Cultura e Società

Caos calmo

1/06/08
Sulla difficoltà di fidarsi del tempo

  

Dicono che c’è un tempo Per seminare E uno più lungo per aspettare Io dico che c’era un tempo Sognato Che bisognava sognare (C’è tempo-Ivano Fossati-2003)

   

Perché ho così tanta fretta di scrivere questi pensieri dopo aver visto il film Caos Calmo?

Non c’è una contraddizione tra quello che ho in mente di dire e questa frenesia, questo vorticare di pensieri che mi portano in un’altra direzione, come a smentire quello che dirò?

È vero, so che forse altri vorranno dire delle cose, che potrebbero arrivare prima…ma questa non è una gara, una volta tanto, c’è spazio per tutti, magari si fa un dibattito, ci si confronta, ci si dà del tempo…il tempo, appunto, questo tempo che mi sembra così importante considerare e pensare.

Va beh, mi sono già abbastanza svelato. Credo possa bastare. Forse questo film parla anche di me, ma forse di tutti noi!

Ho conosciuto il libro di Sandro Veronesi solo pochi mesi fa (grazie Cristina, Arianna e Marcello…) ed ho potuto leggerlo letteralmente d’un fiato durante le ultime vacanze di Natale. Come si vede il tempo, quello a disposizione per leggere in questo caso, è diventato subito determinante nel mio rapporto con il testo. Durante la lettura sono venuto a conoscenza del fatto che era in preparazione un film tratto dal romanzo e che Nanni Moretti ne sarebbe stato il protagonista, senza esserne il regista.

Ho amato molto il libro, l’ho trovato travolgente, geniale, intuitivo, sottile ed intenso. Forse proprio in quel momento è nata l’idea di provare a scriverne qualcosa. Ho aspettato il film, conscio che il mio linguaggio ed il mio approccio si avvicinano molto di più allo strumento visivo che a quello letterario.

La prima questione che mi sono posto, quindi, è stata quella dell’opportunità o meno di fare confronti o parallelismi tra il libro ed il film. È noto che quando si va a vedere un film tratto da un libro che si è già letto ed apprezzato diventa facile essere delusi. La complessità della scrittura, quella di questo libro in particolare, diventa penalizzante per il cinema, il quale usa un linguaggio che potremmo definire più semplice e diretto. La sfida infatti consiste proprio nel saper rendere le stesse sfumature del testo attraverso le immagini, le parole, la musica ed i suoni. Inoltre, durante la lettura noi possiamo astrarci, fermarci, divagare e poi riprendere il compito senza perdere il senso del testo, o magari, addirittura rileggere un passaggio più o meno lungo. La prima visione di un film ci obbliga ad un rapporto molto più immediato e basato sul coinvolgimento emotivo. Così io mi sono trovato a vivere la visione del film ed il libro è rimasto sullo sfondo pur con tutte le sue suggestioni.

L’altra questione che mi sono posto, dal punto di vista cinematografico, è stata relativa a quale Moretti mi sarei trovato di fronte (un Moretti che ha fortemente voluto questo ruolo, pare addirittura autocandidandosi presso la casa di produzione, e in ogni caso collaborando alla sceneggiatura); mi chiedevo quanto avrebbe influenzato il film, la sua percezione e la stessa valutazione. Insomma (come dice Nanni nel tipico intercalare di molti romani), avrei visto un film “con” Moretti o “di” Moretti? In realtà anche questo inghippo è stato facilmente superato, dato che fin dalla lettura del libro mi è sembrato che il personaggio di Pietro Paladini potesse sovrapporsi magicamente ai tratti cinematografici di Michele Apicella, alter ego di Moretti nei film.

 

Mi sembra molto chiaro come le interferenze, meglio sarebbe dire inferenze, siano state numerose e significative nel tempo dell’attesa. Anche per chi si è messo a leggere questo testo, in realtà!

