Cultura e Società

“The Square” di Ruben Östlund. Recensione di Amedeo Falci

30/11/17

Autore: Amedeo Falci

Titolo: The Square

Dati sul film: regia di Ruben Östlund, Svezia, Danimarca, USA, Francia, 142’

Genere: drammatico

“The NON-Square”

Un’importante galleria d’arte moderna di Stoccolma sta per esporre un’installazione di una artista sudamericana: un perimetro quadrato luminoso, “The square” appunto, di due metri per due, tracciato nel selciato antistante il museo stesso – definito un “santuario di fiducia e altruismo”, un ritaglio di solidarietà e generosità controtendenziale rispetto ad un mondo che va in tutt’altra direzione.

Una serie di apparentemente incoerenti accadimenti contornano l’evento, ma hanno in realtà un filo conduttore, impersonato da Christian, il curatore del museo. Uomo elegante, colto, liberal-progressista, esperto d’arte, ovviamente, ma anche disinvolto competente di strategie di raccolta fondi e marketing artistico. Costui subisce un ardito furto per strada, che lo spinge a procurarsi una rivincita contro il mondo del “popolo basso” (i poveri, i disagiati). Come rappresentante del “popolo alto” (i benestanti, gli intellettuali), si spinge furtivamente, con la sua auto di lusso, fin nel quartiere popolare dei (presunti) ladri. Infila nella buca della lettere di ogni appartamento dello stabile in cui è stato localizzato il suo telefono un biglietto, che ingiunge al ladro di restituire il maltolto. Uno sconosciuto lo farà, ma un ragazzino pretende invece le scuse per essere stato ingiustamente accusato di essere un ladro.

Nel frattempo, due ingegnosi promotori di immagine escogitano, per la pubblicizzazione dell’esposizione di “the square”, una campagna mediatica provocatoria e atroce. Una veloce avventura sessuale tra Christian e una giornalista si rivela non essere quella facile one-night stand che lui pensava. Compaiono le silenziose figlie di lui, un po’ litigiose, ma anche un po’ sagge. Avviene una traumatizzante performance di un “uomo scimpanzé” durante una raffinata cena al Museo, dove hanno luogo vari rituali sociali del colto e raffinato pubblico. Ma … i poveri, gli immigrati, i mendicanti, quelli si ritrovano sempre per strada e chiedono il conto dell’ingiustizia che subiscono e della dignità lesa.

 

Davvero “Ars gratia artis”? L’arte fatta solo di arte? Vale a dire, arte bastevole a se stessa, che si rappresenta in sé e per sé, e che non richiede null’altro per definirsi? Oppure l’arte è anche mercato, investimenti di denaro, allestimenti di musei? Il che si traduce nella loro abile gestione economica, nella loro necessità di non essere tagliati fuori dai grandi flussi di visitatori, nel ricorso a campagne promozionali di un certo impatto mediatico.

Oppure, l’arte è mera convenzionalità anche quando pretende di presentarsi eversiva? Oppure ancora, non è l’opera d’arte come tale creata che qualifica il museo – bensì è l’istituzione museale che qualifica essa stessa ed eleva qualsiasi oggetto ad opera d’arte? Folgorante lo scambio di battute in inizio del film, quando il curatore chiede all’intervistatrice, se per esempio non ritenga che la sua borsa messa in un angolo qualsiasi del museo, assuma essa stessa le qualità di un’opera d’arte. E quella, a nome di tutti noi, pubblico museale, gli risponde che sì, che sarebbe esattamente così.

 

Il film di Östlund, autore dell’apprezzato “Forza Maggiore” (recensito in questo sito), mescola qui almeno tre temi. Un discorso sul senso e sul ruolo dell’arte nella cultura e nella società contemporanea, la produzione artistica inglobata e fagocitata nel più ampio sistema della comunicazione mediatica, la marginalità dell’arte rispetto alla promozione di una vera dimensione etica di rispetto e di solidarietà sociale.

