Cultura e Società

“Loro 2” di Paolo Sorrentino. Recensione di Amedeo Falci

23/05/18

Autore: Amedeo Falci

Titolo: Loro 2

Dati sul film: regia di Paolo Sorrentino, Italia, 2018, 100’

Genere: Commedia/Drammatico

 

LORO e gli altri.

Appaiono proprio alla fine, gli altri, con i titoli di coda in sovrimpressione. A sottolineare, da parte di Sorrentino: “ecco sono proprio questi i  ‘loro’ a cui dedico le scene finali”. Ribaltando lo sguardo del film. Non più ai potenti, ai prepotenti, ai vincenti – LORO –, ma è ai poveri Cristi del terremoto, dei baraccati, delle squadre di soccorso, agli ultimi, che dedico il mio film. Appaiono subito a seguito della scena di un Cristo che viene miracolosamente recuperato, sano, dalle rovine di una chiesa semi crollata (Che cos’è? “L’Italia che resiste”, di De Gregori? Dopo questo ventennio di Loro? Cristo è sempre tra i sommersi, i perdenti? Forse siamo sopravvissuti a ‘Loro. Sì, sembra di sì. Ma bisogna vedere se sopravviveremo al nuovo che sta avanzando!)

 

Sorrentino chiude così la seconda parte del suo film che ruota, forse con qualche giro a vuoto, sulla definizione del personaggio Berlusconi, tentando un recupero in extremis dell’altra Italia. Quella che Francesco De Gregori ha saputo cantare bene. “L’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare… con gli occhi asciutti nella notte scura… con gli occhi aperti nella notte triste…”. Recupero, come si suol dire, da cinema ‘civile’, ‘sociale’. Troppo tardivo tuttavia, e forse lievemente con una retorica da “politicamente corretto”, questo recupero de “L’Italia che non muore” (sempre De Gregori). Forse unica chiusura possibile e plausibile e riscattante, dopo un film difficile da portare a conclusione. Una seconda parte meno vertiginosa, meno psichedelica. Forse con un taglio più da fiction televisiva sul venditore talentuoso, sul politico cinico indolente onnipotente, sullo spregiudicato sultano con i suoi stuoli di odalische.

 

Riflettendoci, che cosa, in effetti, sembra giri a vuoto in questo “Loro 2”? La storia sia pur raccontata in modo spiritoso intelligente grottesco e iperbolico, mostra qualche incertezza, qualche lentezza, e forse noia, perché la storia del Cavalier B. ci è stata raccontata in mille versioni da giornali e televisioni. Ci è stata raccontata persino da lui, con il suo sfrontato esibizionismo e la sua incommensurabile tracotanza. Non c’è nulla che non si sappia da tempo, e c’è poco che possa sorprenderci. Semmai, potremmo dire, con rammarico, il film racconta molto meno di quanto non ci sia già noto.

 

Perchè il racconto sul Divo Andreotti ha funzionato più efficacemente? Perché di Andreotti non sapevano nulla, perché era un uomo dell’ombra, della disapparenza, della reticenza, dell’occultamento, se vogliamo; ed anche di collusioni (possibili) e baci (chissà) con la mafia appartenevano alle dicerie, al mai provato. Ben altra antropologia dell’esercizio del potere. Alla verginità casta e astinente di Andreotti, a una visibilità pubblica ascetica sobria e parca, nel giro di un decennio, si passava all’impudente sdoganamento dei desideri degli italiani (anche quelli, inibiti, di dire che il fascismo in fondo non era poi così male) mettendo in scena la propria disinvolta carriera, le proprie furbate, la propria ricchezza, i propri smisurati appetiti come paradigma esemplare e identificatorio del vero e più profondo carattere del popolo (italiano) delle libertà. La propria vita, il proprio successo, il visibilissimo opportunismo politico, il proprio italianissimo disprezzo delle regole e delle leggi, l’adorazione di una iconica ed eginetica moglie, inscindibilmente legato alla perenne compulsiva caccia di giovani adoranti e devote vestali del tempio. Tutto era stato già rappresentato nei palcoscenici mediatici della commedia all’italiana da vent’anni a questa parte. Il Cavaliere come riuscitissima e geniale, modernissima maschera del teatro (tragi)comico del Paese.