Parliamo del film e del libro, o meglio ancora della storia, allora  e finalmente…

Pietro (lo stesso nome del figlio di Moretti…), anche se lo verremo a sapere solo dopo, è un brillante uomo di mezz’età, è in vacanza, sta al mare che adora e sta giocando in spiaggia con suo fratello come un ragazzino che un pò non si impegna, un pò si lamenta perchè l’avversario a suo avviso sta barando, un pò ci tiene a non perdere. A casa ha una figlia ed una compagna che di lì a pochi giorni sposerà. Non sappiamo se questa separazione di luoghi ed attività sia casuale o abituale. Forse a posteriori le sue scelte sarebbero state differenti. Infatti, mentre lui ed il fratello, un pò casualmente, un pò per sfida, un pò per altruismo, salvano due donne che stanno affogando, senza neppure ricevere i ringraziamenti loro o degli altri bagnanti, a casa la sua compagna muore di colpo davanti agli occhi della figlia.

“Dov’eri papà, dov’eri? Ti ho chiamato due volte!” gli dice la bambina correndogli incontro al suo arrivo a casa. Perchè Pietro non si precipita sul corpo della moglie? Perchè non si dispera, perchè non urla, non impreca, non reagisce? Forse è un segnale dell’assetto emotivo di quest’uomo, forse è già in atto la reazione post traumatica, quella specie di congelamento emotivo che sembra impossessarsi del suo cuore e dei suoi pensieri. Non credo che sia così importante questa differenza: ora è così!

Un funerale, lo stridente contrasto tra la vita, la propria e quella altrui, che continua ed il rito di un passaggio che non si vorrebbe mai celebrare. Dopo la cerimonia, al cimitero, inizia una sequenza di abbracci, che è un gesto significativo  che percorre la storia. Gli amici, i parenti ed i conoscenti cercano di consolare Pietro, gli fanno le condoglianze, a loro modo gli sono vicini…ma lui li sente?

La vita ricomincia, quindi, deve ricominciare; c’è una figlia da accudire, un lavoro da proseguire…Come è diversa questa ripresa da quella dello psicoanalista di “La stanza del figlio”. Là il dolore era uno strazio indicibile ed insopportabile, a fatica tenuto a bada e gestito. Qui è un sordo e muto brontolìo sotterraneo.

Il lavoro è il solito, ma in realtà Pietro non sembra curarsene più tanto: è disattento, non prova partecipazione e coinvolgimento per quanto di importante sta accadendo nella sua azienda. In un’altra stanza, in un altro ufficio, sua figlia, Claudia, sta giocando con la segretaria. Un puzzle, dei pezzi da cercare per comporre qualcosa, per cercare di rimettere insieme delle tesserine sparse e ricomporre un’unità ed una integrità per sempre scompaginate. Non è solo in questo compito, ma Pietro non riesce ad apprezzare l’aiuto che, più o meno consapevolmente, gli altri gli danno. La bambina ha uno zaino per ritornare a scuola dopo l’estate ed il papà sembra stupito che lo stesso sia vuoto. “I libri li prenderemo a scuola”, dice Claudia. È la vita quotidiana che ci riempe ed appesantisce, che ci carica le spalle di fardelli da trasportare, sembra dire la storia di questo film.

Quanti uomini ho conosciuto, brillanti professionisti, piacevoli uomini di mondo, instancabili lavoratori, curiosi esploratori della vita, ricchi e fortunati passeggeri di questo viaggio terreno, che, improvvisamente, si sono trovati catapultati in un’altra dimensione vitale. Non è la morte con la quale si sono dovuti confrontare, non quella ufficiale e certificata che tutti conosciamo. È la fine metaforica, la fine di un certo modo di essere, forse un risveglio in realtà, dentro ad un’esistenza troppo spesso data per scontata unitamente ai rapporti ed alle persone che l’hanno popolata.  Spesso è proprio un’altra donna quella che compare nelle giornate un pò ripetitive e stereotipe, così come la donna da salvare, quella donna capace di provocare in Pietro un’erezione inaspettata e clandestina. Nella realtà, così come in Caos Calmo, la sensazione è quella di non riuscire a tenere insieme la donna che si ama, la propria compagna, e la donna che improvvisamente, come Venere che esce dal mare, si materializza ad un certo punto della vita. Qui addirittura una delle due muore.

La costruzione narrativa in questo caso trova ed inventa una soluzione all’inghippo ed al dilemma vitale.

“Io sto qui. Finchè non esci io sarò qui ad aspettarti…”. Sembra un gioco all’inizio, una boutade, una brillante idea di questo brillante e creativo individuo, quasi una trovata pubblicitaria, una geniale operazione di marketing. Claudia non ci fa troppo caso, forse neppure gli crede fino in fondo, lo ascolta un pò distratta, se ne va, vuole entrare a scuola con le sue compagne.

