Cultura e Società

Big Little Lies. Seconda stagione. Recensione di E. Marchiori

26/08/19
Big Little Lies. Seconda stagione. Recensione di E. Marchiori

Autore: Elisabetta Marchiori

Titolo: Big Little Lies, Seconda Stagione

Dati sulla serie: regia di Andrea Arnold, creata da David Kelley, Produzione HBO, USA, U.K.; Release 9 giugno 2019; durata 7 puntate 43’ – 56’, Sky Atlantic

Genere: Drammatico

“Lo spettatore, in una serie breve come una tranche de vie, resta col desiderio di sapere di più, vorrebbe seguire il destino di queste donne” scrive Rossella Valdrè commentando il finale della prima Stagione di “Big Little Lies” in questo sito.

Eccola accontentata: lei, io, insieme a milioni di fans, sperando di seguire il destino di queste donne.

La Seconda Stagione di “Big Little Lies” perde purtroppo quell’atmosfera di suspense e di thriller psicologico che la rendeva avvincente, per aprire uno squarcio su famiglie profondamente disturbate, su rapporti interpersonali e sociali che si nutrono di invidia, conflittualità, perversioni e traumatismi multiformi. L’amicizia tra le protagoniste si adombra di un inquietante velo di artificiosità, perché il loro legame è tenuto stretto dalla complicità nel delitto in cui si trovano coinvolte. Delitto che trova certamente giustificazioni nelle loro storie personali, ma non per questo possono evitare di farci i conti, e per farli sul serio, non è sufficiente “confessare” alla polizia, è necessario un profondo lavoro interiore.

La verità viene a galla, si abbatte come le onde dell’oceano sui protagonisti: qualcuno di loro ne riemergerà finalmente e veramente, purificato, o almeno consapevole? Le premesse non consentono di ipotizzarlo, e nemmeno lo sviluppo delle vicende: quella che appare una rinascita, una svolta, una liberazione – suggellata dal dire la verità, solo la verità, niente altro che la verità – dà piuttosto la senzazione di una discesa in un altro inferno.

Meglio sarebbe stato, a mio avviso, fosse finita lì, con quelle donne così complici e solidali, e rimanere nel dubbio, lasciare al pubblico quel senso di mistero e di precarietà della vita, che magari quella “sliding door” fosse davvero un’occasione per loro di appropriarsi delle proprie vite.

Purtroppo il successo di pubblico, otto Emmy Awards e quattro Golden Globes, hanno convinto l’autrice Liane Moriarty, il creatore David Kelley e la HBO a riaprire i giochi, con qualche asso nella manica. Il cast, già “stellare”, si impreziosisce con la presenza della più stella di tutte, Meryl Streep, impeccabile nel ruolo della perfida suocera di Celeste. Le parti son cucite addosso alle interpreti (Reese Witherspoon e Nicole Kidman ne sono anche produttrici) che meglio non si sarebbe potuto, anzi, magari un po’ troppo. Ma fin da subito si sente che qualcosa non funziona come dovrebbe, il dramma vira in melodramma, arriva pure quella con le visioni, le catastrofi rasentano l’incredibile, la recitazione delle attrici (a parte Meryl Streep) è esasperata e esasperante. Mi son chiesta come una regista del calibro della britannica Andrea Arnold vincitrice di un Oscar per il corto Wasp e di due premi della giuria a Cannes (per Fish Tank eAmerican Honey) potesse provocare sensazioni così spiazzanti.

Ho trovato nel web una notizia che ha creato molte polemiche, e offre qualche spiegazione: pare che la produzione, insoddisfatta del lavoro della Arnold, abbia richiamato Jean-Marc Vallée, regista della Prima Stagione (precedentemente impegnato a girare “Sharp Object”) e lo abbia inserito nella fase finale e di montaggio. Ma non è chiaro come sia andata: le bugie sembrano essersi infiltrate nelle vicende riguardanti la produzione, e forse anche nel confezionamento della storia. Fatto sta che, nel mondo reale, la solidarietà tra le artiste non corrisponde a quella che le attrici vorrebbero interpretare. Infatti se ne percepisce l’inautenticità, e quello che è al di là delle apparenze. Era questa l’intenzione? Da spettatrice, mi son sentita profondamente disturbata dallo svolgersi di queste storie di donne, vittime e carnefici di uomini violenti, psicopatici o, nel migliore dei casi, rozzi, insensibili oppure terribilmente privi di fascino e noiosi. Dimenticavo: entra in scena anche un giovanotto carino, che forse soffre di sindrome di Asperger (molto cool pare “lo spettro autistico”, oggigiorno che, come dice una delle protagoniste, pare certi uomini usino per giustificare certi loro comportamenti). Ma alla ribalta è il rapporto madre e figli, o meglio, il legame di potere traumatico, esercitato inconsapevole, da tutte queste donne sui loro figli.

Ragazzine e ragazzini adultizzati, abusati, maltrattati, contesi, schiacciati da madri vampire – a loro volta vittime di abbandoni e violenze – che li utilizzano e li manipolano per arginare le loro ferite narcisistiche, per farli essere quello che loro non sono state, per ritagliarsi un ruolo di “madri” quando le altre opportunità sono andate in fumo. E i padri lì a guardare, a farsi gli affari loro o a trascinare le famiglie in rovina.

Sono traumi transgenerazionali, che non possono essere guariti da verità nude e crude, venute a sapere per avere origliato a una porta, per avere assistito da lontano al pestaggio della propria madre, per avere ascoltato una telefonata, o per la confessione di un adulto angosciato che non sa come agire per convincerti a fare una cosa piuttosto che un’altra. E che dire della gestione di atti di bullismo a suon di minacce e strepiti in presenza dei piccoli interessati?

Gli adulti non fanno che confermarsi tra loro di essere “good man” e “good women” e quanto “sweet e good” siano anche i loro figli: quante volte se lo devono ripetere per convincersi e convincere lo spettatore?

L’unica che appare – inizialmente – giungere a fare “cascare il palco” è la suocera di Celeste, la madre di Perry, ma anche lei ha i suoi scheletri nell’armadio, e le sue verità perdono peso.

E sulle rive di quell’oceano, tra onde, tramonti e folate di vento, jogging e riunioni segrete, i destini di quelle donne sembrano avere una svolta ma – mancando un’autentica elaborazione – rimane il timore che sarà un’altra messa in scena. Basti vedere come trattano la psicoterapeuta cui si rivolgono: entrano ed escono dal suo studio prendendo solo quello che gli fa comodo, se lo trovano. Non funziona così …

I ragazzini, testimoni delle verità buttate loro addosso come elementi beta grezzi e indigeriti dagli adulti che si presume debbano prendersi cura di loro, e che già manifestano segnali di disagio, subiscono tutto passivamente, rifugiandosi nei videogiochi, nel telefonino e nella musica, o assumendosi il peso di responsabilità che non sono loro.

Una colonna sonora, pur di alto livello, che dovrebbe indurre ad amplificare la profondità dei sentimenti dei personaggi, risulta eccessiva e ridondante, coprendo invece di promuovere, gli agognati disvelamenti.

La sensazione che rimane è quella di sguazzare nel torbido, e sentire forte e chiaro un richiamo: “save the children”. Solo per questo vale la pena di vedere anche questa Seconda Stagione.

Agosto 2019

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