Cultura e Società

“Gli indifferenti” di L. Guerra Seràgnoli. Commento di R. Valdrè

5/12/20
“Gli indifferenti” di L. Guerra Seràgnoli. Commento di R. Valdrè

Autore: Rossella Valdrè

Titolo: “Gli indifferenti”

Dati sul film: regia di Leonardo Guerra Seràgnoli, Italia, 2020, ‘81, On Demand, Circuito #iorestoinsala

Genere: drammatico

 

 

 

Al suo terzo adattamento cinematografico (il primo nel ’64, diretto da Francesco Maselli e il secondo nell’88, miniserie televisiva in due puntate per la regia di Mario Bolognini), il capolavoro di Alberto Moravia torna sulle scene adattato, questa volta, ai giorni nostri. La vicenda è semplice, nota, e ristretta a pochi personaggi rinchiusi nel loro appartamento, un elegante attico romano: la ricca vedova Mariagrazia (Valeria Bruni Tedeschi sempre perfetta in questi ruoli), rimasta senza denaro dopo la morte del marito, si lega a Leo, uomo senza scrupoli che ne diventa l’amante per gestire il loro denaro e appropriarsi dell’appartamento, circondata dai figli adolescenti Michele e Carla. Unico personaggio esterno alla famiglia l’amica Lisa (Giovanna Mezzogiorno), che dapprima era stata amante di Leo, e ora lo è del giovane Michele. Che cosa rende una storia così apparentemente banale un capolavoro della nostra letteratura che, dalla sua uscita nel 1929, continua a essere riproposto? Che cosa ne fa una metafora della commedia umana universale, al di là dello specifico clima e storico e culturale in cui la collocò Alberto Moravia, ossia quella pavida borghesia italiana degli anni ’30 e ‘40, apatica e indifferente a tutto, ricca e svogliata, priva di etica e valori che finirà, più per pigrizia che per ragioni ideali, per aderire al fascismo?

L’indifferenza, appunto, il suo girarsi dall’altra parte, la sua stolida inconsapevolezza, la sua perversione di fronte ad ogni valore umano. Gli indifferenti ci appare pertanto, ancora oggi, un magnifico spaccato umano e socio-culturale che travalica ogni epoca per raccontare una crisi valoriale e morale, interna ai singoli personaggi e a tutto il gruppo sociale che li comprende.

Incontriamo nel film ogni tipo di perversione e di umana fragilità: Mariagrazia sa di non essere amata e di venire sfruttata da Leo, ma non può farne a meno; ugualmente il figlio Michele disprezza Leo, ma ugualmente ne è dipendente, poiché nessuno di loro lavora, nessuno possiede più nulla e tutti dipendono economicamente da Leo. Leo seduce sessualmente la giovane Carla, facendola ubriacare, così l’amica Elisa intreccia una relazione con Michele, figlio dell’amica che potrebbe essere suo figlio: nessuna barriera incestuosa, nessuna vergogna endogamica, limita l’appetito di Leo, la brama di benessere e la totale passività con cui i personaggi lasciano che venga lesa ogni loro dignità.

È noto come Moravia conoscesse la psicoanalisi ma come avesse voluto, al tempo stesso, non farne un romanzo apertamente psicoanalitico; l’operazione fu perfettamente riuscita perché tutto, ne Gli indifferenti, è vicenda, è tema psicoanalitico, senza che il testo ne parli espressamente. La critica cinematografica è stata, a mio parere, ingenerosa con il film di Seragnoli, giudicandolo un debole adattamento; se è pur vero che la collocazione ai giorni nostri forse fa perdere qualcosa della poetica realistica originale, il film riesce comunque a rendere perfettamente il clima torbido e perverso, la noia abissale (altro grande tema moraviano) dei personaggi, l’uso del sesso come balsamo al vuoto, la scelta della negazione  di fronte alla verità della vita, la rottura degli interdetti edipici come marchio privilegiato del crollo di una famiglia e di una società.

