Cultura e Società

Settimana 7- Irene Sarno

19/05/13

Tra iperrealismo e surrealismo

 

Il punto di vista di Giovanni

Irene Sarno

La puntata di oggi, l’ultima puntata della serie per inciso, inizia così: Giovanni è nel suo studio, da solo… sembra pensieroso, stanco, forse anche più vecchio… Poi, come colto da un impulso, prende il telefono e chiama Sara… Ci ritornano alla mente le parola di Anna della puntata precedente: “Giovanni, sei da solo… la decisione è tua… cosa vuoi, che ti dica di andare da lei? Vai da lei!”. O qualcosa del genere… e Giovanni ha deciso… va da lei.

Mi trovo un po’ disorientata, inizio a pensare di avere sbagliato giorno e orario… ma no, è proprio venerdì! La confusione di Giovanni è tutta sulle mie spalle! E allora io penso (con un certo sgomento): “bene, e cosa commento allora della puntata di ‘supervisione’? quale supervisione? Quale allievo? Quale maestro? Come si chiama questa puntata? Giovanni? Giovanni e (finalmente?) Sara? Anna e Giovanni?”. Parafrasando Caparezza, mi sembra che il punto sia: “sono fuori dal setting!”. E allora forse quello che posso fare e ripercorrere i miei pensieri mentre vedo questa strana puntata. La scena si è andata via via spostando sempre di più sulla finzione, sulla finzione televisiva intendo. È una settimana che esce dal setting e ci spostiamo dalla realtà interna, oggetto unico della psicoanalisi, alla realtà esterna, dal mondo del pensiero al posto dell’agito, al mondo dell’azione: Giovanni va al funerale di Dario, il padre di Dario va a casa di Giovanni, Giovanni compra dei palloncini ad Alice, il padre di Alice entra fisicamente in seduta, Giovanni lo respinge sulla porta, ecc. E infine: siamo a casa di Sara! e per un attimo è come se fossi in un film d’amore: i due protagonisti finalmente possono amarsi! Sara: “perché sei qui?”. La tensione cresce. Giovanni: “Dobbiamo parlare di quello che è successo”. Sara: “Non sono più una tua paziente”. Io: “infatti…”. Mi sembra che ci sia una certa lucidità in questo punto di vista… Sara incalza: “Quindi perché sei qui?”. Giovanni: “Perché vorrei che tornassi in terapia per capire quello che è successo”. Io: “cosa?!?!?!”. La mia confusione aumenta. Questa proprio non me l’aspettavo… E Giovanni continua: “Lì è iniziato e lì deve rimanere confinato”.  Io: “Troppo tardi Giovanni!”. Sara: “Ho chiuso con la terapia (Io: “Brava Sara! Pensaci tu!”). Sei qui solo per questo?” Giovanni: “No, non voglio perderti, ti amo”. Io: “Ah ecco… tutta un’altra storia, altro che paziente!”. Sembra quasi che l’happy ending sia arrivato… eppure non  c’è sollievo o contentezza. No: siamo fuori dal setting, e i piani si sono troppo confusi. E la confusione è generata anche dal fatto che Giovanni dice ESATTAMENTE quello che avrebbe dovuto dire: quello che inizia nella terapia deve rimanere confinato nella terapia… è solo che lo dice nel contesto sbagliato.

A questo punto Sara va in camera da letto e inizia a spogliarsi. Giovanni la segue, rimane sulla porta. Stacco. Cosa sarà successo?! La tensione cresce ancora.

Scena successiva: Giovanni arriva trafelato alla porta di Anna. Io: “oh, finalmente la supervisione! Tocca a me!” Ma anche qui: siamo fuori dal setting. Giovanni arriva in un giorno e in un orario diversi, Anna non  lo stava aspettando. E Giovanni ci rivela finalmente cosa è successo: un attacco di panico lo ha bloccato!

