Cultura e Società

Terre battue (Terra battuta)

1/09/14

Regia di Stéphane Demounstier, Francia – Giornate degli Autori

Commento di Rossella Valdrè

Dalle giornate degli Autori, mi sto convincendo vengano i film migliori, di cui purtroppo non vedo eco nella grande stampa. E’ dunque un ulteriore piacere, per me, sottolinearli al nostro pubblico.

Mi riferisco all’altra sorprendente scoperta di oggi, il francese Terre battue (titolo poco comprensibile rispetto alle tematiche del film), interpretato dall’ottimo Olivier Gourmet; bravi come sempre, i francesi, nel reperire le facce mediocri, l’anti-divo, quelle che vediamo tutti i giorni, dell’uomo qualunque, persino un po’ meno che qualunque. Jérome, infatti, il protagonista, è uno sconfitto, un travolto dalla vita e dalle sue stesse ottusità, dalle sue miopie (non a caso, la scelta di un volto segnato da un leggero strabismo…dove va lo sguardo? Cosa vede?).

Vicenda contemporanea, tutta dei nostri tempi. Jérome, dopo una vita dedicata a dirigere un grande magazzino che rappresenta non solo una professione per lui, ma la sua stessa identità, viene licenziato per ‘problemi di fatturato’: non si vende più, nella famosa drammatica mezza età, un cinquantenne europeo che non parla inglese, dedicato fino ad allora unicamente al suo magazzino, deve ‘gentilmente’ ripartire da zero. Ossessionato dal sogno di mettersi in proprio, dopo una vita passata a dipendere, cerca uno spazio e finanziatori per realizzare il progetto di aprire un nuovo magazzino di scarpe, progetto in cui crede moltissimo, della cui idea è sulle prime entusiasta. Trova, infatti, all’inizio, nella vecchia ditta il finanziatore, e affida alla moglie architetto (una defilata, sottotono, ma delicatamente tratteggiata Valeria Bruni Tedeschi), l’arredamento d’interni. Jérome ha grandi idee, entusiasmo, non può stare senza lavorare, né sentirsi più umiliato chiedendo ad altri (che, non sappiamo, forse lo avrebbero assunto). In questi dieci minuti iniziali, perfetti, si intuisce, si intravvede già tutto il prosieguo drammatico del film: chiuso autisticamente in quest’ossessione, Jérome non vede altro, non si accorge di cosa si muove dentro le due persone che pure ama di più, tutto il suo mondo emotivo, la moglie e il figlio undicenne Ugo, perno centrale della vicenda. Siamo di nuovo in una storia tra padri e figli, del tutto contemporanea abbiamo detto, dove è imponente il bisogno che il bambino, il pre-adolescente maschio ha di identificarsi col padre, di sentirsi guidato, sorretto da lui. Ma nella scena d’apertura Jérome vaga come un ossesso tra negozi, in luoghi anonimi dove cerca spazi per il suo futuro sogno e, nonostante il bambino insista, lo porta al tennis con mezz’ora di ritardo. La moglie è da subito turbata, sulle prime non capiamo perché, di fronte a tanto entusiasmo, poi scoppia in un pianto dirotto, ma anche qui Jérome la bacia e la abbraccia, “lo faccio per te”, le dice, regalandole scarpe su scarpe, inutili feticci al posto della comprensione, che malinconicamente lei aggiunge alla scarpiera.

Il negozio apre, lui è raggiante, ma dopo qualche giorno il sogno finisce; gli investitori hanno cambiato idea, la zona non va bene, niente, non si fa. Jérome è un disoccupato, deciso a non chiedere aiuto, ostinato in un sogno irrealistico, il sogno di un altrove, di un successo che va ben al di là di quello economico: una sorta di risarcimento per il sé, per un sé evidentemente irrealizzato, ferito in tanti anni di compromessi. Fin qui, Jérome.

Abbiamo parlato di Ugo, il figlio. Quella partita d’inizio alla quale arriva in ritardo, per cui non lo fanno entrare, per lui era importantissima; Ugo è una promessa del tennis, i suoi insegnanti lo spronano, gli prospettano, se vincerà le prossime partite, la scuola sportiva a Parigi, credono in lui. Quel primo mancato accesso è da ricordare. La sensibile insegnante sembra intuire le difficoltà del padre e si offre di accompagnarlo; ma Jérome, cocciuto come sempre, rifiuta. Come se non vedesse, nel lavoro così come nelle difficoltà col figlio, i suoi limiti, i punti ai quali non arriva; un orgoglio comprensibile, ma malato, contribuisce alla sua miopia. Intanto comprendiamo l’angoscia della moglie: lo lascia. Il brevissimo dialogo prima che lei se ne vada, con essenziale acume, rivela tutto: alla domanda di rito di lui, sconvolto, se “c’è un altro – non mi ami più?”, lei risponde:

–       ti amo e non ti amo più -.

