Cultura e Società

The Leftovers. Svaniti nel nulla, Prima e Seconda Stagione. Recensione di di Angelo Moroni

5/04/17

Creata da Damon Lindelof, USA 2014-2017

Genere: fantascienza/drammatico

Trailer:

HBO – Sky Atlantic

di Angelo Moroni

Alcune tra le più recenti serie televisive hanno come baricentro drammaturgico il tema della perdita. “The Leftovers” di Damon Lindelof (già Autore, insieme a J.J. Abrams e J. Lieber, della fortunata serie “Lost”, 2004-2010) ne è certamente l’esempio più emblematico. Sul piano della scrittura filmica tale scelta tematica ha l’intento di rispecchiare lo Spirito del Tempo in cui viviamo, tempo attraversato da un diffuso senso di precarietà, di perdita, di “lutto sociale”, di instabilitá del senso della speranza, vissuti che non sono mai stati così intensi, e che l’umanità, almeno in area europea, ha provato forse solo durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Questo è stato sottolineato in modo molto efficace anche da Christopher Bollas al 49° Congresso IPA tenutosi a Boston nel 2015, nella sua relazione dal titolo significativo: “La psicoanalisi nell’epoca dello smarrimento: sul ritorno dell’oppresso”. Crisi economica, sfiducia totale nei confronti della politica intesa come contenitore ideologico e guida etica, senso di lutto generalizzato e di fragilità – soprattutto nelle nuove generazioni che non vedono orizzonti progettuali realizzabili – sono tutti ingredienti che vanno a formare una sorta di background affettivo collettivo per la creazione di alcune tra le più significative serie che vediamo oggi in TV.

Il progetto di Damon Lindelof, tratto dal romanzo di Tom Perrotta, trova nelle prime due Stagioni equilibrio e identità, costruendo uno dei più innovativi plot di questo genere filmico. Vediamo così gli abitanti di Mapleton, una piccola cittadina degli Stati Uniti, alle prese con l’elaborazione, più che di un lutto, di un trauma impossibile da comprendere: la scomparsa inspiegabile del due per cento della popolazione mondiale. L’evento scatena reazioni individuali e gruppali assolutamente diverse e imprevedibili nei “leftovers”, letteralmente “gli avanzi, quelli lasciati indietro”.

Nella sonnolenta cittadina della provincia americana, ogni famiglia ha perduto, “svanita nel nulla”, più di una persona cara, e un senso inesprimibile di abbandono pervade ogni casa, a partire da quel fatidico quattordici ottobre 2014. Lo sguardo della famiglia Garvey ci guida, tre anni dopo l’evento, lungo le varie manifestazioni di questa misteriosa e impensabile tragedia che ha investito l’intera umanità, aprendo strade complesse della vicenda raccontata. L’enigma s’infittisce dopo il primo, toccante episodio, attraverso una partenza lenta, difficile anche a livello identificativo da parte dello spettatore, per poi costruire una coralità di voci molto intensa, emotivamente molto coinvolgente. La storia prende una decisiva accelerazione con “Two Boats and an Helicopter”, il terzo episodio della Prima Stagione, interamente dedicato alla figura del reverendo Jamison (Christopher Eccleston): una parentesi molto poetica che descrive la tragedia di un uomo solo all’interno di quella più universale che ci viene raccontata.

“The Leftovers”, pone dunque il vissuto depressivo come principale protagonista di un plot che ci introduce immediatamente in una dimensione melanconica. Una melanconia descritta in chiave iperbolica potremmo dire, in chiave di trauma collettivo, dove la perdita dell’oggetto diventa il motore di tutto, mentre la causa della perdita non viene quasi neppure indagata. Sul piano tecnico molte sono le sequenze che sottolineano pesantemente un fenomeno di natura francamente luttuosa, a partire dalla suggestiva, bellissima “intro scene” del primo episodio, con quel carrello della spesa che improvvisamente si sposta da solo poiché chi lo stava spingendo svanisce, mentre la voce di un bambino chiama smarrita: “Dov’è mio papà?”, sequenza contrappuntata da un commento sonoro struggente di Max Richter. Quale perdita più tragica di quella di un padre per un bambino? È il capovolgimento narrativo della vicenda di “Bambini nel tempo”, il noto romanzo di Ian McEwan: là dove era un padre a perdere una figlia al supermercato per sua individuale responsabilità, qui Lindelof ci pone invece di fronte ad una sorta di Giudizio Universale al contrario, che avviene nell’hic et nunc della quotidianità di ognuno e non alla fine dei giorni, lasciando tutti i sopravvissuti senza nessuna risposta o speranza di redenzione. Lindelof ci racconta così di un’umanità oppressa da un lutto inelaborabile, come alle prese con una “depressione primaria” con cui non ha mai voluto confrontarsi, un’umanità il cui “essere-nel-mondo” heideggerianamente inteso sembra farsi potentemente, apocalitticamente presente, dopo essere stato per lungo tempo messo tra parentesi.

Marzo 2017

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