Anna è meno conflittuale di altre volte, spiega a Giovanni che l’attacco di panico l’ha salvato, è frutto della sua parte “migliore” che l’ha fermato, che non gli ha permesso di andare a fondo in questa storia. Io (nonostante l’interpretazione dell’attacco di panico mi lasci molto perplessa): “evviva,  entriamo nella supervisione!”. O è una terapia…? Mi domando se i confini tra supervisione terapia siano sempre così netti.. Confusione. La verità è che forse ormai è troppo tardi per Anna e Giovanni. È stato già detto tutto in modo chiaro e arguto sulla “stranezza” della coppia Anna-Giovanni in quanto maestro-allievo (8 anni sono troppi? Che tipo di rapporto c’è? Ecc. ecc.), e non voglio ripetermi. A questo punto si esce nuovamente dall’ambito della supervisione, e mi sembra che ci sia uno scambio importante tra Giovanni e Anna: è uno dei rari momenti in cui sembrano capirsi, ma è un rapporto alla pari, tra esseri umani, più che tra professionisti, men che meno supervisore/supervisionato… ci sono le scuse, una sorta di chiarimento tra i due… E nella sua ultima battuta Giovanni dice: “che cosa è rimasto per me ora?”. E Anna: “Dovremo parlarne, Giovanni”.

Io, fossi in Giovanni, le direi: “No Anna… non dovremo parlarne… non sei la mia terapeuta…”. E credo che sia proprio questo il punto, ben chiaro almeno teoricamente anche per Giovanni: anche qui è venuto meno il setting, ovvero il PRESUPPOSTO per parlarne… E anche qui sono venuti meno i limiti. E io credo che questo dovrebbe fare (anche) un buon supervisore: aiutarci a mantenere i limiti con i nostri pazienti, proprio quando siamo dentro la tempesta, perché solo questo può consentirci di provare a continuare a lavorare in modo analitico, aiutarci a promuovere il pensiero al posto dell’agito. E, forse, uno dei modi che i nostri maestri hanno per insegnarcelo, è anche quello di mantenerli con noi.

 

Il punto di vista di Anna

Lucio Sarno

Purtroppo ho potuto seguire solo in modo occasionale  questa edizione di In Treatment; mi era stato chiesto di commentare l’ultima puntata ponendomi nell’ottica del supervisore ed invece proprio la puntata di venerdì per abbondanti due terzi ha riguardato la visita da parte dello psicoterapeuta dell’intimità, non solo domestica della sua paziente. Dall’ultima puntata prenderanno comunque le mosse le mie riflessioni, anche se come analista-supervisore mi sono sentito un po’ spiazzato!

Ero rimasto colpito nella prima puntata di supervisione da un’affermazione  di Anna che di fronte alla comunicazione (confessione?) di Giovanni relativa al transfert erotico di Sara, che già lasciava presagire un suo coinvolgimento emotivo, aveva commentato che tale transfert non poteva essere indipendente dal momento esistenziale (di crisi presumibilmente) che stava vivendo il terapeuta. Avevo trovato tale intuizione interessante, originale e fondamentalmente corretta.

Sono rimasto altrettanto colpito, ma meno convinto inizialmente, dall’affermazione dello stesso supervisore che, a commento della confessione del terapeuta di aver fatto visita alla paziente e di aver dovuto nei fatti rinunciare solo all’ultimo momento ad un rapporto sessuale con lei a causa di un attacco di panico, aveva invece valorizzato l’attacco di panico (nonostante l’autoaccusa impietosa dello stesso terapeuta) come la voce etica interiore che aveva fatto da guida al suo comportamento. E il terapeuta aveva a sua volta commentato: e adesso l’inconscio è la guida morale dei nostri comportamenti!?

In effetti è molto difficile immaginare l’inconscio come guida etico-deontologica dei comportamenti professionalmente “corretti” e l’attacco di panico come suo messaggero!

Ho pensato: incredibile! Adesso anche nel pronunciarsi di un sintomo terapeuta e paziente si pongono in una posizione asimmetrica!

Ho poi cominciato a riflettere su alcune particolarità della vicenda descritta nella puntata e un po’ alla volta è emersa una nuova prospettiva di lettura dell’ultima puntata, e quindi della serie nella sua interezza.

La prima: la paziente Sara sembra far da guida al suo terapeuta nei meandri della sua vita interiore e professionale. Novella Sabina Spielrein protegge il suo analista e lo rassicura nei confronti dei risultati della cura. Dall’altro ne segnala impacci, paure e difese nella contaminazione esistenziale della loro relazione. Insomma lo sceneggiato sembra volerci dire: forse i pazienti (almeno quelli non particolarmente gravi, come lei appare) attraverso il lavoro terapeutico riescono a giovarsi di questo (nonostante i limiti del terapeuta) e a proporsi come  persone capaci di muoversi nella vita meglio e più di quanto non lo siano molti psicoterapeuti che traducono la propria infelicità esistenziale nel “potere” (aiutare) professionale. Forse le relazioni terapeutiche sono meno asimmetriche di quanto difensivamente ritengono gli psicoterapeuti impauriti o difesi.

