Cultura e Società

“Io capitano” di M. Garrone. Recensione di L. Colombi

5/09/23
"Io capitano" di M. Garrone. Recensione di P. Santinon

Autore: Laura Colombi

Titolo: “Io capitano”

Dati sul film: regia di Matteo Garrone, Italia, Belgio 2023, 121’, Leone d’Argento per la Miglior Regia e Premio Mastroianni per miglior attore esordiente

Genere: drammatico

Un film necessario. Questo in sintesi quello che ho sentito, prima ancora che pensato, dopo aver visto il film di Garrone “Io Capitano”. Una standing ovation di dieci minuti alla fine della proiezione, un Leone d’Argento all’80°edizione della Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia, una risposta positiva della critica estera e italiana, testimoniano già di per sè la qualità e lo spessore del  film.

Un film che per contenuto e forma ha un impatto davvero unico e imperdibile. Il progetto fotografico merita una nota particolare, per la capacità di trasmette coinvolgimento senza sovrapporsi all’attenzione sugli esseri umani e la colonna sonora, con il suo forte potere evocativo che unisce tradizione e attualità, assume la funzione di vero e proprio commento musicale. Le critiche e recensioni che ne hanno accompagnato l’uscita hanno messo a fuoco e commentato i molti motivi per cui vedere questo film: un “film politico, ma non ideologico”, con una “grande portata emotiva” e “un cast di attori in grado di rendere il progetto autentico in ogni fase del suo audace viaggio”. Un film con una “forte onestà intellettuale e progettuale”, in cui la regia compie “la scelta di limitare la propria autorialità”, a favore della scelta di “identificarsi con lo sguardo dei protagonisti, evitando qualsiasi atteggiamento predicatorio”. Un’opera che, aspetto specifico del cinema di Garrone, “sconfina nell’arte e nella fiaba e in cui il regista si rende illustratore di un libro di avventure”

Io capitano” èun film capace di narrare in modo toccante, lieve e drammatico allo stesso tempo, il viaggio – tra realtà e sogno –  di due giovani migranti dal Senegal fino all’Italia. Un viaggio (ispirato dalla storia vera di Fofana Amara e costruito insieme a chi ha fatto veramente quel viaggio) narrato con un’angolazione in controcampo, che fa immergere lo spettatore in un punto di vista totalmente intrinseco a chi la storia la vive in prima persona. Una partecipazione empatica che richiama l’esperienza partecipativa nella stanza d’analisi.

La trama è semplice. Seydou e Moussa, due cugini sedicenni molto legati, vivono a Dakar con le rispettive famiglie, affettuose, modeste, ma non disperatamente povere. Vanno a scuola, hanno amici, scrivono canzoni e, affascinati da una globalizzazione che propaganda un’Europa mitica, sognano di andare a veder dal vivo quel “paese dei balocchi”, nella speranza di poter avere successo e diventare  star della musica (“sarai tu a firmare gli autografi ai bianchi” dice Moussa al cugino). Così, di nascosto alle famiglie, pianificano per mesi un viaggio che intraprendono, nonostante la disapprovazione materna e i racconti di chi ha già conosciuto quell’orrore e sa come vanno le cose. Ma quello che li attende si rivelerà essere molto più del viaggio avventuroso immaginato, sarà invece una drammatica odissea tra truffatori, violenze, mafia libica, torture e cinismo disumano degli scafisti.

Una storia legata all’attualità, narrata allontanandosi dallo stile del docu-film e avvicinandosi a quello di una “fiaba nera”, nel miglior stile di Garrone, regista unico nella sua capacità di guardare l’altro con un taglio neorealista (gli attori, perfetti, quasi mai professionisti) ma intrecciato al magico, al fatato, all’onirico. Una sorta di neo-realismo magico che Garrone ha sviluppato negli anni e che in “Io capitano” si inserisce in modo magistrale nei momenti di maggior tensione emotiva, trasfigurando il dramma e permettendo alla spettatore di vivere, come il protagonista Seydou, il sollievo dell’uso della fantasia e del sogno quando la sofferenza supera la soglia del sopportabile e la realtà si fa troppo distruttiva e crudele: la scena del volo della donna nel deserto come fantasticheria che tenta un’elaborazione di un’esperienza troppo traumatica, lascia una profonda traccia emotiva; quella di Seydou che, provato dalle torture, sogna un ritorno a casa anche riparativo del vissuto di disobbedienza, tradimento, compiuto verso i legami familiari, ci immerge nella potenza fantastico-trasformativa dell’onirico.

E proprio come un sogno, anche un film non può che essere letto da una prospettiva soggettiva, fatta di risonanze associative personali che ne orientano la visione. Ho scritto all’inizio di queste mie note “un film necessario” e riprendo ora in chiusura i motivi per cui, dal mio punto di vista, la visione di questo film, oltre che emotivamente e mentalmente profondamente nutritiva, è anche necessaria. Trovo che sia necessaria perché il film è capace di far emergere, con un’intensità priva di moralismo, una dimensione etica che pone in primo piano valori portanti della relazionalità umana. Valori che una cultura attuale (soprattutto occidentale) chiusa nel proprio egoismo e incline a “lavarsi le mani” di fronte a realtà scomode, tende a dimenticare a favore di tematiche di evasione, o intellettualizzate o confezionate con tecnicismi che catturano l’occhio, ma lì si fermano. “Io Capitano” è un film “tridimensionale” che va visto non solo come messa a fuoco di ciò che sta dietro all’orrore di questo contemporaneo olocausto, ma cogliendo anche un altro discorso: quello che pertiene alle radici della crescita soggettiva e ai “fondamentali” della psicoanalisi. Garrone dà allo spettatore la possibilità di vedere in filigrana come l’odissea di Seydou e Moussa– il viaggio è anche un viaggio di formazione identitaria – può essere vissuta (e portata a compimento) anche per il sostegno interno che è stato loro fornito da  buone esperienze relazionali costitutive del loro essere. La matrice è un materno fertile, forte e vitale (bellissime le scene dei momenti di scambio visivo – rispecchiamento si potrebbe dire – e parlato tra Seydou e la madre). Un’esperienza con il materno capace di favorire legami (da qualunque vertice psicoanalitico li si intenda), capace di gettare le basi per lo sviluppo di quella curiosità che alimenta  la ricerca di un proprio “luogo in cui vivere”, capace di far nascere quel senso di gratitudine che sta alla base del rispetto dell’altro, della solidarietà, della responsabilità, dell’amore. In questo terreno interno si attua l’incontro di Seydou con il compagno di carcere/ igura paterna che introduce il tema dell’incontro con una terzietà capace di proteggere, insegnare ma anche favorire la necessaria autonomia personale, laddove i semi gettati abbiano fruttificato. Identificazioni, esperienze, che coinvolgono profondamente anche lo spettatore, che non può non sentire sulla propria pelle la tensione di Seydou schiacciato dalla responsabilità della guida di un barcone fatiscente dalle coste libiche verso l’Italia con a bordo duecentocinquanta persone stipate come bestie (fantastica l’immagine-miraggio delle piattaforme) e non può non partecipare emozionalmente con commozione al suo urlo di gioia  catartico: “Io capitano, io capitano, io capitano…” 

Il film ci invita anche a chiederci se  la possibilità di comprendere la simultanea distruzione e il going-on-being dello psiche-soma, non poggi anche sulla forza strutturante di quei valori umani che Garrone ha saputo richiamare con il film “Io capitano” e che, ahimè, un certo clima contemporaneo sembra invece dimenticare. 

Settembre 2023

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