezza e seduzione edipica. Ce n’è abbastanza per disegnare un quadro di grande sofferenza che trova il suo culmine proprio alla pubertà  e alla morte del padre  da cui si libera indurendosi e negandosi ulteriormente ogni fragilità e bisogno. Lea sembra  consapevole che i suoi problemi sono antichi  e lo ricorda quando dice di aver vissuto  in un mondo di fantasia “con amici immaginari”, e di essersi sentita la reietta, la cenerentola, che nessuno voleva perché grassa. Molte le interpretazioni che Mari offre nel dialogo e la paziente sembra seguirlo.  Le spiega che le persone che hanno  sofferto molto da piccole fanno poi soffrire gli altri e si interroga sul perché lei pensi di non meritare la dolcezza.  In un dialogo serrato commenta come lei esibisca la sua apparente forza e parla di un luogo interno duro dove si sente più protetta. Parla dell’aggressività, utile per far sparire dolore e umiliazione. Capisce come detesti in Pietro la sua capacità di aprirsi  e di emozionarsi. Lea sembra cominciare a dubitare dei suoi propositi. L’atteggiamento di accennata seduzione e provocatorio dell’inizio della seduta  recede, mentre noi ci chiediamo perchè cosi tante pazienti cerchino di sedurre Mari, neppure fosse Sean Penn, come dice infatti Lea. Recede  forse  perchè Lea ha capito che  per trovare un legame vero che nutre, protegge,  ci sono altre strade a parte  la seduzione sessuale.   La paziente comincia a rendersi  conto di come abbia collocato in Pietro proprio le sue parti fragili e bisognose che odia in sé e di cui ha paura. Si mette in luce chiaramente la natura di quel gioco di identificazioni proiettive  reciproche che fondano il legame della coppia, la qualità  della loro collusione difensiva contro la fragilità e  la tenerezza  di ambedue i partners.

Ci fermiamo a riflettere mentre  Mari prosegue nel suo intervento. Le spiega così che lei è spaventata dall’amore di Pietro  e poi quando la paziente gli chiede una sorta di autorizzazione per il tradimento  le commenta “A questo punto  vuole fare sesso con Dal Pra e non punirsi?”. Sembra  proprio che Mari abbia  l’intento  di evitare l’agito di Lea  che sta per fuggire con il suo capo  e tenti di  ricostituire l’unità della coppia.

Ci stupirebbe  allora la fuga di Lea nel bagno per   telefonare  a Pietro, se non facessimo un’altra ipotesi.  Perché mai Lea  ha questo bisogno urgente di telefonare a Pietro e perché sempre nel bagno? Certo il bagno in queste sedute sembra avere un’importanza cruciale, costituendosi come luogo di fuga ed evacuazione di tutte le angosce indicibili nella seduta. Sarà una sorta di seno gabinetto di Kleiniana memoria, ma certo Mari non se ne cura. E’ normale per lui che ogni seduta ogni paziente vada alla toilette, salvo poi a tentare il suicidio con i farmaci che sono nel suo mobiletto del bagno, come nel caso dell’adolescente . ( Incredibile!).

