Cultura e Società

The land of Mine. Sotto la sabbia (Under sandet)

29/03/16

Autore: Elisabetta Marchiori

Titolo: The land of Mine. Sotto la sabbia (Under sandet)

Dati sul film: Regia di Martin Zandvliet, Danimarca, Germania, 2015, 101’

Trailer:

Genere: drammatico

Trama

È finita la Seconda Guerra Mondiale, siamo nel maggio 1945 e la Danimarca, su indicazione e con l’appoggio della Gran Bretagna, risponde ai crimini di guerra perpetrati dai nazisti con un altro crimine di guerra, “insabbiato” come molti altri, in aperta violazione della Convenzione di Ginevra del ’29, che proibiva i lavori forzati per i prigionieri. I danesi provano un odio feroce per i nazisti, e lo mettono in atto costringendo più di duemila soldati tedeschi a sminare la costa occidentale danese dalle quarantacinquemila mine antiuomo piazzate “sotto la sabbia” dall’occupante. Tale concentrazione, pari a quella dell’intera Europa, era dovuta all’ipotesi che lo sbarco alleato, quello che sarebbe avvenuto in Normandia nel giugno 1944, sarebbe potuto avvenire lungo quel litorale.

Trattati alla stregua degli ebrei nei campi di sterminio, terrorizzati, affamati, picchiati e mandati a saltare in aria per essere gravemente mutilati o morire furono ragazzini adolescenti, improvvisati artificieri senza esperienza, chiamati alle armi come ultima risorsa del Furer. Ne sopravvivranno meno della metà, un numero certamente esiguo rispetto alle vittime del genocidio, mai citato esplicitamente ma sempre presente nello svolgersi del film.

È questo capitolo di Storia esso stesso “insabbiato” e censurato dai libri che viene coraggiosamente raccontato in questo film, eccezionale co-produzione danese e tedesca, dal quarantenne regista danese Martin Zandvliet, attraverso una storia vera che ha come protagonisti il sergente danese Carl Rasmussen (ruolo affidato al convincente Roland Møller) e la sua squadra di quattordici ragazzini tedeschi, tutti perfettamente a loro agio nella loro parte, che recitano con profonda intensità, senza sbavature.

Andare o non andare a vedere il film?

Apprezzato a Toronto e al Festival di Roma, è un film che, di un episodio fra i tanti tragici avvenuti nell’ultima guerra mondiale, fa testimonianza universale delle conseguenze delle guerre che affliggono la nostra terra. In diverse interviste Roland Møller (www.gqitalia.it, www.vanityfair.it) ha dichiarato che il film è estremamente attuale: “Se si applica la legge dell’occhio per occhio, dente per dente si finirà tutti ciechi e senza denti. Se invece ci mettiamo seduti di fronte al nemico e lo guardiamo negli occhi, scopriamo che ha i nostri stessi sogni, aspirazioni, umanità”. Il sergente Rasmussen mette in scena il profondo conflitto tra il bene e il male che attanaglia ogni uomo e con cui ciascuno deve fare i conti, assumendosi la responsabilità delle proprie scelte. Imparerà il nome di ognuno dei suoi ragazzi, profondamente diversi tra loro, e li riuscirà a guardare e vedere come le persone che sono, ancora capaci di illusione, “ragazzini che chiamano la mamma quando sono spaventati o quando saltano in aria”, su cui ricadono ingiustamente le colpe di un’intera nazione. La regia è essenziale, incalzante, pulita e profonda al contempo, primi piani strettissimi sui visi dalle espressioni intense e campi lunghi. Magnifica la fotografia, che risalta i colori di un paesaggio fatto di sabbia, cielo e dune, che rimandano all’infinito quando, quel lembo di spiaggia dove i ragazzi, strisciando, cercano le mine e la loro baracca fanno provare, paradossalmente, un senso di claustrofobia, legato al loro essere prigionieri e costretti ai lavori forzati. Silenzi intensi sono rotti da esplosioni o musiche che amplificano il senso di tensione e ineluttabilità della precarietà della vita.

La versione di uno psicoanalista

Quello che sto provando io – pensavo tra lo scoppio di una mina e l’altro – non è paragonabile al terrore che dovevano provare quei ragazzini che trovavano e disattivavano gli ordigni, se tutto andava bene. Ed è già quasi insopportabile – sentivo le botte, la fame, la febbre, il tremore delle mani nel disinnescare gli ordigni – prende la pancia, fa coprire gli occhi e desiderare di non sapere anche questo. Straziante è l’aggettivo giusto. Poi i momenti in cui tra il sergente e i ragazzi si creano momenti in cui prevale l’umanità sulla vendetta, l’aggettivo giusto è commovente.

Ne esplodono di mine, ne muoiono di ragazzi, il pensiero associa le vittime di Parigi, Bruxelles, Le Torri Gemelle. Il ricordo della Shoa preme senza sosta.

Il film, ha detto ancora Roland Møller (www.gqitalia.it, www.vanityfair.it) dimostra che abbiamo così paura di ciò che non conosciamo che, pensando di combattere per una giusta causa, finiamo col trasformarci noi stessi nel mostro che ci prefiggiamo di sconfiggere.

Il titolo inglese Land of Mine, accostato all’originale Under sandet, appare particolarmente significativo: un gioco di parole che indica sia “la terra delle mine” che “la mia terra, il mio Paese”. La terra su cui appoggiamo i piedi ogni giorno è minata, bombe e kamikaze possono esplodere ovunque e in qualsiasi momento, sotterrate o lanciate sempre per gli stessi motivi: guerra, odio fra popoli e religioni, conflitti politici ed economici.

Stasera un servizio di un telegiornale spiegava che la ricostruzione del tempio di Baalshamir, in Siria, distrutto dai miliziani dell’Isis, sarà possibile solo se preceduto dallo sminamento del territorio.

“In fin dei conti, è davvero solo un film sugli esseri umani”, scrive il regista nelle sue note di regia. E la fine del film è aperta, invitando ogni spettatore ad assumersi la propria responsabilità.

28 marzo 2016

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