Cultura e Società

Settimana 6 – Michele Bardin

14/05/13

Il punto di vista di Giovanni…(o di Michele?)

Michele Bardin

Premesso che In Treatment mi appare un po’ come la Babele della pseudo-psicologia (e non me la sentirei di usare il termine “psicoanalisi”, nemmeno se accompagnato dal prefisso “pseudo”), tutto ciò che scriverò dovrà essere quindi considerato una sorta di pseudo-“commento”. Nonostante l’inevitabile distorsione della realtà presente nella fiction, che se presa per vera indurrebbe qualsiasi persona di buon senso, e a buon diritto, ad abbandonare l’idea di intraprendere un percorso di cura psicoterapico, approfitterò di alcuni spunti per formulare delle osservazioni.

Giovanni non solo “uccide” Dario, ma, così come accade ad ogni psicoanalista che abbandoni il proprio ruolo, uccide tutti i pazienti nei confronti dei quali ha smesso di essere analista. Il paziente non intraprende una cura per ottenere un amico, un amante o un marito, ma per trovare qualcuno che lo possa aiutare a sviluppare quel potenziale non conosciuto che gli permetterà di vivere pienamente e in sintonia con la propria natura emotiva e affettiva più intima e vera. Il terapeuta non dovrebbe mai dimenticare che nel paziente, per quanto violento, seduttivo, capriccioso, intelligente, affascinante, provocatorio, antipatico o simpatico possa essere, c’è sempre un aspetto fragile e bisognoso che lo rende simile a un bambino che si affida ai propri genitori. È questo aspetto mai nato e mai cresciuto che il terapeuta deve fare emergere, affinché diventi parte del paziente insieme al suo lato maturo, stabile ed indipendente.

Giovanni “uccide” Dario quando agisce con violenza nei suoi confronti senza capire che il sadismo di quest’ultimo non è diretto verso la Sara concreta, ma verso ciò che essa rappresenta per lui, ovvero la sua parte debole, femminile e vulnerabile che non accetta. Giovanni “uccide” Sara quando agisce la seduzione che lei mette avanti come difesa dai suoi bisogni più primitivi di tenerezza e affetto disinteressati probabilmente mai sperimentati. Giovanni “uccide” Alice quando violentemente distrugge il suo mondo, senza attendere che l’illusorietà di un padre ideale possa sciogliersi grazie al calore umano del rapporto con lui, che le permetterebbe di sperimentare concretamente che cosa significhi realmente prendersi cura ed essere amati. Giovanni “uccide” la coppia quando suggerisce l’aborto, impedendo che possa nascere qualcosa di tenero ad unirli. Anna a sua volta “uccide” Giovanni quando in questa puntata non coglie il suo smarrimento, la morte del suo coraggio simboleggiata dalla morte di Dario, l’abbandono della sua parte femminile simboleggiata dalla moglie che non si presenta più in seduta, la morte del suo bisogno di amore simboleggiata dal ricordo dell’amico scomparso; ma si limita a difendersi dai suoi attacchi così come farebbe qualsiasi persona irrisolta e insicura.

La crisi nei confronti della teoria, se è nei confronti della sua teoria, è ben giustificata. Niente è più lontano dall’esperienza della psicoanalisi quanto le situazioni che vengono rappresentate, dove si oscilla fra l’affettazione di sentimenti stereotipati e la violenza dell’oracolo che snocciola verità. Capire sembra essere la parola d’ordine che ingenuamente si pensa sia lo scopo di una terapia. Giovanni si pone una domanda interessante dicendo: e poi? Cosa ce ne facciamo del fatto che il paziente ha capito? Qui la fiction riprende un ingenuo, seppur giustificabile, luogo comune circa la cura psicoterapica intesa come dispensatrice di verità e l’altrettanto ingenua idea che una comprensione cognitiva (attraverso la ragione) possa essere di qualche utilità. Ogni analista sa che la ragione non può niente contro le forze dell’inconscio che ci governa e che lo scopo della terapia non è quello di capire ma di permettere, attraverso una complessa relazione basata sul linguaggio ma che non si limita a esso, che il paziente possa sentire ciò che in principio era tenuto lontano dalla propria coscienza. Divenire consapevoli non é sinonimo di “capire”, ma sta ad indicare la capacità di includere nella propria vita cosciente tutto quel sentire emotivo che, se segregato nella cantina dell’inconscio, impedisce la possibilità di una vita piena ed autentica.

13 maggio 2013

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