Si può amare qualcuno, volergli un bene profondo per il mondo fino ad allora condiviso, e allo stesso tempo non amarlo più, non amare più quello che è diventato: ossessionato dai negozi, dalle aree edificabili tanto che non vede altro, lo strabismo emotivo che ora deforma la sua visione della vita, no, lei non la ama più. Si intuisce che da tempo cresceva in lei l’estraneità, ma Jérome non vedeva, cieco emotivo, le regalava scarpe. Improvvisamente, tutti i riferimenti che questo pover’uomo ha al mondo, lo abbandonano.

             “Ya no es màgico el mundo. Te han dejado –

                   Non ha più incanto il mondo. Ti hanno lasciato”.

 

                                                                               (J. L. Borges)

 

Il lavoro, luogo identitario per eccellenza, è perduto; la moglie amata, di un amore infantile, che non capisce, non si pone domande; sceglie di salvare se stessa, e se ne va. Ma da questa prima scena iniziale del ritardo al tennis, posso confidare la sensazione personale di un brividino (noto, notissimo brividino) su per la schiena: sarà Ugo a pagare il prezzo più alto. La sua vita.

Come ha scritto la Jalinek riferendosi al legame madre-bambina, se lo trasferiamo qui al rapporto padre-figlio, parafrasiamo:

“Cosa chiede il padre al bambino? Ben poca cosa: la sua vita”.

Ugo viene a trovarsi in una delle situazioni più difficili per un bambino, non infrequente oggi: dover salvare il genitore. Identificato con un padre sconfitto, la sua tenacia, il suo talento al tennis cominciano a venire meno. Costretto ad assistere alla rabbia del padre che ne parla con l’amico (rabbia infantile evacuata nello sporcare muri), Ugo non è protetto da nessun dolore, da nessun aspetto che riguardi il padre, che lo rende impotente testimone di tutto: lo vede imbottirsi di sonniferi, sente mettere in crisi le sue scelte, sa che andando a studiare fuori lascerebbe il padre solo, un uomo isolato nelle sue ossessioni, senza altre risorse se non il piccolo universo al quale si era aggrappato senza comprenderlo. Ugo non è protetto, né dal mantenere i suoi impegni, né gli è esclusa la vista del decadimento del padre, ci cui diventa l’aiuto, lo spettatore, la stampella. La fine dell’infanzia, i progetti, il suo passaggio evolutivo, sembrano sfiorire, rubati, spazzati via per sempre in quei momenti. Il conflitto nel bambino è insanabile (ne esiste uno peggiore, per un bambino?): come rinunciare al tennis, dove sta inevitabilmente peggiorando, e insieme non lasciare il padre? Sogna di portarlo con sé come allenatore, poi, durante una partita decisiva col ragazzino avversario dove sta perdendo, decide di mettere un po’ di quei sonniferi che si è abituato a vedere sul comodino del padre nella bottiglia del rivale, così da infiacchirlo. Un gesto disperato. Intuibili le conseguenze: l’altro si sente male, facilmente Ugo viene individuato come responsabile: il padre se ne addossa la colpa, ma il bambino lo scagiona. Fine annunciata del film, fine annunciata di una vita potenziale: Ugo sarà destinato agli psicologi, il tennis ridotto a un hobby. Un futuro come quello del padre lo attende: un sé frustrato, che ha visto bruciate in partenza le possibilità, (non sappiamo, né, a questo punto, ci importa, che deriva ne seguirà): sono tanti, infiniti i modi possibili, che la psicoanalisi chiama meccanismi di difesa, con cui un essere umano sopravvive a mutilazioni del sé, a traumi, ad abusi, a perdite.

Se non possiamo seguire Ugo nel suo triste destino di bambino designato, uno dei tanti bambini che, ribaltando i ruoli, devono occuparsi dei genitori e delle loro ferite, possiamo tornare a quei momenti, intensi e asciutti nel film, nei nodi psicologici che tanto sapientemente il regista (non a caso, con l’avvallo dei noti fratelli Dardenne) tratteggia così bene.