Rispetto al romanzo, il regista si concede una piccola licenza poetica di modificare leggermente il finale, senza però alterarne la sostanza: se nel romanzo la giovane Carla accetta passivamente di sposare Leo, nel film ne denuncia invece l’abuso sessuale, ma resta inascoltata. Il silenzioso pianto di Mariagrazia durante un amplesso, e la scena finale in cui Carla tenta di raccontare alla madre dell’abuso, sono i due momenti brillanti del film: essi per la loro intensa raffinatezza psicologica, valgono l’intero film. Nel primo si estrinseca con efficacia la vacuità del sesso quando non solo è disgiunto dall’amore, ma si fa merce di scambio per non perdere quanto si possiede; nel secondo, si manifesta quella che in psicoanalisi chiamiamo l’uccisione della verità. Si tratta del diniego, meccanismo che separa, come sappiamo, la perversione sia dall’incertezza dolorosa della nevrosi, che dalla certezza folle della psicosi. Nella perversione, invece, regna appunto il diniego, tutto diventa possibile, non c’è limite tra i sessi e le generazioni, non ci sono interdetti e tabù, l’altro è mero oggetto del mio godimento, in rituali opachi e ripetitivi che non cambiano mai. Nella cornice immutabile del lussuoso appartamento, i personaggi mettono in scena come in un teatro privato lo spettro delle loro perversioni e solitudini, in una totale vacuità del senso. Il tentativo di verità introdotto da Carla, denunciando l’abuso, incontra il diniego della madre: vestiti in maschera per andare a una festa, in una bellissima metafora, la madre e il fratello fingono di non averla sentita. Il suo dire, la sua denuncia, cade nel vuoto.

Cosa è l’indifferenza in psicoanalisi? Non è un termine che entri spesso nel nostro vocabolario tecnico. Potremmo dire che l’indifferenza è l’assenza di ogni pathos, l’assenza delle due pulsioni fondamentali che rendono la vita umana: l’amore e l’odio. L’indifferente non ama né odia l’oggetto, semplicemente lo disinveste, ossia non lo investe di alcun valore, di alcun desiderio. Se consideriamo il disinvestimento come una delle facce del negativo, una delle figure della pulsione di morte, l’indifferenza è dunque un equivalente di morte, una passione mortifera. Uccisione della verità come nutrimento della mente, e rottura degli interdetti edipici, e quindi dei garanti etici e psichici di una civiltà, paiono dunque essere gli assi psicoanalitici intorno a cui ruota il film; vertici che ne fanno, come detto, una vicenda universale e senza tempo.

Una nota sulla passività. Tranne Leo, tipologia psicopatica, tutti i personaggi sono passivi, scandalosamente passivi. Accettano il male, accettano il danno, pur di illudersi di essere amati, per non restare soli, per non restare poveri, per non assumersi responsabilità. Se un’opera d’arte ha tanto successo, è perché intercetta qualcosa di umano, qualcosa che è in tutti noi. C’è qualcosa di intrinsecamente umano nella passività, nel subire, nel lasciare che l’altro decida per noi, ci sollevi dalla responsabilità; pur eccessiva in questi personaggi, su questo versante li sentiamo vicini, affini: potrebbe capitare anche a noi. C’è qualcosa di intrinsecamente umano nella passività, lo intuisce Freud quanto postula il masochismo erogeno, lo riprende tutto un filone francofono cha va da Laplanche, a Aulagnier e ad altri che riconoscono nella passività la posizione ontologica  fondamentale dell’umano, la posizione con cui veniamo al mondo, inermi, gettati nelle mani dell’altro. Se questa passività fondamentale incontra, nella vita, una situazione contingente, un’epoca storica come il fascismo (o meglio, i fascismi, presenti in ogni tempo), ecco allora quell’arrendersi deresponsabilizzante, non per questo incolpevole, quel venire meno a se stessi e alla verità che segna, con tanta forza poetica, i personaggi de Gli indifferenti.

 

“Il fatto è, si può dire, che il piccolo essere umano è attaccato letteralmente dall’altro (…) c’è un elemento masochista che persiste”

 

(J. Laplanche, 2000, p. 23)

 

Riferimenti bibliografia:

Laplanche J. (2000),  Masochisme et sexualité. In: L’enigme du masochisme, Paris, PUF

Moravia, A. (1929), Gli indifferenti, Milano, Bompiani, 2016.

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