 

Quindi tutto un déjà vu. Qualcosa stanca, malgrado l’eccellenza delle inquadrature e il marchio del “Sorrentino style”. Qualcosa annoia persino nelle trame politiche per ritornare al potere, e nei siparietti con le ragazze. Le feste con le adoranti vestali sono più opache rispetto al turbinio orgiastico della prima parte. Il coretto ‘Meno male che Silvio c’è’ l’avevamo già sentito altrove fino allo stordimento. Forse si tratta in questo caso di voluta intenzione del regista di mostrare al pubblico, facendolo annoiare, il patetismo sentimental-canoro, il gusto rétro da pianobar delle performances del nostro, l’opulento squallore delle cene (al popolo medio-basso delle fanciulle, solo pizza e spumante, e ciondoli-farfalle acquistati all’ingrosso), la povertà dei discorsi, l’umorismo da ricconi al night club, quattro salti in discoteca, e il senso di stantio vecchiume dell’incontro tra dentiere e vergini.

 

In questa quasi noia, tuttavia spiccano delle perle.

Il dialogo con Ennio Doris, con Servillo duplicato, è una scena esemplare sull’argomento dell’altruismo come declinazione più perfetta dell’egoismo.

La conversazione telefonica con l’anonima casalinga è una estrapolazione  didattica dal noto ‘Manuale  del Perfetto Venditore’. E perfetto qui Servillo nell’incarnare, da vero interpretatore dei sogni, l’intercettazione quasi divinatoria dei desideri del popolo. “Ma chi è lei – dice la casalinga – come fa a sapere tante cose di me?”

Minimalista ma centrale la scena del dialogo di Lui con Stella (Alice Pagani, bravissima nel suo recitare a sottrarsi) che, unica, riesce a divincolarsi dall’avviluppo del grande lusingatore. Unica che riesca dire che il re è nudo: non in quel senso, ovviamente, ma nel senso che il suo alito è quello dei vecchi. ‘È un paese di incontri per vecchi’, si potrebbe dire, mutuando dal titolo del libro di Cormac McCarthy.

E’ bella l’intuizione sull’isolamento paranoide del potere, con la rivelazione del ruolo dell’enigmatico uomo in bianco, ombra del Nostro. Per un uomo così aperto e visibile – ma più che visibile, pubblico, ma più che pubblico al centro di un panopticon del sistema mediatico e mediatico-politico-circense per cui Lui è sempre sotto gli occhi di tutti, tutti vedono Lui, e tutti parlano di Lui – ecco che occorre qualcuno che si occupi del far sì che gli sguardi di chi lo vede non si incontrino mai tra di essi. Bisogna essere nella massima visiblità, essere il ganglio connettivo del Paese, essere lo Spirito Ottimistico del Paese, ma anche fare in modo che le persone con cui Lui si incontra non si incontrino tra di esse, fare in modo che A non incontri mai B, e che B non incontri mai E, e che E non incontri mai né  A né C, e così avanti. L’uomo in bianco è “solo un uomo asociale che può occuparsi delle incompatibilità del sociale”. Una visibilità smagliante e sfacciata è la buccia splendente del pomo d’oro che nasconde al suo interno barriere steccati divisioni e sepimenti. Segreti, soprattutto, perché le vere cruciali informazioni, non quelle da rotocalco rosa in pasto al voyeurismo paesano, sono quelle blindate e sotto controllo, che nessuno deve mai sapere. Un uomo ottimista gioviale e sorridente che guarda l’Italia, con un interno schermato oscuro e nero come la pece.

