Cultura e Società

Ti guardo (Desdé Allá, From Afar, Da lontano)

26/01/16

Lorenzo Vigas, Venezuela, Messico, 93′

Anteprime a Roma e Milano per la Società Psicoanalitica Italiana – 11-12/1/2016

Introduzione (di Fabio Castriota)

L’11 gennaio 2016 è stato proiettato in anteprima, presso il Cinema Nuovo Olimpia a Roma, il Film Desde Allà (From Afar, Da lontano), che giunge sugli schermi italiani con il titolo Ti guardo e che ha vinto il Leone d’Oro nell’Edizione 2015 della Mostra del Cinema di Venezia. L’evento, riservato ai Soci SPI, è stato realizzato grazie alla disponibilità della Casa di Distribuzione “Cinema” di Valerio De Paolis e a Manuela Fraire, che ha promosso l’iniziativa. Fabio Castriota ha coordinato l’organizzazione delle proiezioni a Roma, insieme a Fabrizio Rocchetto, e a Milano, il 12 gennaio presso il Cinema Anteo, insieme a Roberto Goisis, dove hanno dialogato con il regista Mario Marinetti e Elisabetta Marchiori.

Ti guardo, diretto dal regista Lorenzo Vigas, qui al suo primo lungometraggio, è un film coraggioso, che affronta la relazione tra il maturo Armando e il giovane Elder, evidenziando le passioni e la crudeltà di una vita difficile in un paese come il Venezuela, attraversato da una profonda crisi economica e sociale, dove i ragazzi vivono con l’arte di arrangiarsi, di sopravvivere. Assenza di contenitore familiare, rapporto con il padre, crisi dei ruoli adulti, adolescenza, sono solo alcuni dei temi che attraversano il film, che si presta a letture articolate sia sul registro relazionale sia su livelli intrapsichici profondi.

Di seguito il commento e il report dell’anteprima che si è svolta a Milano.

Commento (di Elisabetta Marchiori)

Armando (Alfredo Castro) è un signore di mezza età, dall’aspetto innocuo, proprietario di un laboratorio di protesi dentarie, che adesca ragazzi e li paga profumatamente per portarli a casa sua, guardarli “da lontano” e masturbarsi. Da lontano spia anche un anziano signore, il padre, da cui si intuisce sia stato abusato. L’incontro-scontro con Elder (Luis Silva), un teppistello che lavora in un’officina e non accetta subito le sue richieste, cambierà l’esistenza di entrambi, con un finale sorprendente.

Il regista, lavorando di sottrazione (“per via di levare”) è riuscito a fare un film essenziale, senza autocompiacimenti, che non fa nulla per intrattenere lo spettatore, ma lo trattiene letteralmente, lo inchioda alla poltrona, ne cattura lo sguardo, grazie anche agli straordinari interpreti. Riesce a centrare quella che è una delle missioni più importanti del cinema, cioè, come ha affermato Eric Romer, “di dirigere i nostri occhi verso gli aspetti del mondo per i quali non avevamo ancora avuto sguardi”. Il cinema arriva prima, anticipa gli altri saperi parlando direttamente all’inconscio (Valdrè, 2015). Dopo l’immagine vengono il pensiero e la parola, e il film è pane per i nostri denti (di psicoanalisti). Sembra che il regista abbia un’autentica attitudine psicoanalitica per il rigore e la creatività con cui mostra le vicissitudini dei protagonisti, trasformandole in una tragedia dal destino ineluttabile. Viene in mente il Macbeth shakespeariano: “ciò che è fatto, è fatto”. Il film ripropone quindi temi universali, permettendoci riflessioni a diversi livelli di profondità.

Già i titoli sono estremamente evocativi: quello originale Desde Allà (da lontano) completa quello italiano Ti guardo. E il “come ti guardo” apre già un mondo per la psicoanalisi, quello della relazione tra me e l’Altro da me, che dipende alle origini dal tatto, dall’odorato, dalle senso-percezioni derivanti dal contatto fisico tra madre e bambino, dalla qualità dell’abbraccio, e, insieme, dalla qualità dello sguardo.