Il tutto è sospeso in una raffinata (auto) ironia scandinava, che crea un surreale distacco rispetto agli aspetti realistici della storia e dei suoi protagonisti, e rende tutti gli avvenimenti lievemente fuori asse rispetto a come ci si aspetta accadrebbero in una realtà ordinaria. L’intervista della giornalista a Christian si conclude troppo rapidamente. Nella piazza affollata sembra stia per avvitarsi un climax tragico, ma poi si scopre che si è trattato solo di un furto. In una riunione dei responsabili del museo, un dirigente culla un neonato. Nell’incursione nel palazzo popolare, sembrano aggirarsi figure minacciose e violente, ma nulla di sinistro accade, e l’auto si danneggia goffamente da sola contro un pilone stradale. La giornalista abita in un appartamento da single, e sembra convivere, bizzarramente, con una scimmia. Il garbato e sofisticato clima dell’incontro con l’autore letterario viene turbato dai tic vocali e verbali di un soggetto affetto da sindrome di Gilles de La Tourette. La conversazione tra Christian e la giornalista, dove lei gli chiede conto e ragione morali della notte insieme, è resa impossibile e ridicola dai nocivi rumori degli allestimenti all’interno del museo. Gli ignoti ladri restituiscono molto facilmente la refurtiva. Un’installazione fatta di mucchietti di terra viene danneggiata dagli operai, e Christian suggerisce pratiche riparative anti-professionali che rendono l’opera d’arte un surrogato fittizio. Un video diffuso per problematizzare e pubblicizzare “The Square” come ‘santuario di fiducia e altruismo’ non è alla fine meno efferato dei terrificanti video di morte dagli scenari di guerra. Una performance sulla vita selvaggia della giungla, con l’irruzione di un performer che riproduce i comportamenti di uno scimpanzé, degenera, diviene inarrestabile e l’‘animale’ non risponde più agli ordini. Il garbato curatore che ama l’arte, padre squisito, tenta di dialogare con il ragazzo che reclama dignità e riparazione, ma infine quasi lo uccide.

Una fredda distaccata ironia che, per alcuni versi, sembra ricordare quella ben più potentemente algida e spiazzante di “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza” (2014) di Roy Andersson, o il comico distacco dagli eventi di “Kitchen Stories” (2003) di Bent Hamer (dove uno sperimentatore si installava in un alto seggiolone nella cucina di uno scapolo per ottimizzare la progettazione e l’utilizzo delle cucine per uomini single) pervade il film. Umorismo scandinavo? Diverso dal nostro?

Un film forse più che ironico, sarcastico sulla problematica purezza disinteressata dell’arte, e sulla tirannia su di essa esercitata dalla logica mediatica. Un attacco al ‘politicamente’ e all’‘esteticamente corretto’ sferrato da una critica tutta da sinistra. E i mendicanti stanno ad attendere per le strade di Stoccolma …

Contrappunti, appena accennati, al pubblico benestante intelligente ed esteticamente sensibile dei musei d’arte moderna, sono evidenti almeno in due scene. Uno chef che urla loro di attendere prima di precipitarsi a mangiare (la stessa l’ingorda oralità della borghesia buñuelana de “Il fascino discreto della borghesia”?. Poi la performance dell’uomo-scimpanzé: un’interessante sequenza di ‘degenerazione’ antropologica e culturale, in cui, da una prima fase in cui la ‘borghesia’ colta assiste compiacente alla performance artistica, si passa poi ad un pubblico inchiodato e congelato da comportamenti inaspettati e sempre più aggressivi, ritenuti ancora performances creative, per giungere infine alla trasformazione dell’élite intellettuale nell’orda feroce (la vera performance sul primitivismo!), che abbatte le convenzioni e si slancia a fermare la ‘bestia’-performer ormai fuori da ogni controllo (e da ogni possibilità di misericordia artistica). Una regressione sociale e psicologica che cita la regressione animalesca della borghesia autoimprigionatasi nelle proprie ritualità estinte del “L’angelo sterminatore” (1962),  altro classico ed icastico film buñuelano  sui segni apocalittici  che annunciano la fine della borghesia.