 

È inossidabile, è smagliante Lui, che non si piega dinanzi a nessuna critica, che anzi, le conosce tutte, una per una, e ne ride. Come quando il senatore deluso del centro-sinistra (Lorenzo Gioielli) sta per cedere, ma gli elenca tra i suoi scheletri anche lo stalliere di Arcore, in odore di Cosa Nostra; e Lui ride divertitissimo. Non si piega, non fa una piega. Non un dittatore che fa fucilare gli oppositori (li fa al massimo proscrivere dalle TV!), ma un grande e supremo Capo che sa ridere delle piccolezze dei suoi oppositori interni ed esterni. Un Capo che si sa divertire e sa godere della vita, alla faccia degli uomini della sinistra infelici, invidiosi e inibiti con le donne. Chi ricorda come in alcuni articoli dalle pagine de ‘Il Foglio’, raccolti poi nel noto volume collettaneo ‘Perversioni Estreme in Estreme Intelligenze’, Giuliano Ferrara, difendesse la filosofia libertina di Lui, come raffinato filtraggio di cultura illuministica approdata ad un maturo laicismo liberale, contro i parrucconi ipocriti moralisti chiesastici sessuofobi e infelici della sinistra? Mi chiedo solo: ma non ci sarà stata qualche confusione tra ‘libertinismo’ e ‘libertinaggio’?

 

Ma per un personaggio così complesso e forte e non facilmente riducibile a schemi ideologici, generoso nella sua tirannide, e italiano-brava-gente-pacca-sulle-spalle anche con i nemici, sempre stupidi e inferiori, che chiave di lettura avere? Qui Sorrentino la imbrocca bene. E in questi passaggi argomentativi, il film regge. Il Grande Venditore. Ecco un film dove è ben spiegato che saper vendere è saper interpretare, e saper interpretare è saper indovinare (e divinare, se vi piace). E saper indovinare è, a sua volta, indovinare un sogno che tu stesso hai già messo dentro all’altro. Saper vendere, quindi, ma esattamente che cosa?

 

Rispetto alle ovvie tentazioni dell’abusata categoria del narcisismo (già inflazionata), che categoria penseremmo per il nostro? Certamente qualcosa che potrebbe avere a che fare con un narcisismo grandioso. Tutto è dovuto rispetto alle supreme capacità di Lui, e tutti devono accettare l’affermazione del grandioso. C’è ma non basta. Potremmo pensare anche a un narcisismo esibizionistico-seduttivo. Tutti trovano affascinante quest’uomo che trasforma in sorriso simpatia e oro tutto quello che tocca. Ma neanche questo, da solo, basta.

E se fosse qualcosa ancora di diverso? Un narcisismo di chi si inventa un mondo a parte, reale, ed è il suo sogno,  ma illusorio ed impossibile per l’altro. Un mondo a parte, che comincia con l’immobiliare e finisce nella promessa di una nuova e più libera Italia (Forza). Un narcisismo che vede il proprio mondo illusorio come realtà e riesce anche a venderlo a un intero Paese (quasi). Ma vendere il sogno e alimentare i fake vanno di pari passo, forse sono la stessa cosa. In una recente intervista in TV, Sabrina Ferilli, dimostrando una grande acutezza e intelligenza, difendeva, dopo una storica militanza prima PCI, poi PDS, poi PD, il suo voto ad un movimento a molte stelle, dicendo che quello che il ‘partito’ aveva irrimediabilmente perso era la sua qualità di ‘partito sentimentale’. Perfetto. Bravissima. Come dire: se crollano i garanti sentimentali, qualcun altro inserirà i suoi mondi fittizi. E ci vorranno vent’anni per scoprire che erano dei fake.