Sembra essere un’idea per la prima giornata di scuola. In realtà è la vera svolta nella elaborazione del lutto e nella vita di Pietro. Pietro decide di darsi del tempo. Forse per la prima volta nella sua vita. Si ferma ed inizia a pensare.

Sandro Veronesi ha scritto, in un articolo giornalistico successivo al libro, che ha definitivamente capito il senso del libro che stava scrivendo un giorno nel quale, durante una pausa nella scrittura, è sceso al bar sotto casa per prendere un caffè: si è reso conto che la maggior parte dei caffè che prendeva nella giornata erano assunti per abitudine, per automatismi. Si è fermato, non è entrato nel bar, ha fatto altro, ha continuato e finito il libro.

Mi vengono in mente altri uomini, conosciuti come pazienti. Hanno tutto. Un lavoro, una famiglia, una moglie, dei figli, il benessere. Ma, dei figli non riescono a raccontarci nulla, la moglie viene tradita, il lavoro è privo di valore intrinseco, i week-end sono riempiti da svariati impegni ed attività, devono leggere 5 libri per volta: hanno “l’horror vacui” e attendono solo di raggiungere i 45 anni per potersi riconvertire.

Pietro Paladini decide a 43 anni di fermarsi su di una panchina, dentro una macchina, in un parco.

In realtà non si rinchiude dentro ad un oggetto od uno spazio inanimato. Piuttosto, fa suo lo spazio nel quale si colloca e del quale prende possesso. È una sorta di piazza, di campo, non uno spazio virtuale, bensì un luogo popolato di personaggi, di piante, di mamme, bambini, maestre, baristi, clienti, vigili, automobilisti, abitanti, tutti spettatori della sua nuova ed inaspettata scelta di vita.

Improvvisamente, la vita inizia a scorrergli attorno in maniera differente ed inizia a pensare.

Forse, la vita finora gli è davvero passata accanto troppo velocemente, troppo piena. Si tratta ora di ritrovarla e di riafferrarla. Non attraverso la perfezione assoluta di cui parla la figlia: lei la sta cercando negli esercizi di ginnastica artistica. La perfezione che i genitori spesso chiedono e  che cercano nei figli. I quali, a loro volta, sono sempre più esasperatamente alla ricerca di un senso in quello che fanno. Pietro ricerca, in maniera ossessiva,  gli elenchi, minuziosi, precisi, perfetti appunto. Quante linee aeree utilizzate, quante donne avute, quante case abitate, quante cose non ha saputo e conosciuto di Lara. Cose e persone, un passato perduto e lontano da recuperare.

Tra gli spettatori la ragazza con il cane, Jolanda, è una specie di io osservante. È bella, altera, incuriosita da quest’uomo che occupa una spazio che, forse, sentiva essere quasi esclusivo per sé e per il suo cane. Pietro in altri tempi probabilmente l’avrebbe avvicinata, magari corteggiata. Ora la guarda da lontano, sapendo a sua volta di essere da lei guardato, controllato e studiato. Solo alla fine si presentano, ma già da tempo si conoscono.

Un ragazzino Down diventa invece la prova che è ora capace di guardare il mondo che gli passa attorno. Il gesto automatico di chiudere l’auto con il telecomando, producendo il lampeggio dei fanali, diventa per il ragazzo un segnale di saluto a cui risponde. Pietro se ne accorge e non ci sarà giorno nel quale non mancherà a questa sua speciale missione, anche da lontano, anche se preso da altri interessi.

La panchina diventa così la figura metaforica di questa nuova dimensione. È facile il rimando alla funzione della panchina nello sport di squadra. Luogo nel quale stare ad aspettare, membri della squadra, ma non in campo, in attesa, spesso vana, di entrarci. Sorta di luogo e spazio transizionale, dove si cresce anche facendo panchina, appunto.

