Cultura e Società

“Un amore sopra le righe (Mr & Mme Adelman)” di Nicolas Bedos. Recensione di Giuseppe Riefolo

17/04/18

Autore: Giuseppe Riefolo

Titolo: Un amore sopra le righe (Mr & Mme Adelman)

Dati sul film: regia di Nicolas Bedos, Francia, Belgio, 2017, 120’

Genere: drammatico

 

“Fidarsi”

“Quando due persone si scelgono, ce n’è sempre una che subisce.

Mai avevano immaginato che potessero arricchirsi l’un l’altra”.

(Williams, 1965, pag. 230)

Sarah Adelman è una brillante studentessa di lettere classiche dalle origini modeste.

Nel 1971 incontra Victor Richermont, scrittore narcisista e ambizioso, di famiglia borghese, il padre e il fratello imprenditori, la madre alcolista. Sarah decide che Victor sarà l’uomo di cui si prenderà cura per tutta la sua vita. Legge e corregge i suoi romanzi, spesso ne scrive intere parti. Al suo primo romanzo egli prende l’identità di entrambi e diventa Victor Adelman, diventando uno dei più importanti scrittori francesi. Sullo sfondo c’è il racconto di Sarah, che finalmente diventa protagonista di una storia l’aveva tenuta nell’ombra, raccontata a un giornalista sconosciuto, che rende partecipe delle vicende più intime, proprio mentre da Victor deve separarsi per sempre.

 

Le storie … di due persone

 

Sarah chiede al giornalista: “Ho detto alla polizia che l’ho lasciato solo perché voleva guardare il mare, lei crede a questo?”.

È evidente, potresti mantenere per te questo segreto in cui il tuo amore per Victor ti chiede di farlo morire, proprio mentre, in una vita che si sta spegnendo nella demenza, lui nella passeggiata con te ricontatta un “attimo di eternità” (Quinodoz, 2008).

Gli analisti sanno che questo è il tono intenso delle comunicazioni in analisi e questa volta – in queste situazioni – la morte può arrivare lieve, perché te la porge qualcuno che conosce profondamente la tua vitalità. Infatti, la risposta del giornalista coglie il tono dell’amore: “Lei l’ha fatto perché l’amava!”. A questo punto il dialogo fra Sarah e il giornalista procede nell’intensità e nell’intimità.

Verso la fine, un altro scambio di battute: “Perché l’ha  raccontata a me questa storia?”.

“Non lo so… non c’è un motivo! Forse perché volevo vedere la faccia che sta facendo ora!”

La risposta di Sarah mi ha fatto pensare a tanti momenti che condivido con i miei pazienti. Il motivo per cui vengono a cercarmi non è, come si potrebbe credere, quello di scavare nell’inconscio per scoprire le ragioni dei loro problemi ma, più semplicemente, per sondare quanto possa essere potente la propria vitalità spesso sospesa o persino inibita.

Il giornalista, emozionato per essere stato convocato come interlocutore speciale, è molto curioso e ha un sacco di domande che vorrebbe farle: “Anch’io ho notato una certa differenza tra quello che scriveva quando eravate insieme e quando non eravate più insieme. Come mai?”.

Il film ha una sua sequenza dove il colpo di scena, alla fine, ti fa rivedere al contrario tutta la trama e viene un’altra storia. A me ha fatto pensare che raccontare le storie serve perché un altro entri finalmente nella tua storia e colga la sua presenza attraverso la tua curiosità. Gli analisti sanno che quando un altro è entrato nella storia, quella la storia non è più la stessa ed è possibile finalmente scoprire che a scriverla sono state più persone. Ho pensato alla bellezza dei percorsi di analisi, in cui non ha importanza svelare un inconscio rimosso, ma presentare una complessità laddove la storia sembrava scivolare in modo lineare. Alla fine scopri che Victor scriveva perché lei era con lui e c’era concretamente ed attivamente in quei libri che pure portavano la firma di Victor Adelman. Appunto: Victor Adelman! Gli analisti conoscono il transfert, le identificazioni proiettive e il “terzo analitico” (Ogden).

Il film, semplicemente, sin dall’inizio, segnala l’amore come la tensione potente a trovare un altro che ti permetta la creazione di un nuovo soggetto a cui Sarah e Victor contribuiscono insieme, “un processo attraverso il quale una persona tenta di conoscerne un’altra” (Williams, 1965, 225). Ho pensato che i percorsi di analisi iniziano esattamente come inizia il film: puoi accettare che Victor non ci sia più, ma non puoi accettare che non ci sia più nessuno capace di incuriosirsi della tua vita.