Sappiamo che il bambino, quando incontra lo sguardo della madre, vede se stesso, egli dipende dalle risposte del viso della madre, per accertare il proprio senso di sé (Winnicott, 1971). Di uno sguardo che ci vede, ci riconosce e ci tocca c’è la necessità assoluta perché possiamo sviluppare il nostro senso di identità – anche sessuale- il nostro essere soggetti. Se lo sguardo è vuoto, opaco o diretto altrove, guarda e non vede, oppure se intervengono gravi eventi traumatici, abusi fisici o psichici, che accecano per la loro violenza, la percezione viene a mancare della possibilità di rappresentazione e significazione di sé e delle cose viste, del mondo.

Credo che questo sia il tema fondante del film, su cui si sviluppa la storia di Armando e Elder, che il regista ci fa seguire, con un sapiente uso della macchina da presa, mantenendo sempre la giusta distanza tra noi spettatori e le immagini filmiche, così da costringerci a identificarci o con la macchina da presa o con l’occhio di uno dei protagonisti. Così, nonostante la crudezza e la durezza, non ne siamo sopraffatti e non le rifiutiamo. Riesce a mantenere un’area transizionale, di gioco, di creatività, uno spazio che permette di pensare, capacità che pare sconosciuta ai protagonisti. Entrambi, infatti, agiscono, l’uno spinto dalla coazione dell’atto sessuale perverso, l’altro dal bisogno, dalla pulsione pura, da una fame primordiale di affetto. Osserviamo gli sguardi voraci di Elder verso Armando, mentre voracemente mangia, quasi volesse “divorarlo” in modo cannibalico.

Armando ed Elder sono apparentemente molto diversi, ma sono cresciuti entrambi nella violenza, nell’abbandono, nel rifiuto, nella mancanza di comprensione.

Siamo nel territorio del trauma e dell’abuso psichico e fisico, carne, lacrime e sangue, dove il Padre è un persecutore e la Madre trascurante, il linguaggio della tenerezza è sconosciuto e viene confuso con il sesso (Ferenczi, 1932), rendendo impossibile il rapporto con l’Altro e inevitabilmente sconfinando nel territorio della perversione.

Non è stato possibile per entrambi introiettare figure genitoriali buone, in grado di prendersi cura, di proteggere, ma persecutorie e vampirizzanti.

Nella scena, i personaggi che si confrontano sono sempre e solo due, manca anche visivamente il Terzo strutturante, il Padre, che consente la differenziazione e l’aggancio con la realtà. Si guardano, ma non si vedono. Il ritmo del film è scandito dagli incontri tra i due, seguiti da agiti, violenti, coattivi, impulsivi, cui manca la prospettiva di un futuro: sembrano entrambi vivere un continuo presente, congelato dal non-pensiero: stessi luoghi, stessi gesti, stessi vestiti.

Armando è la personificazione della perversione voyeristica, che mantiene sempre una separazione tra l’oggetto (osservato) e la fonte pulsionale (l’occhio). Il suo sguardo blocca l’oggetto alla giusta distanza (come certi spettatori). L’oggetto deve rimanere inaccessibile, guardato ma non visto, controllato da lontano, assente, infinitamente desiderato tanto più è lontano (Metz, 1977).

Per Armando l’oggetto del desiderio è Elder, che vuole solo se tenuto lontano, che sembra sostituire il padre come oggetto di desiderio, cui è stato troppo vicino e per questo forse mai raggiungibile: si può ipotizzare una correlazione tra il “ritorno del padre”, annunciato all’inizio del film, e l’ossessione di impossessarsi di Elder quale oggetto sostitutivo, che sarà sempre insoddisfacente.

Il bisogno di reinventare l’atto sessuale (la cosiddetta “neosessualità” secondo McDougall, 1995) può essere fatto risalire a eventi traumatici precoci, storie di seduzione incestuosa da parte della madre, con un padre svalutato o assente o, come nel caso di Armando e Elder, da parte del padre, con una madre complice o disinteressata.

