Cultura e Società

“After Love” di A. Khan. Recensione di M. Trivisani

8/03/22
"After Love" di A. Khan. Rc

Autore: Mirko Trivisani

Titolo: “After Love”

Dati sul film: regia di Aleem Khan, Gran Bretagna, 2022, 89’.

Genere: drammatico

Mary è sul traghetto, è ormai decisa ad attraversare quei pochi chilometri che separano due paesi, due mondi, due vite. La bianca scogliera inglese di Dover, vertiginosamente alta, invalicabile, capace di conservare la separazione con la minaccia della morte, del “volar via”, improvvisamente rovina verso il mare aprendo una breccia. Solo Mary sembra udire il rumore sordo ed inquietante del crollo.

Le legioni romane accampate al nord della Francia chiamavano Albione, forse proprio dal colore bianco di quella costa, quel vasto territorio ancora sconosciuto, barbaro nel senso di straniero, estraneo. Il giovane Aleem Khan, scrittore e regista di origine anglo-pakistana, con il suo film di debutto, “After Love”, racconta con delicatezza ed intensità dell’impatto con l’ignoto, con la parte sconosciuta dell’Altro. 

Mary, una straordinaria Joanna Scanlan, riteneva di conoscere pienamente suo marito, l’uomo di origini pakistane di cui si era innamorata ancora giovanissima e che le è stato accanto per l’intera vita. Dopo la sua morte, tuttavia, scopre un vasto territorio della vita del marito a lei ignoto. Territorio delimitato nel film, concretamente, dall’alta scogliera e dallo stretto Canale della Manica. È decisa a raggiungere quel territorio, a conoscerlo.

In quel luogo ignoto, dove anche la lingua è diversa — siamo sulla costa francese, — trova le tracce che suo marito ha lasciato, o meglio le tracce di un uomo che scopre completamente diverso da quello che lei riteneva di conoscere. Scopre un uomo che non osservava i dettami religiosi che invece praticava al di là della scogliera, un uomo che aveva una lunga relazione con un’altra donna, laica e francese, con la quale aveva avuto un figlio ora adolescente. Tre dolorosi lutti si sommano in Mary, un lutto antico, la perdita del suo unico figlio a pochi mesi di vita, la recente morte del marito e la perdita dell’illusione di averlo pienamente e completamente conosciuto. L’ultimo messaggio che il marito le ha lasciato in segreteria, da lei ascoltato ripetutamente, funge da momentaneo rifugio nella parte a lei familiare del marito, e rende più tollerabile l’impatto con l’ignoto che scopre nell’uomo con il quale ha condiviso la vita. I lunghi silenzi di Mary, intesi e vibranti, la musica inizialmente solo accennata e le inquadrature, che per la prima parte del film permettono solo a Mary di abitare lo spazio scenico, accompagnano il delicato e doloroso percorso di scoperta della protagonista. Gradualmente, man mano che Mary prende coscienza dell’ignoto che era in suo marito, la musica inizia a prendere forma e le inquadrature fanno spazio agli altri due personaggi, provenienti dalla parte sconosciuta del marito, l’altra donna, Genevieve, e suo figlio Solomon.

Il film narra del crollo dell’illusione di conoscere l’Altro in tutte le sue parti, del riconoscimento pieno dell’alterità. Forse, i territori oltre la scogliera rappresentano la psiche dell’Altro, sconosciuta o solo parzialmente conoscibile.

Mary racconta all’altra donna, a Genevieve che, quando ha incontrato suo marito ha fatto per lui “qualcosa che nessun altra donna avrebbe fatto”, è diventata lui, ne ha assunto l’identità culturale, linguistica, religiosa. In un passaggio significativo del film la protagonista, mentre abita il territorio prima sconosciuto, la camera da letto di Genevieve e del marito, è colta dalla stessa tentazione, diventare l’altra donna, diventare Genevieve. Gaddini (1969), nell’ambito di un percorso evolutivo che conduce verso il pieno riconoscimento dell’oggetto, identifica una fase iniziale precedente ai fenomeni di introiezione ed identificazione che definisce “imitare per essere” il cui fine “sembra essere quello di ristabilire in modo magico e onnipotente la fusione del Sé con l’oggetto” (p. 163). Secondo l’autore i fenomeni imitativi “portano a ciò che si potrebbe correttamente definire come un’identità vicaria, magicamente acquisita attraverso l’imitazione” (p. 167). Mary, nonostante i fenomeni imitativi che ha attraversato e che è tentata di riattraversare, in una scena intensa in cui guarda e manipola il suo corpo davanti allo specchio, sembra riuscire a tramutare le due domande iniziali, “chi era mio marito?” e “chi è l’altra donna?” nell’interrogativo cruciale, “chi sono io?”, riconoscendo quindi l’estraneo e l’inconoscibile o solo parzialmente conoscibile che è in lei.  

Bibliografia

Gaddini E. (1969) Sulla imitazione. In Gaddini E. Scritti. 1953 – 1985. Raffaello Cortina, Milano, 1989.

Febbraio 2022    

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