 

Alla fine questo racconto sull’Italia di Lui rimane un film interessante, creativo e spiritoso,  basato più sugli aspetti grotteschi e divertenti dell’Uomo e dei Loro, che non su una riflessione politica. Indeciso sul registro, non ben amalgamato tra prima e seconda parte, tra inserti di costume e tentativi di una riflessione sul potere (come egregiamente fatto per il Divo Andreotti), tutto il discorso su BRLSCN rimane macchiettistico, fatto di anche brillantissimi inserti, di belle intuizioni visive, di un elegantissimo linguaggio filmico, ma sostanzialmente incompiuto.

Quasi a compensare questa carenza di un esplicito discorso di indignazione civile, ecco l’inopportuna e forzata la scelta di far pronunciare giusto a Veronica, nella scena della separazione, tutta la sintesi della pesante mole di accuse giudiziarie, politiche e etiche che una parte consistente del nostro paese ha mosso al Cavaliere da anni. Troppo e tutto insieme, il recupero di un J’accuse civile qui non funziona, sa di fiction TV.

Per quasi tutto il tempo il racconto è infatti una commedia brillante, anche perché la figura di Lui, chissà per quale motivo, non riesce ad ispirare affatto tragedia, pur avendo relegato l’Italia uno sfondo di tragedia. Per concludere un inconcludibile ritratto di ‘un Uomo = un Paese’, ecco che solo alla fine, il terremoto aquilano fa scomparire tutta la Costa Smeralda, le veline, gli intrallazzi, le menzogne, le trame romane. Scompaiono i Loro, e compaiono gli altri, gli sconfitti e i non visibili. Bene, ma non è troppo tardi?

 

Con la mente ad una recente riflessione sui tiranni – W.R. Newell (2016), “I tiranni. Bollati Boringhieri, 2018) – a che modello ci fa approdare l’operazione di Sorrentino, se volessimo accostare l’immagine di Lui ad un capo assoluto? Non ai ‘tiranni padroni della terra’, quelli che pensano che una nazione e uno Stato siano proprietà personale da sfruttare ad uso proprio, come la terra per un signore feudale – vedi molti dei tiranni africani moderni –;  non ai ‘tiranni millenaristici’, quelli che si sentono investiti da un diritto assoluto a imporre un regime utopico in cui, per il bene di tutti, libertà e diritti individuai devono essere aboliti – Hitler e Stalin sono i riferimenti d’obbligo –. Semmai Lui potrebbe essere riconsiderato, alla luce della sua parabola politica (ma, calma, non è affatto detto!) come uno di quei ‘tiranni riformatori’, che sebbene spinti da smisurata ambizione e megalomania e tracotanza senza limiti, pensano di essere portatori di un sogno di benessere e libertà e posti di lavoro per tutti, attraverso l’uso di un potere senza limiti e senza contrappesi! Questa è una opzione. Anche se credo che alla fine il film di Paolo Sorrentino, meno politico e più satirico, voglia inanellare un’altra tesi. Forse quella di un Signore con ambizioni di assolutezza, animato da smisurata ambizione e smisurato talento comunicativo, venditore di un mondo possibile ma non reale di libertà e benessere per tutti, filosoficamente sofista, con una propensione ontologica alla manipolazione del reale e alla propalazione di mondi fake, ma alla fine principalmente macchietta italiana orgogliosamente esibitiva di furbate, di tatticismi (senza strategie), di opportunismi, e infine di maschilismo tracotante e spavaldo, oltre i limiti della natura umana. Uno che sicuramente vorrebbe essere ricordato come un Uomo allegro positivo e ottimista, che si è costruito un impero dal nulla, e il cui solo difetto è avere smisuratamente amato, amato e amato (nell’ordine) Veronica, i suoi figli, (tutte) le donne, la sua azienda, la sua ricchezza, il potere, il suo Paese: l’ Italia.

Da vedere se non altro per la mostruosa bravura di Servillo, che qui, nella seconda parte, si affranca dalle sovrapposizioni con  Andreotti e Gambardella, e costruisce un memorabile e grandioso ritratto, in declino, delle Confessioni di una mente amorosa.

 

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