A questo punto ci viene un sospetto. Forse non è tutto lì, in quella collusione che pur senza esprimerla, Mari ha interpretato induttivamente nella relazione di coppia tra Lea e Pietro. Perché Lea può esprimere questo aspetto di sé solo fuori dalla stanza di terapia utilizzando il bagno dell’analista da dove telefona?  Vogliamo continuare nel gioco  che In Treatment ci propone  e cioè di trattare questo dialogo come se fosse un dialogo terapeutico. Ci rispondiamo allora  che Lea fugge nel bagno  perché non c’è spazio nella stanza per l’ambivalenza.  Non possiamo concludere con la dicitura “e vissero così felici e contenti”, come sembra desiderare per lei il suo psicoterapeuta, perché  molti punti oltre il suo agito e la fuga nel bagno ci interrogano.  Siamo di fronte a un momento complesso della vita di una persona e la risposta non è solo quella che  ci racconta Mari, che assimila l’amore finito  verso Pietro al mancato amore di Lea per se stessa. Lea ci chiarisce il punto quando  ci dice  che l’amore di Pietro non è amore vero. E’  piuttosto “avere bisogno”. E’ un dubbio molto  importante  questo di Lea che forse si sta interrogando su se stessa e sul suo compagno, alla ricerca  finalmente  di una relazione più vera e  di un sé  più autentico. Mari però, almeno in questa seduta, non cerca di comprendere le ragioni del perché adesso il marito sia  diventato improvvisamente buono, amorevole ed accudente. Egli sembra ritenere che tradirlo sia un errore e che non dovrebbe farlo. Come se dicesse: “ma come, adesso che quello ti ama, tu lo vuoi tradire?”. Ci domandiamo se il possibile agito di Lea  non rappresenti la ricerca di qualcosa che forse non ha mai avuto e ha compensato  e bloccato con il matrimonio, e adesso, proprio adesso, ha deciso inconsciamente di cercare. Forse la rottura della collusione, avvenuta con il suo partner Pietro, ha aperto la strada per  cercare nuovi aspetti di sé e non solo dell’altro, anche se questa ricerca  per il momento sta iniziando  in modo maldestro, contraddittorio e confuso, tentando una  strada distruttiva quale quella del  rapporto con un uomo come Dal Pra. Spesso possiamo vedere questi fenomeni quando la coppia rimette in discussione vecchi funzionamenti e questo permette il liberarsi improvviso di aspetti nuovi nell’uno o nell’altro che prima erano tenuti a bada proprio grazie al legame che li imprigionava.