Ho visto l’incontro tra Sarah e il giornalista come la riproposizione di una storia d’amore appena terminata e, questa volta, è il giornalista, e non più Victor, a dover “pubblicare” ciò che Sarah sente e pensa: “Quando lo psicoanalista dà un’interpretazione, che è la pubblicazione di una conoscenza privata, sta traducendo il pensiero in azione” (Bion, 1992, 203).

Nello schermo ci sono due analisti. Il primo – quello concretamente descritto dal film – è la caricatura dell’analista, quello che alla gente piace immaginare che, ovviamente soccombe sotto il peso delle difficoltà del proprio paziente: “Il problema è che questa donna mi castrerà e lei lo sa che non ho le palle!”.

L’analista ha un commento per ogni cosa: “Ah, forse è questo il problema!”. È l’analista tipico dei film, che osserva con diffidenza, severità e noia il discorso del paziente sdraiato sul lettino. Alla fine, però, dovrà ribadire la propria sterilità nel momento in cui, morente in un letto di ospedale, puntualmente si svela essere lui più bisognoso del suo paziente, a cui finalmente può dire quello che ha dovuto sopportare fino a quel momento: “Non mi interessa nulla di lei … vada via… non ho voglia di starla a sentire… lei è una persona profondamente noiosa… se fosse almeno uno schizofrenico ci sarebbe qualcosa da dire, ma lei è noioso ed inutile!”.

Ovviamente questa caricatura non ha nulla a che fare con l’analisi o con alcuna cura psicologica. Il vero incontro analitico è quello che percorre l’intero film e si svolge fra Sarah e il giornalista. È lei che l’ha chiamato per raccontare a qualcuno, finalmente, la propria versione di una storia apparentemente nota.

Comincia subito con una comunicazione intima:

“Vede quella gente là fuori? Si stanno tutti chiedendo se ho ucciso io Victor”.

“Io non ho pensato neanche un secondo che lei …”.

“Lei ha torto! È stata la vecchia ad uccidere il vecchio? Questo è un soggetto per uno della sua età! Vuole vendere dei libri? Allora iniziamo. Forza!”.

Lo stesso giornalista si presenta come un bravo analista emozionato perché ammesso in una zona intima: “Mio Dio! questo è lo studio di Victor Adelman! Questa è la sua libreria? Ed è su questa scrivania che lui ha scritto tutti i suoi libri?”.

Poi il giornalista presenta la sua funzione originale, ovvero il motivo per cui i miei pazienti mi cercano: “Sono state scritte tante biografie di suo marito … i suoi libri … i suoi premi. Io vorrei scrivere una storia attraverso le persone che hanno avuto una influenza su di lui, le persone che ha amato!”.

Tutto il film fa pensare alle separazioni difficili. Qualche analista le ha definite, per fortuna, imperfette. Infatti, dopo la fine dell’analisi, l’analisi continua, e in quelle fasi di separazione, riportare tutto al transfert significherebbe “abbandonare il paziente e, allo stesso tempo non considerare un pezzo della sua umanità da lui deposto nell’analisi, nell’analista” (Gribinski, 2002, 72).

Nelle ultime scene Victor recupera la memoria nel ricordo del sorriso della madre che ritrova in Sarah e lei può accettare la perdita di Victor solo recuperando un momento antico e magico in cui, con gli occhi bendati, si giocava a fidarsi dell’altro: “Portami tu, io mi fido di te!”. È il saluto ultimo di Victor mentre lei lo lascia: “Ora vai da solo… puoi andare!”. Per tutta la vita lei aveva avuto paura di perderlo e per tenerlo era un po’ diventata lui e l’aveva reso un po’ se stessa: “Tu sei ebreo … Adelman è il mio nome … ti dona come nome!”.

Il film mi ha fatto pensare che, come quando in analisi le cose vanno bene, non si sa quella storia a chi appartiene e chi si sta separando da chi: “Victor Adelman? Chi è?”.

Raccontare una storia è una delle forme più emozionanti per avere la conferma che non sei solo. Il contenuto viene dopo: “La narrazione precede il linguaggio perché, di fatto, è il suo presupposto” (Damasio, 1994, 229). Infatti, scopriamo che le storie di Victor sono sempre la storia di un altro che ti racconta la sua vita e tu la scrivi come se fosse tua: “Amo tutto quello che dice. Il suo sguardo sulla vita, sul mondo … è tutto quello che sognavo”.