Ecco quindi, in contrapposizione  al mondo convenzionale della cultura e dell’arte (e dei musei), gli sparsi elementi di uno ‘stato di natura’ non regolabile, di una ‘selvaggità’ non addomesticabile alla convenzionalità  – la potenziale violenza in una piazza, la scimmia nell’appartamento, la sessualità erompente, pericolosa per esiti procreativi non in conto (vedere l’esilarante ma pur sempre scandinava scena del profilattico conteso) insopprimibili eiezioni vocali del ticcoso, la devastazione dell’uomo-scimpanzé che esce dalla performance e ritorna nel pre-umano, il gesto quasi omicida di Christian verso il ragazzo, il suo rovistare nella spazzatura, come un barbone.

E come non cogliere la sottile gag sarcastica sul ‘politicamente emancipato’ della libertà sessuale, nell’episodio della giornalista che dopo avere spontaneamente condiviso un incontro molto ravvicinato con il curatore, l’indomani gli presenta il conto morale, chiedendogli, in pratica, se non abbia voluto trattarla come una troppo facile?

Insomma, un film che parte dalla denuncia dell’uso politico dell’arte contemporanea, e che si tramuta in un film etico sui valori della società occidentale. Un film dall’intreccio programmaticamente decentrato, in cui, appunto, la slegatura è il pregio, ma anche in un certo senso il limite, poiché non tutti i fili arrivano ad una legatura narrativa conclusiva.

Tuttavia l’opera assume una leggibilità molto più chiara se, al di là degli attori principali, ribaltiamo i ruoli e, andando leggere la realtà dei ruoli narrativi (attanzialità; Greimas-Courtés, 1979, Dizionario ragionato della teoria del linguaggio), identifichiamo il ruolo del vero personaggio centrale del film.

Se il personaggio apparentemente guida del film è certamente il raffinato curatore, se è lui il ‘soggetto’ che persegue il raggiungimento dell’’oggetto’ – il portafogli rubato ma anche l’istallazione artistica  – perché è ‘destinato’ a tale raggiungimento dal movente ‘eccellenza del museo’, all’opposto, ribaltando, è il ragazzo immigrato, quello che si ribella all’ingiusta accusa di essere un ladro, il vero personaggio etico del film. Lui non si rassegna, e chiede un risarcimento morale per se stesso e per la sua famiglia, in quanto tutti loro sono stati diffamati. Questo del ragazzo costituisce il ruolo narrativo opposto, in quanto ‘soggetto’ che lotta per il raggiungimento del suo ‘oggetto’ – atti di scusa e riparazione da parte di Christian  – spinto dal suo movente ‘destinante’ che è la riabilitazione morale di se stesso e della sua famiglia. Movente personale e familiare che è, nella civilissima Svezia, riabilitazione insieme morale e sociale di tutti gli immigrati.

L’emergenza del ragazzo come principale ruolo narrativo etico del film marca e oscura il protagonismo di Christian lasciandolo privo del suo atto riparativo che non raggiungerà mai l’offeso, e impotentemente affidato ad un autoreferenziale messaggio vocale in un vano politichese che nessuno mai ascolterà.

Mentre sicuramente i poveri che popolano la città (e il mondo), non entreranno mai nell’area del ‘santuario di fiducia e altruismo’ promosso dall’arte progressista e avanzata. Perché – è il manifesto del film – se il mondo dell’arte è in un Luogo, o in Luoghi per eccellenza, is in “the square”, il mondo della storia dei vinti, dell’ingiustizia, della perdita di fiducia e dell’egoismo, è anch’esso fuori asse, è decentrato, è disperso ovunque in un non-luogo, is in a non-square.

Un film originalmente politico – attraverso il suo percorso nel mondo dell’arte – se si vuole, declinato in un linguaggio filmico proprio tanto più interessante per la sua provenienza geografica e culturale, e che appare, malgrado il suo aspetto formale composto, distanziante ed ironico, così tanto più radicale e forte se confrontato con le tematiche vagamente politiche della cinematografia delle nostre parti generalmente addomesticate e più impregnate dei consolidati umori della vecchia commedia all’italiana. Che qui certamente non sono.

Novembre 2017

 

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