Cultura e Società

Cinemente XI edizione. Report della quarta serata a cura di V. D’Angelo. Roma, 05/06/2025

11/06/25
Cinemente XI edizione. Report della quarta serata a cura di V. D’Angelo. Roma, 05/06/2025

Parole chiave: dipendenze, lutto, dolore

CINEMENTE – La casa degli sguardi

Report di Valeria D’Angelo

Il quarto appuntamento con Cinemente è con La casa degli sguardi di Luca Zingaretti, lungometraggio liberamente tratto dall’omonimo e autobiografico libro di Daniele Mencarelli.

Marco è un ragazzo di ventitré anni intrappolato nella catena della dipendenza da alcool, un abuso severo che lo mette quotidianamente a rischio. Marcolino, così lo chiamano tutti, è anche un poeta; la prima immagine del film lo ritrae in questa doppia attività, buttare giù vino bianco mentre scrive versi. Si comprende presto come la poesia siaun tentativo di rappresentare il dolore che lo annienta, così come un modo di ritrovare il legame con la madre che non c’è più.

In seguito ad un incidente in macchina, il padre, un uomo accudente e preoccupato, e Davide, direttore di una rivista letteraria dove Marco ha pubblicato le sue poesie, gli presentano l’opportunità di entrare in una cooperativa di pulizie che presta attività presso l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma.

Non senza una certa riluttanza Marco si presenta a lavoro dove, dopo pochi istanti, incontra la drammaticità di un luogo in cui i bambini vanno per curarsi ma dove possono anche morire. Io non sapevo che i bambini morissero, si, muoiono, ma non così come quello scandalo di bellezza e infanzia sfinita ai miei piedi. Così Mencarelli nel suo libro descrive il suo impatto con la visione di una bara bianca con una bimba che viene pianta dai suoi genitori: la scena, presente anche nel film, è l’esordio del suo futuro in ospedale, seguito da un altro momento molto significativo in cui l’équipe di lavoratori a cui è stato assegnato, gli dà il “benvenuto” facendogli lavare un bagno guasto ricoperto di escrementi. Resistere alla puzza, resistere al dolore interno e quello che risuona esternamente, tengono ancorato Marco a quel luogo che nel tempo si arricchisce di affetti, solidarietà e appunto di sguardi che nutrono e che danno un senso nuovo ad una esistenza così minata.

Su questo, nel dibattito alla conclusione del film, pone la sua attenzione Paolo Boccara facendo inizialmente riferimento alle tante teorie psicoanalitiche, in particolare a quella winnicottiana, che danno centralità allo sguardo materno nel quale il bambino può trovare l’immagine di sé stesso.  Boccara pone in risalto come i vari sguardi si intersechino e si differenzino, evidenziando un cambiamento nel momento in cui anche il protagonista, chiamato dal suono di un toctoc alla finestra, alza lo sguardo ed incontra quello di un bambino che lo cattura in un dialogo muto ma ricco di reciprocità.

Per lo psicoanalista, il film dimostra che non basta lavorare e neppure guardare l’altro, seppur generosamente e benevolmente, per poter stare bene o per pensare di essere salvati da un solidale gruppo di lavoro. Tutto questo è un aiuto che non evita il malessere; gli altri, pur nella loro presenza e supporto, rimettono in gioco dei circuiti traumatici come avviene in Marco che, nonostante un allentamento, rimane attratto dall’obnubilamento dell’alcool. Al contempo, Boccara sottolinea in conclusione la centralità della domanda su cui ruota il film, ovvero quanto si possa resistere al dolore e quanto lo stare insieme in una sofferenza che non cerca significato, rappresenti una strada per rendere tutto questo più tollerabile.

La distruttività caratterizza la vita del protagonista che passa dalla tristezza alla disperazione cercando nell’assunzione di alcool un’anestesia temporanea ma potente. Un bicchiere dopo l’altro, gesti veloci che seguono un ritmo che non conosce pause se non nel tonfo di un sonno sfinente o di uno scontro fisico, entrambe rappresentazioni di un limite pericoloso.

È sullo stato di tensione che tutto questo genera quando si ha a che fare con le dipendenze, a cui ci convoca Filippo Maria Moscati all’inizio del suo intervento. Paragona la persona dipendente ad un Sisifo che regge un peso troppo grande per essere trasportato, tanto da farlo rotolare come il masso nel mito, distruggendo ogni volta tutto.

Ciò che ci propone però è riflettere su quanto spesso il nostro sguardo si fermi all’atto della distruttività, quindi all’assunzione di sostanze o di alcool, mentre più difficilmente ci si chiede il perché Sisifo/Marco lasci andare il masso. Citando Freud, Moscati sottolinea quanto il rischio sia quello di confondere l’arma con il crimine, soffermarsi sul visibile anziché addentrarsi sui significati profondi di una dipendenza.

La concretezza di una condotta abusante e la centralità che occupa nella quotidianità della persona rischiano di svuotarla di una storia e di un’identità, definendo un allontanamento da quello che è il focus della sofferenza, ovvero un’angoscia che poiché intollerabile, deve essere annientata, spezzata. Il corpo diviene teatro di vissuti non rappresentabili ed è in questa funzione deficitaria della psiche che l’altro può essere salvifico. Nelle analisi, la postura del clinico è quella di tradurre ciò che viene evacuato attraverso l’eccesso del corporeo in ciò che può essere pensato, visto, accolto, lontano da uno sguardo giudicante dal quale rifuggire. Talvolta questo sguardo nel film è quello del padre, figura mite e presente, che oscilla tra un supporto affettuoso e continuo al figlio ed il rimando del suo essere quello che fa “sempre casini”. 

In ogni caso, così come ripreso dal regista Luca Zingaretti, è un padre che si fa trovare, un tramviere che Marco sa dove poter incontrare, attendendolo alle fermate dell’unica strada che il tram può percorrere. Accanto a questo Zingaretti, oltre a riportare alcune modifiche della sceneggiatura rispetto al romanzo, pone in risalto due aspetti centrali su cui ruota il libro e quindi il film. Il primo riguarda la capacità dell’essere umano di trovare una strada di salvezza sapendo sostare nel proprio dolore, nonostante si viva in un tempo presente in cui si tende a valutare gli aspetti performativi e vi sia una maggiore tendenza a negare la sofferenza. Il secondo evidenzia l’importanza di avere un’identità lavorativa che, unitamente ad un gruppo con cui si può condividere la fatica e la soddisfazione, restituisce una dignità che in alcuni momenti, anche per condotte di vita ai limiti della legalità, si rischia di perdere.

La poesia è una espressione dolorosa e profonda della condizione del protagonista, una risorsa alla quale appigliarsi nel tentativo di rappresentare la propria sofferenza e tutto quel dolore che si contatta negli sguardi dei bambini ricoverati e di quelli persi dei loro genitori. Mencarelli regala queste parole in cui è condensata la sua storia e che possiamo benissimo immaginare di ascoltare dallo stesso Marcolino alla conclusione del film: al Bambino Gesù ho fatto la conoscenza del dolore portato alla sua essenza più pura, invincibile. Ho bestemmiato, ho maledetto questa carne che non sa difendersi dal dolore degli altri, né tantomeno prova a rifuggirlo. Di tutto questo mi porto quintali di parole non scritte, lasciate in giro per la mente, dimenticate e riprese centinaia di volte, per merito della realtà che me le ripropone nella loro grandezza. Ma grazie a tutto questo sono, un poco al giorno, tornato a vivere.

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