Agli inizi Victor scrive della sua storia con Sarah e poi, dopo il successo, Sarah lo lascia per un altro e i suoi libri non sono più interessanti: “Ho scelto l’unica donna che non riesco a impressionare con quello che faccio, con quello che scrivo, con quello che penso!”.  Forse, quando è solo, lui scrive delle storie che non sono di nessuno ma “di pura fantasia”. Poi l’amore ritorna esplosivo e violento, esattamente come la prima volta, quando sono scappati via dalla cena a casa dei genitori di Victor dove per lui (e per la madre alcolista: “smettila di baciare il cagnolino, lo farai ubriacare!”) non c’è posto. Il fratello, ammiccando al padre, commenta: “Lui è uno che non fa un vero lavoro. Bisognerebbe smettere di far votare gente che non fa nulla per la nostra economia!”. Questa volta scappano via, ancora una volta, da una vita noiosa in cui entrambi si erano persi: lui una improbabile allieva, lei un compagno che le concede una casa bellissima dove lei ha portato il loro vecchio divano su cui Victor ora riprende a sedere.

Nella noia del successo, ognuno cercava il proprio doppio e non più il proprio reciproco: lui una giovane eccitante, lei uno che sa realizzare i sogni di un altro. Quando succede così non è mai una storia d’amore, ma un’altra versione della solitudine: “Tutto, tranne la noia!”.

Il film dice che uno scrive come sua la storia che l’altro ti racconta, ma il bello delle analisi, quando va bene, è quando un’analista – magari un altro nella tua vita – ti restituisce la tua storia che ora ti emoziona. Infatti, nel nuovo libro di successo Victor ha narrato la storia della famiglia di Sarah come se fosse sua. Lui trova Sarah sul divano che ha appena finito di leggerla: “Perché piangi?”, le chiede. “Perché è bella!”, risponde.

Sembra strano, ma ho pensato: “Ma è la sua storia!”. Ovvio che sapevo la risposta! Penso ora a diversi momenti della mia analisi e me ne viene in mente uno in particolare: nella seduta di un lunedì scopro che il mio analista si era incuriosito della squadra di calcio del mio paese: “Questa settimana mi sa che ha pareggiato!”. Non ho detto nulla, ma ora so di aver provato la stessa emozione di Sarah mentre, sul divano, legge la sua storia scritta da Victor.

Ora Sarah dove prendersi cura di Victor per una malattia che lo porta sempre più lontano da loro. Ora lui racconta del sorriso della madre che aveva trovato in Sarah e che, allora, per ottenere all’infinito il suo sorriso avrebbe potuto lanciarsi dal balcone: “Sorridimi, o mi lascio cadere giù!”. Ora fra Sarah e Victor non è più il tempo degli eccitamenti, ma delle sicurezze. Procederai ancora una volta con gli occhi bendati, perché sai che per un lungo periodo hai potuto fidarti di qualcuno stranamente attento ai risultati della tua squadra di calcio. Anche il film sa che non significa nulla il burrone che si apre davanti a te e che tu, bendato, non vedi e non vedrai mai. Quella è la nostra paura che sente come tutto, prima o poi, finisca. È una paura normale, una paura che porta persino una emozione epica. Il film, invece, mi dice che quello era il luogo che amavi e che l’eternità è in quei luoghi: “Quando una persona (…) cerca attivamente di sentire la propria storia nella sua totalità, osserva dall’alto della collina, cogliendo con un solo sguardo, la sua storia interiore, il cammino che ha percorso, condensato nel suo presente” (Quinodoz, 2008, 22).

 

Riferimenti Bibliografici

 

Bion W. R. (1992). Cogitations. Armando, Roma, 1996.

Damasio A. (1994). L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano. Adelphi, Milano, 1995.

Gribinski M. (2002). Le separazioni imperfette. Borla, Roma, 2004.

Ogden T. H. (2015). La paura del crollo e la vita non vissuta. Riv. Psicoanal.,61, 5-27.

Quinodoz D. (2008). Inveccchiare. Borla, Roma, 2009.

Williams J. (1965). Stoner. Fazi, Roma, 2016.

 

Aprile 2018

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

"La sala professori" di I. Catak. Recensione di E. Berardi.

Leggi tutto

"Estranei" (All of Us Strangers) di A. Haigh. Recensione di F. Barosi

Leggi tutto