Il fermarsi diventa qualcosa che colpisce gli altri, che li incuriosisce, addirittura che fa diventare popolari, anche più del fratello stilista. Lo spazio conquistato da Pietro diventa così rapidamente una sorta di Speakers’ Corner di Hyde Park. Piano, piano, ma sempre più frequentemente, inesorabilmente quasi, arrivano varie umanità, attratte come da una carta moschicida o da una potente calamita. Davvero sembra che lo scoprire che qualcuno si è fermato sia sufficiente per aprirgli intorno una sorta di fiducia e di credito personale. Alcuni sono preoccupati e lo prendono per matto, ma in realtà sembrano avere un disperato bisogno di qualcuno che stia lì.

Non è che Pietro dica o faccia molto, in realtà. Soprattutto ascolta. E non è poco!

È un pò come il nostro mestiere. A volte passiamo intere sedute solo ad ascoltare. Sembrerebbe un pò poco per essere anche remunerati…in realtà nel nostro ascoltare si creano anche le condizioni per essere visti e soprattutto riconosciuti…e forse ai più questo basta!

Ho incontrato casualmente in montagna un amico di mio figlio con un suo compagno di scuola, il quale, il giorno dopo, mi ha descritto come molto simpatico. “Ma papà, cosa gli hai detto?”, mi chiede mio figlio un pò preoccupato e timoroso. “Niente. Credo solo di averlo salutato e considerato…forse è bastato per farlo sentire qualcuno…e far sentire me come simpatico” dico io.

E in questi incontri, alla fine o all’inizio degli stessi, inizia una lunga ed interminabile sequenza di abbracci tra Pietro ed i diversi personaggi che lo vanno a trovare ed a parlargli. E sono così diversi dagli abbracci forzati ed un pò imbarazzati del funerale. Sono abbracci affettuosi, consolatori, appassionati ed intensi. Forse il calore può nuovamente o per la prima volta trovare spazio nell’animo di quest’uomo così provato. Ed egli riesce a trasmetterlo agli altri per davvero.

Un abitante di una casa della piazza, invece, lo inviterà verso la fine a mangiare un piatto di pasta cucinato da lui. Anch’egli ha perso la moglie tempo fa, ha reagito, ha imparato a farsi da mangiare, ora nutre Pietro, prima di traslocare altrove.

Quando Pietro, invece, cerca di uscire dalla piazza/campo che ha delimitato la sua vita attuale, sembra perdersi. Va ad una conferenza sul lutto, ha bisogno del navigatore satellitare, è disorientato, si angoscia, si confonde, sviene. Durante il viaggio di ritorno, nelle luci della notte cittadina (sembra una citazione da La stanza del figlio quando va al Luna Park) si ferma nella “sua” piazza, guarda l’edificio scolastico vuoto ed incombente e scoppia a piangere.

Passa anche l’amicizia in quella piazza, quella vera e quella immaginata o più comodamente pensata. Gli uomini, i colleghi in particolare, si dicono amici tra di loro, ma le vicende che raccontano non sembrano dare una reale conferma al sentimento. Gli stessi sentimenti ed affetti sembrano incerti. Francesca, la nuova compagna di Jean Claude, sembra non rendersi conto delle frasi che pronuncia, di quello che dice e di quello che non dice. È la falsità che viene messa in scena o è l’inconscio che le fa dire quello che davvero pensa? Nessuno può dare una risposta certa al quesito.

Infine arriva la passione, l’erotismo sia ben chiaro, non l’amore. Lo stesso che ha fatto eccitare Pietro durante il salvataggio in mare e che ora si ripresenta nei confronti della stessa donna salvata e rincontrata. Da questo passaggio, intenso, forte, un pò crudo, ma necessario, sembra che la vita possa davvero riprendere. Certo c’è anche il potere, il dominio ed un pò di sopraffazione in questo passaggio. Lo stesso potere al quale Pietro rinuncia, lasciando cadere e non raccogliendo le lusinghe dei nuovi capi che gli propongono ruoli, stipendi e benefit da capogiro.

Alla fine è Claudia a rivelarsi più matura del padre. Quasi lo schianta con un’osservazione ed una richiesta affettuosa: “Gli altri mi prendono in giro perché tu sei sempre qui, sai sono dei bambini”, e quindi lo salva, forse lo libera dal suo ruolo. Il tempo dell’attesa e della sosta, sembra dire, è ora finito.

Pietro può lasciare la scuola, la piazza e la panchina e l’auto se ne va.

 

È una storia maschile, è una storia sulla complessità, è una storia come l’ho vista io…

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