La scena d’apertura, l’isolamento autistico dell’adulto quando è catturato da qualcosa che non gli fa vedere altro; un bambino che perde una gara, la cosa più importante per lui e il suo futuro; una moglie che forse ha tentato (il suo ritratto è debolmente accennato), ma decide di salvare la sua vita rispetto a quella, che sente insalvabile, del marito. I tentativi della madre di portare Ugo in vacanza, di sottrarlo per un po’ a quella trappola, sono deboli, cadono nel vuoto; non si incolpi questa madre, ha di fronte un bambino tenacemente identificato al padre, col suo dolore. Ugo diventa il padre. Jérome, dal canto suo, vive, a mio avviso, un attimo di potenziale riscatto quando, ormai inutilmente, si addossa di fronte al poliziotto la colpa per l’intossicazione dell’altro bambino. Lui è, in effetti, colpevole. Non del gesto in sé, naturalmente, ma dello strabismo emotivo che gli ha fatto mettere Ugo in quell’insostenibile situazione, la più insostenibile per un bambino: tradire il genitore, o tradire se stesso. L’ingenuo éscamotage col quale tenta di uscirne, non fa, ovviamente, che aggravare le cose. Se un adolescente avrebbe ipoteticamente potuto ribellarsi, un adulto andarsene, come la moglie, un bambino no. Tantomeno, come scrisse ormai molti anni fa la Miller (1996) un bambino dotato: questi è condannato all’empatia, a percepire, sentire come il genitore sta anche quando non parla, è condannato a mettersi nei suoi panni e, se appunto emotivamente dotato (e Ugo lo è, anche su questo profilo), dovrà prendersi cura del genitore.

Ecco quel mio brividino dietro la schiena. Gli esiti, i più variati abbiamo detto, hanno negli anni popolato la mia, e credo le nostre, stanza d’analisi: bambini adultizzati, infanzie rubate, bambini che si sono presi cura, che hanno fatto da stampella, da bastone, al posto di. Di cosa? Sarebbe semplicistico appiattire questo dramma sulle separazioni coniugali; non tutti i figli di separati hanno questo destino, non è al posto dell’altro coniuge che il bambino veste un ruolo supplettivo non suo, il panorama di queste situazioni che non esito a definire abusi (nel senso proprio del termine: qualcosa che va oltre quanto il bambino può sopportare) è uno spettro molto più ampio. Bambini “care-givers”, infanzie rubate, precoci e distorte adultizzazioni, progetti per il sé amputati; un altro linguaggio li chiamerebbe ‘capri espiatori’, ma non cambia la sostanza: qualcuno, il più debole, paga il prezzo della mancata elaborazione, del mancato lutto dell’altro, di un padre che non accetta di adattarsi ad una situazione mutata. Abuso che prescinde, come sempre, da troppi dati di realtà. E’ il genitore debole, vinto, depresso, che porti in sé una qualche fragilità irrisolta e che fa del bambino il salvatore, del tutto inconsciamente (e qui, a tratti anche consapevolmente), il fardello che il bambino dotato si addossa sulle spalle. A spese della sua vita, come scrive la Jalinek: ben poca cosa. Il brividino, mi tocca dirlo perché in queste cosiddette ‘recensioni’ ci siamo anche noi, attraverso il cinema, ha toccato anche mie corde personali: non a caso la Miller riscontrò che la maggior parte di questi bambini finiva per fare professioni d’aiuto, compreso lo psicoanalista.

All’altro polo del bambino ‘tiranno’, il nostro tempo vede il dramma dei bambini “care-giver”; a differenza dei primi, rumorosi e creatori di problemi che urlano al mondo, i nostri Ugo sono silenziosi, il loro dolore non solo non si nota, non si sente, è persino valorizzato dall’ambiente (che bravo bambino come si adatta, come capisce).

Un ulteriore registro, abbiamo detto, lo sfondo implacabile della contemporaneità. Perdita del lavoro anche a livelli dirigenziali a cinquant’anni, esistenze che improvvisamente perdono il loro baricentro, separazioni in cui è più spesso la donna a decidere, la donna a non tornare indietro, ad affrontare consapevolezza e il dolore dell’ambivalenza (ti amo e non ti amo più), uomini deboli, dipendenti dalla donna come una madre, padri che non proteggono i bambini dall’assistere a tutto, mettendoli nell’innaturale situazione di parità che è di quanto di peggio possa danneggiare i bambini.

Lasciamo il film col volto di Ugo, il suo faccino che ha perso il futuro.

Benché escudo che questo film farà parlare di sé al Festival (troppo autenticamente doloroso, troppo vero, troppo senza speranza), fa parte di quelle perle, al pari di Melbourne, che non si dimenticano. E, per noi, piccoli compendi di psicoanalisi racchiusi in qualche frase, in qualche sguardo, in fuggevoli inquadrature…

Gli occhioni di Ugo. Il pianto improvviso della moglie. La scarpiera. L’occhio strabico di Jérome…..

“Ero un bambino…uno di quei mostri che gli adulti fabbricano con i loro rimpianti…”.

                                                                                   (J.P. Sartre)

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