Le immagini di questo film mostrano come gli atti sessuali perversi siano vere e proprie creazioni che somigliano a drammi teatrali, concepiti anticipatamente, che non consentono un cambiamento del copione. Il gioco non è possibile, la capacità di usare la fantasia è assente o limitata perché non si è creata l’area del gioco, l’area transazionale è collassata, quella che separa e unisce un essere a un altro non esiste (McDougall, 1995). Ci può essere solo la distanza o l’impossessamento, l’assenza, la frustrazione e il rinvio non sono concepibili.

Il mondo interno di Armando è strutturato nella e dalla perversione e si nutre di essa, mentre Elder non ha ancora un’identità strutturata, è vulnerabile e confuso.

Mi pare che i diversi ambienti e gli oggetti siano proiezioni del mondo interno dei due protagonisti. Armando come una cassaforte chiusa, inaccessibile, che Elder cerca invano di scardinare, una casa ossessivamente ordinata, dove nulla può essere cambiato, un laboratorio inquietante, pieno di dentiere senza bocca, che rimandano alla morte, a oggetti parziali, all’aggressività inespressa. Elder come quella carcassa di automobile informe che vuole “riparare”, mettere a nuovo, come la città di Caracas, confusa, caotica, una casa senza porte, dove si può entrare e uscire indisturbati (come fa Armando), l’officina sporca e disordinata.

Tra le tante ipotesi di lettura che mi sono venute in mente, due prendono il sopravvento. La prima è quella che si tratti della storia di una “adozione impossibile”. Sono due figli in cerca di un padre, e durante il film le parti s’invertono. Prima è Armando ad assumere un ruolo pseudo-paterno, poi è Elder a “prendersi cura” di Armando. In contrappunto, è la sorella di Armando a realizzare l’adozione di un neonato, riuscendo in qualche modo a lasciarsi alle spalle un passato che il fratello non può dimenticare. Ma è un barlume di vita in un mondo che rimane senza pietà per i protagonisti.

La seconda è che il film racconti l’evoluzione di un’unica persona: Elder e Armando come lo specchio l’uno dell’altro, uniti nell’incapacità di “guardare in faccia” sé stessi, la questione della propria finitezza, della morte e del nulla, che ha come prezzo da pagare anche quello di non poter “guardare in faccia” nemmeno la vita, protetti e nello stesso tempo “siderati” dal non-pensiero: la psicoanalisi ha messo l’accento sul fatto che per l’uomo è insopportabile l’essere in balia di un non-pensiero (Mangini, 2011).

Report della discussione con il pubblico dopo la proiezione a Milano (di Elisabetta Marchiori)

La prima domanda che è stata posta al regista riguarda la fine del film, in cui Armando compie un gesto estremo (che non riveliamo), per allontanare Elder. Vigas ha girato la domanda al pubblico, ricevendo diverse risposte: 1. Armando ha perso il controllo di Elder, non può sostenere una relazione intima per l’angoscia (tipica del perverso) di confondersi/fondersi con l’altro, 3. deve ripristinare “l’ordine”; 2. “Il figlio è colpevole se cede al desiderio del Padre”, Armando rappresenta la legge del Padre e tenta di ripristinare un limite, differenziandosi; 3. Armando si è innamorato di Elder, ma è un amore “impossibile”.

Il regista ha sottolineato che Elder ha privato Armando della sua ossessione, di cui aveva bisogno vitale: “il nostro peggior nemico” talvolta ci permette di definirci, ci dà un’identità.

Ha chiesto se qualcuno avesse pensato che l’obiettivo di Armando fosse sin dall’inizio quello di trovare un killer che uccidesse suo padre: in sala si è alzata qualche mano. Vigas ha raccontato che questa ipotesi è stata suggerita in occasione di diverse proiezioni del film e non la condivide, ritenendo che tra i due protagonisti si sviluppi un forte legame d’amore. Dal pubblico emerge l’osservazione che si tratti di un film di guerra, non di una storia d’amore, tanta è la violenza. Vigas ha risposto che il Venezuela è un paese in guerra e che la tensione si respira anche nel film.