Guardiamo adesso al dr. Mari, anche perchè tifiamo tutti per lui. Possiamo confessare che ci dispiace, ma tante cose ci rendono perplessi. Ci sembra, ad esempio,  che sul piano dell’analista venga meno proprio quella neutralità che preserva la libertà e lo spazio di movimento del paziente che viene intruso  se il terapeuta  indirizza il paziente con una netta  presa di posizione. Si perde così  l’opportunità di indagare le problematiche profonde che spingono Lea alla ricerca di un altro. Lo spettatore  resta confuso  nell’avere davanti agli occhi  una Lea incoerente, cattiva, forse ‘pazza’ secondo la visione del senso comune.  Anche se sta rispondendo a una domanda di Lea su questo punto, la frase  “Pensa che riuscirà a perdonarsi?”  ci risuona così come una drastica presa di posizione rispetto a molte altre possibilità : ad esempio “di che cosa dovrebbe perdonarsi? a chi sta chiedendo il perdono?”  e così via. Usando una terminologia bioniana, Mari sembra aver “prescelto” un aspetto specifico  della storia che tradisce però i suoi vissuti personali. ( ci saranno di mezzo anche i drammi che vive   rispetto alla sua propria coppia?). Ci chiediamo se  il terapeuta in certo senso  non  anticipi a Lea  che quello è un errore e che sarà colpevole se lo farà. Ma  anche Mari è preso in questo inghippo e  nei trattamenti di coppia o di famiglia, se l’analista non è attento, si verificano proprio questi slittamenti e l’analista proietta quanto ha vissuto nella propria famiglia di origine o vive nella  coppia attuale.  Non possiamo dimenticare che a fronte delle tematiche emergenti  nelle sue  differenti sedute, Mari stesso  presenta una coppia problematica con una moglie che lo tradisce per  esprimergli ben altro, una figlia adolescente che si riempie di canne e  si fa scopare da compagni poco adeguati come gli contesta brutalmente il suo paziente carabiniere. E egli è solo. Perfino questa strana e depressa persona che non si capisce bene se sia la sua analista o il suo supervisore non riesce ad aiutarlo collocandolo in un mondo severo, fatto di disciplina e mortificazione. Quale sarà la soluzione? Chi custodisce il custode? Ma poi questi analisti sono veramente così affidabili se anche loro nel loro mondo personale hanno mogli fedifraghe e figlie problematiche? Forse il vero spettacolo non è quanto vediamo nei conflitti del paziente, il vero e unico protagonista è Mari e il suo mondo complicato. Il  vero spettacolo, come nel  sogno di tutti i bambini (e non solo) è  vedere cosa succede nell’altra stanza, nella vita dell’analista e nella sua mente, realizzando quella difesa potente che alcuni pazienti resistenti hanno: evitare di interrogarsi su di sé, interrogandosi invece sull’analista. L’insieme dà la sensazione di entrare gratis, senza sforzo né sofferenza, dentro la presunta stanza di analisi, senza l’inquietudine che accompagna una tale decisione nella realtà. Può darsi che l’effetto sia di rendere l’esperienza meno inquietante e più accettabile, ma banalizza fortemente soprattutto la figura del terapeuta. Viene meno quella tensione legata allo spazio analitico che non è solo una invenzione degli analisti per apparire più misteriosi, ma fa parte integrante dei vissuti che accompagnano vicende misteriose e imprevedibili, quali sono quelle analitiche. Siamo confusi. Da una parte riconosciamo l’interesse di questo spettacolo che d’altronde sta spopolando dagli Stati uniti alla Russia, ma dall’altra ci chiediamo quanto esso raffiguri una “situazione psicoanalitica” (Khan). Manca sia l’assetto mentale che quello fattuale. E’ evidente che nel tentativo di “umanizzare” lo psicoterapeuta  il regista ci fa trasparire le sensazioni e le emozioni che in modo presunto egli prova e che sono strettamente legate alle vicende rappresentate nella loro concretezza. Ma risulta arduo percepire la presenza di quel ‘secondo sguardo’  dell’analista che costantemente tenta di cogliere i diversi piani di una realtà complessa. Gli accadimenti della realtà sono presentati per quello che sono ed è difficoltoso dare spazio a significati diversi da quelli più immediati, come accade, ad esempio, quando certi vissuti proposti come drammatici dai pazienti, assumono significati e dimensioni diverse agli occhi dell’analista che può guardarli contemporaneamente alla luce di dinamiche profonde del mondo interno. L’importanza che Mari conferisce ai “ FATTI” agli accadimenti, come quando per consolare Lea afferma “non è ancora accaduto niente”,  contraddice completamente l’assunto su cui si basa la nostra stessa disciplina e cioè  la ferencziana convinzione sull’esistenza di una realtà psichica che ha lo stesso statuto di quella reale.           Contribuiscono a ciò “piccoli” mutamenti dell’assetto: iniziare la seduta in anticipo, il regalo della macchinetta del caffè,  pagare i minuti extra, consegnare la lettera di un’altra paziente, ecc., che nel loro insieme creano una situazione che perverte il contesto nella misura in cui è immaginata quasi ‘come’ la situazione terapeutica reale. Ma non è così perché alcune cose che accadono (per esempio i continui tentativi dei pazienti di riconoscere quello che ‘realmente’ pensa il terapeuta, o quello che fa o che giudizio esprime), mentre in una situazione come quella rappresentata risultano del tutto plausibili,  nella reale situazione terapeutica rappresentano a volte delle eccezioni che appaiono solo con certe patologie, ma che non fanno parte quotidiana delle vicende analitiche. Ugualmente, il modo come sono presentate alcune situazioni, come abbiamo visto nel transfert erotizzato di una paziente individuale, nel momento in cui non ricevono in tempo una lettura adeguata rendono il terapeuta una persona reale che può diventare ‘realmente’ il rivale del carabiniere nella conquista della donna.  Le vicende raccontate nelle sedute (se fosse una reale situazione analitica) dovrebbero farci intravvedere l’altra faccia del paziente, che noi osserviamo, pensiamo, sogniamo anche quando lui non sogna, quella fisionomia  nascosta  per cui il paziente viene da noi, chiedendo  aiuto ad una persona specifica con una formazione complessa. Perché è questo che dobbiamo dire con chiarezza e di cui il Mari di In Treatment ci espropria: non stiamo facendo una chiacchierata. Quando un analista che ha un solido training alle spalle dice qualcosa al paziente, quanto ha detto, fatto, vissuto, egli o ella  lo  ha pensato, studiato, meditato e sofferto per anni su di sé e con i numerosi pazienti che lo hanno formato.

6 maggio 2013

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