Cultura e Società

“Cento domeniche”di A. Albanese. Recensione di R. Valdrè

5/01/24
"Cento domeniche"di A. Albanese. Recensione di R. Valdrè

Parole chiave: Cinema sociale, Crollo narcisistico, Fiducia, Società

Autore: Rossella Valdrè

Titolo: “Cento domeniche”

Dati sul film: regia di Antonio Albanese, Italia, 2023, 94′

Genere: drammatico

La vita di Antonio Riva, operaio in prepensionamento protagonista dell’ultimo film di Albanese “Cento domeniche”, scorre tranquilla fino ad un certo punto: una vita sobria, onesta, che ha conosciuto le sue fatiche e le sue piccole soddisfazioni. Separato ma in buoni rapporti con l’ex-moglie, i carissimi amici alla bocciofila, il forte legame con la fabbrica tanto da andare ancora, gratuitamente, ad insegnare ai nuovi assunti; una madre anziana e malata di Alzheimer da accudire e sporadici incontri con un’inutile donna sposata.

Ma il sogno di Antonio è di regalare, quando sarà il momento, un bel matrimonio alla figlia Emilia. Il gioco è condiviso: anche Emilia sa che ne farebbe felice il padre, pur non avendone strettamente bisogno sul piano economico, perché è una bella figlia autonoma, affettuosa, grata di quello che ha ricevuto.

Quando il momento arriva, Antonio va in banca, nella filiale di paese che frequenta da una vita e dove tutti si conoscono, a ritirare i soldi messi da parte, ma non li trova più: i risparmi di una vita investiti in obbligazioni sicure che la banca gli aveva consigliato, sono diventati “azioni” e azioni nulle, volatilizzate da qualche oscura crisi societaria. Il film, e la vita di Antonio, cambiano repentinamente; quel piccolo, sicuro universo di fiducia e onestà (nell’altro, nel lavoro, nel sistema) crolla improvvisamente. Antonio non capisce perché, cosa abbia fatto; lui si era solo fidato dell’impiegato di banca, ma le politiche delle banche sono cambiate, agli sportelli troviamo sempre persone diverse di modo che non si crei più quel rapporto fidelizzato, a volte amicale, che si instaurava un tempo. Ora un cittadino perbene, un lavoratore qualunque, andrà a nutrire le statistiche dei poveri, di quelli che con insopportabile retorica la politica definisce “quelli che non arrivano alla fine del mese”.

Ho sempre amato Antonio Albanese, le caratterizzazioni umoristiche e intelligenti dei suoi personaggi così irrimediabilmente italiani, la satira mai violenta, la coerenza tematica; ma di questo film gli sono proprio grata. Un film necessario per un cinema, quello italiano, che sembra aver dimenticato, o non sa rinnovare, la tradizione d’oro del Neorealismo. Manca in Italia un Ken Loach, o l’equivalente dei fratelli Dardenne in Belgio o di Aki Kaurismaki in Finlandia; manca, cioè, un cinema sociale, civile, che denunci, che racconti la vita di quella (vasta) parte di popolazione che non possiede ville al mare, non fa l’influencer o lo youtuber, non vive nei loft milanesi e che, malgrado tutto, non aspira a niente di tutto questo.

Una parte di Paese perbene, che si fida delle competenze, coltiva l’amicizia, non disprezza il lavoro in fabbrica, non ha orrore dei vecchi, non invidia i ricchi; non c’è stupidità nella vulnerabilità di Antonio, nel suo essersi fidato della banca, anzi: come diceva Montesquieu, coloro che hanno un grande spirito spesso lo hanno ingenuo.

Si intuisce che l’identificazione del regista Antonio con l’Antonio a cui dà corpo e voce è intensa, benché misurata: Albanese conosce quella provincia lecchese da cui proviene, una provincia ricca nel ricco Nord, tale grazie proprio al lavoro di piccole industrie dove un tempo era un onore lavorare, e oggi non più, oggi “non si trova manodopera”, dicono gli imprenditori.

La storia assumerà un inevitabile decorso tragico. Antonio è colpito non solo da un crollo economico, ma da un assoluto crollo narcisistico: regalare il matrimonio alla figlia rappresentava sia un atto d’amore sia la proiezione d’un riscatto sociale sull’oggetto più amato, il senso di non aver avuto una vita inutile, d’aver creato qualcosa di buono che gli sopravviverà. Non si deve sottovalutare quanto valore può avere, per famiglie working class, la realizzazione di figli che sarà migliore della loro; il successo, piccolo o grande, di questi figli li ripaga di quelle “cento domeniche” passate a lavorare.

Ritratto realistico e amaro di una piccola Italia che rischia di scomparire, “Cento domeniche” coinvolge lo spettatore per la sua tensione crescente e misurata, per la coerenza e la perfetta interpretazione del personaggio, l’uomo qualunque, inerme di fronte a truffe abilmente occultate, che paradossalmente sembra diventato colpevole dell’essersi fidato.

Privo di enfasi e vittimismo, il film affida il percorso psicologico del personaggio alle parole scarne, la semplicità dei gesti, delle abitudini, allo sguardo attonito, la rabbia inascoltata, il collasso di ogni senso di etica e di giustizia. Ad Antonio forse non importerebbe essere diventato del tutto povero, ancora più povero di quanto già non fosse; la perdita irrimediabile è quella fiducia e del dono mancato.

È augurabile che Albanese prosegua in questo ben calibrato realismo sociale che impernia vicende collettive su un unico personaggio, in qualche modo erede di “Un borghese piccolo piccolo” (Monicelli, 1977) e “Mamma Roma” (Pasolini, 1962), personaggi tragici perché ingenui, buoni, privi di astuzia, senza denaro e senza illusioni che non siano quelle di vedersi riscattati attraverso il figlio.

Non si esce dalla sala solo con un senso di pena profonda; aveva ragione Montesquieu, c’è qualcosa di nobile in queste anime candide.

Gennaio 2024

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