Marinetti ha osservato come i personaggi guardino il mondo da lontano, un mondo sfocato perché sono lontani da loro stessi. L’unico modo per mettersi in relazione è impossessarsi l’uno dell’altro, è un tentativo fallimentare di conoscere se stessi, perché sfocia nella fusione-confusione.

Vigas ha spiegato che l’utilizzo della sfocatura dell’immagine è stato pensato per rendere il personaggio di Armando “un fantasma”, uno “spettro”, fisicamente presente, ma emotivamente assente, in un altro tempo e in un altro luogo rispetto agli altri.

Goisis ha sottolineato l’utilizzo particolare e attento della macchina da presa (inquadrature da dietro, messa a fuoco, piani sequenza, carrellate ecc.) che sembrano avere una motivazione specifica. Vigas ha risposto che è tutto stato pensato: quando scrive un film cerca di raccontare una storia nel modo migliore e renderla poi nel modo più efficace, per questo ogni movimento di macchina è al servizio di ciascuna inquadratura. Ha lavorato per “sottrazione” in termini di scene fino a che non ci fosse una parola di troppo. Tante ipotesi emergono dopo, quando si “mostra” il film, che a quel punto, a suo avviso, non appartiene più a chi l’ha creato, ma “diventa” degli spettatori. Ha giocato volutamente sull’ambiguità. Rispetto a una domanda su eventuali registi di riferimento, ammette che è stato influenzato particolarmente dal cinema di Bresson, che utilizza “il non detto”, scegliendo di non dare informazioni per lasciare spazio a diverse ipotesi e evitare di girare un film dogmatico.

Uno spettatore interviene per commentare l’impressione di aver sentito piangere un bambino, invece si trattava del rumore del trapano di Armando, e ha pensato che quello potesse essere il suo “grido di dolore”. Vigas coglie l’occasione per chiedere al pubblico cosa avesse pensato rispetto al lavoro di Armando. Sono state fatte associazioni rispetto alla morte, confermate dal regista: la dentatura è l’unica parte del corpo umano che rimane integra anche dopo la morte. Marinetti interviene sottolineando che sono “protesi”, dispositivi artificiali per sostituire parti mancanti o danneggiate: Armando e Elder tendono ad utilizzare l’Altro come una protesi.

Goisis riprende il tema del rumore del trapano per sottolineare l’assenza di una vera e propria “colonna sonora” e Vigas risponde che il suono nel film è particolarmente importante; come le immagini rimandano al mondo interno dei personaggi, al loro “universo sonoro”, così c’è il “suono della morte” intorno ad Armando e la musica chiassosa o il rumore della città attorno a Elder.

Vigas si è mostrato curioso, attento, interessato, oltre che generoso, nel confronto con un pubblico colpito e coinvolto. Nel salutare, ha ringraziato per quanto gli spettatori abbiano contribuito a mostragli aspetti del film che non aveva pensato né visto, concludendo che ora che è uscito il film è del pubblico, non più suo.

Bibliografia

FERENCZI S. (1932). Confusione delle lingue tra adulti e bambini. In Fondamenti di psicoanalisi, vol.3°, Guaraldi, Rimini, 1974.

MANGINI E. (2011). Alternanza e interrelazione tra processi creativi e difensivi in analisi sulla base delle vicissitudini pulsionali. Relazione presentata al centro Veneto di Psicoanalisi, Seminario “Processi creativi e processi distruttivi del mondo interno e del mondo esterno”.

METZ C. (1977). Cinema e psicoanalisi. Il significante immaginario. Marsilio, Venezia, 1980.

MCDOUGALL J. (1995). Eros. Le deviazioni del desiderio. Cortina, Milano, 1997.

VALDRE’ R. (2015). Cinema e psicoanalisi nel territorio dell’alterità.

WINNICOTT D. W. (1971). La funzione di specchio della madre e della famiglia nello sviluppo infantile. In Gioco e realtà. Armando, Roma, 1974, 189-200.

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