La seconda: mentre prendevo sonno si è insinuato nella mia mente un pensiero  che come una illuminazione  improvvisa e inaspettata mi ha fatto silenziosamente esclamare: e se fosse tutto un sogno? Se tutto lo sceneggiato in apparenza così segnato da un iperrealismo che ha fatto gridare a qualcuno “ma dove è finito l’inconscio?”,  fosse invece una rappresentazione onirica del mondo interno dello psicoterapeuta  e del supervisore? Improvvisamente tutto mi è apparso naturale. Solo così mi è stato possibile sciogliere la confusione determinata dalla sovrapposizione, confusione, contaminazione, costante dei piani e degli spazi delle relazioni rappresentate. Così e solo così hanno potuto trovare soluzione spontanea e armonica gli errori, talvolta grossolani, i limiti comportamentali e tecnici, i tradimenti della deontologia ed etica professionale …. Ed allora tutto ha ritrovato davvero un suo senso: non i comportamenti reali e concreti dello psicoterapeuta e del supervisore avrebbero trovato espressione nello sceneggiato, ma i loro turbamenti, le fantasie, i desideri,  i sogni, le paure, le angosce, gli incubi popolanti  il loro mondo interno, i vissuti inconsci che agitano la loro  mente e che raramente trovano traduzione nella realtà  nell’ambito della propria vita professionale, se adeguatamente analizzati, formati e supervisionati. Dunque avremmo assistito a una rappresentazione onirica travestita da realtà. Mentre lo sceneggiato prendeva la forma del mondo inconscio, il mio dovere (superegoico?) mi ha ricondotto alla relazione di supervisione,  e  si è aperto uno squarcio interessante relativo ad uno specifico aspetto della relazione di supervisione nella forma rappresentata.  La questione può essere posta così: è possibile confinare la relazione supervisiva esclusivamente all’ interno di un quadro formativo-didattico o è da presumere che una funzione terapeutica, correttiva ed integrativa sia da affidare alla relazione di supervisione? Tale posizione (delicata e complessa) trova la sua ispirazione nel convincimento che qualsiasi relazione terapeutica (compresa l’analisi didattica) sia  ispirata al principio di parzialità e finitezza necessaria di qualsiasi relazione terapeutica; e che dunque lo spazio analitico soffra degli scarti necessari tra l’analizzato e l’inanalizzabile  che interessa (senza scandalo) ogni relazione ed ogni analisi per quanto corretta e profonda .

Infine un altro punto importante tocca la relazione supervisore-supervisionando e la relazione terapeutica nello sceneggiato: la questione del transfert. Se la relazione supervisiva è secondariamente, complementariamente (clandestinamente?) anche una relazione terapeutica complementare e indiretta, in che modo è segnata analiticamente dal transfert? E in che modo può trovare soluzione questa espressione surrettizia del transfert? Ma forse in questo caso può venirci in soccorso il pensiero sovversivo di Freud quale ha trovato espressione nel suo lavoro del 1922 “Osservazioni sulla teoria e pratica dell’interpretazione dei  sogni”  quando di fatto afferma con decisione l’irrisolvibilità del dilemma suggestione-transfert, o meglio universalizzando, prima della Klein, la ineludibilità della presenza del transfert nella vita delle relazioni significative della nostra vita di ogni giorno dalla nascita alla morte. E la domanda che attraverso la pervasività del transfert nello sceneggiato ritorna potrebbe essere cosi tradotta: è davvero il transfert il punto di forza specifico della extraterritorialità della relazione terapeutica? È la dimensione transferale ciò che la rende unica e diversa da ogni altra relazione togliendole però il valore di realtà? Ovvero il transfert amplifica e verifica in una condizione di extraterritorialità quello che di più vero, profondo e autentico, altrimenti  inaccostabile, passa nella relazione reale tra due persone? La relazione di supervisione illustrata evidenzia come il transfert, la relazione di transfert, possa occupare spazi  altri (impropri?) e di come la relazione terapeutica di transfert possa animare passioni vere che possono mettere  in crisi la propria vita reale, se il “sogno” e  il mondo inconscio fanno irruzione nel reale!

19 maggio 2013

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