Cultura e Società

Wolfskinder

29/08/13

Una breve premessa, alla giornata che oggi si presenta intera.

Dedichiamoci a uno sguardo sul cinema internazionale, consapevole che si tratta di film che, pur importanti, potrebbero avere una distribuzione minoritaria o diseguale nel Paese, e dunque meritevoli a mio avviso di essere segnalati.

Cominciamo col tedesco “Wolkskinder”, eccezionale documento sui bambini perduti della Seconda Guerra Mondiale, per cambiare completamente genere e trasferirci ai due brevi racconti al femmine prodotti dalla stilista Miu Miu, “Women’s tales” e concludere con l’opera prima del regista turco Deniz Acay, “Kokzuk”…una sorpresa anche per me.

  • Autore: Rossella Valdrè
  • Titolo: Wolfskinder (Wolfchildren)
  • Sezione: Orizzonti
  • Dati sul film: di Rick Ostermann, Germania 2013, 91’min
  • Giudizio: ****
  • Genere: drammatico, storico
  • Trama: 1946-47, Lituania, è appena finita la Seconda Guerra Mondiale. Tra i milioni di vittime della guerra (delle guerre), residua un’estesissima categoria silenziosa, di cui si sa ben poco, che popola vagando e morendo di fame e stenti i boschi a confine tr la Lituania e la Germania, animaletti innocenti braccati dalle perdite (le morti dei genitori), la miseria e le confusioni che la guerra si trascina ancora dietro: sono i nove milioni di bambini in fuga, che suggestivamente il regista chiama Wolfskinder, bambini-lupo. Il film si apre con la morte di una madre che indica ai due fratellini, come ultimo desiderio, di cercare una famiglia di contadini che li accoglierà. Insieme ad altri due, i quattro bambini iniziano un silenzioso percorso nel bosco che occupa l’intero film: film di silenzi, quindi, i soli rumori della natura, dominato dagli animali che i bimbi devono sacrificare per nutrirsi, scacciati da poverissimi contadini lituani che non li riconoscono, o qualche volta accolti, com’è il caso del più piccolo, a costo di cambiare nome e rinunciare alla propria identità. Fritz diventa Jonas, pur di avere un piatto caldo e sopravvivere; il fratello maggiore, che si porta dentro l’accorato mandato della madre, invece no. Resterà solo, non sappiamo come, intuiamo che se la caverà, ma manterrà il suo nome, Arendt. Non sappiamo che ne è stato dei milioni di bambini perduti: il film ci presenta, attraverso due vicende quasi simboliche, due percorsi possibili.
  • Andare o no a vederlo?: Direi assolutamente sì: in quanto preziosità storica in sé, non notissima al grande pubblico, e in quanto opera mirevole per la sua bellezza filmica, quasi naturalistica. Lo spettatore si prepari a un’opera non comune, dove prevale il silenzio e il rapporto uomo-animale, ma in quanto necessità, in quanto sopravvivenza, scevra da qualunque indugio o gusto per la bestialità o la violenza gratuita. La parola manca perché non c’è parola possibile in certe condizioni: le immagini parlano, i bisogni, le urgenze. Esempio sobrio e mirabile di come il cinema riesca a “veicolare blocchi di verità”, come scrive Zizek (2004).
  • La versione di uno psicoanalista: Una versione non ci basta, sarebbe riduttiva. Metterei al centro il tema dell’identità, che tutte le guerre sconvolgono. Prima di morire la madre chiede ai bambini il loro nome (il loro nome tedesco), come a volerselo sentire confermare un’ultima volta; e la scena finale si chiude col ragazzino che, come detto, rinuncia a farsi adottare dai lituani e non diventa un qualche Jonas, mantiene il suo nome, il suo nome tedesco. Non c’è bisogno di scomodare Lacan o quanti altri si sono soffermati sull’importanza del nome come luogo, come centro identitario. In esseri umani che hanno perduto tutto, il nome è un’ancora salvifica sebbene non vi sia giudizio, nel film rispetto all’altra scelta: sopravvivere, cercare un’altra famiglia e un altro nome, vivere, cavarsela. Non sappiamo cosa ne è stato di questi bambini diventati adulti, se sopravissuti: hanno intercettato aree interne e esterne di umanità possibile? Il rimosso del trauma li ha soverchiati? Diventati brutali a loro volta, poveri, anaffettivi? Il film si limita a questa tranche de vie, ma quello che presenta è un universo povero, devastato dalla guerra, non disumanizzato: nei pochissimi dialoghi, le parole di un romanzo (sui viaggi, probabilmente) che Hans legge al fratellino, brillano come stelle di un cielo desolato, ma dove se la parola esiste ancora, è forse un possibile un recupero dal trauma.

Infine, ci occupiamo molto d’infanzia, del mondo interno del bambino e delle sue angosce; forse un po’ meno dei traumi collettivi, cui tanti bambini miracolosamente sopravvivono…    

Scriveva Roman Gary, nel suo bellissimo racconto infantile di La vita davanti a sé:

                 “La mia ignoranza è finita verso i tre o quattro anni e certe volte ne sento la mancanza”

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