Cultura e Società

“Killers of the Flower Moon” di M. Scorsese. Recensione di A. Falci

6/11/23
"Killers of the Flower Moon" di M. Scorsese. Recensione di A. Falci

Parole chiave: Capitalismo, Donne, Famiglia, Violenza, Razzismo

Killers of the Flower Moon

Autore: Amedeo Falci

Titolo: “Killers of the Flower Moon”

Dati sul film: regia di Martin Scorsese, USA, 206′.

Genere: storico, drammatico

Il western di Scorsese

Preceduto da un battage médiatique che lo ha annunciato come il “capolavoro” di Martin Scorsese (forse come omaggio ai suoi 81 anni), il film – al pari di Gangs of New York (2002) – pur di forte ispirazione e passione cinematografica non appare pienamente riuscito, addirittura straripante rispetto al progetto. Ha una grandiosità spettacolare che si declina in una serie di capitoli e sotto-capitoli narrativi che disperdono l’unitarietà dell’opera, rendendola più idonea al formato di una serie televisiva.

Prendendo spunto da una fosca vicenda storica di misteriosi omicidi di persone appartenenti alla comunità indiana Osage, in Oklahoma, tra gli anni ’10 e ’20 del secolo scorso[1], raccontata in un libro di David Grann, Scorsese realizza il suo primo film, per così dire, di prateria, non solo nel tema, ma anche nello scenario aperto e di largo campo, così inusuale nella sua fotografia.

Se punti salienti della filosofia filmografica del nostro sono individuabili nei temi dell’amicizia (spesso tradita), della famiglia e inoltre della violenza e dell’avidità di denaro, come peccati capitali irredimibili alla base della nascita della nazione americana, allora questo possiamo considerarlo pienamente un film dello Scorsese “politico”. Vedi Taxi driver (1976), Il colore dei soldi (1986), Quei bravi ragazzi (1990), Cape Fear (1991), Casinò (1995), Gangs of New York (2002), e soprattutto The Wolf of Wall Street (2013) grottesca critica (o apologia?) del capitalismo corsaro. Si tratta della costruzione nazionale fondata sulla violenza occulta e manifesta, sull’accumulazione selvaggia, sull’illegalità, sullo scontro sociale, sulla supremazia bianca, sugli antagonismi razziali appena camuffati sotto una formale convivenza civile. Scorsese sposa qui la causa indiana. Mentre prima di questa ingordigia appropriativa e rapace era espressione la mafia, adesso ne sono espressione i proprietari terrieri bianchi avidi. Così sintetizza, Scorsese, è la storia americana. Arricchirsi è giusto, con qualsiasi mezzo, come dicono i protagonisti: William Hale (De Niro) “Money flows freely here now”; Ernest Burkhart (Di Caprio): “I do love that money, Sir”.

ll film ha un inizio davvero strepitoso, funziona bene nel mostrare la strana mescolanza culturale di quegli anni, tra indiani arricchiti per le royalties petrolifere, bianchi ricchi che vogliono essere ancora più ricchi e bianchi avventurieri ed assassini. La prima parte appare decisamente più smagliante, le immagini a colori si alternano con (finti) inserti di foto e filmati d’epoca in bianco e nero, come nello Zelig (1983) di Woody Allen.

Poi il film cambia passo, diventa un intreccio di storie non sempre molto dipanabili, fino a impantanarsi, perdendo l’abituale ritmo veloce dell’autore – fate il confronto con il ritmo incalzante di Quei bravi ragazzi — fino ad una lunghissima seconda parte che sembra disperdersi in due o tre possibili momenti conclusivi. È un film sovrabbondante e con un incontenibile eccesso di girato, la cui difficoltà di taglio e montaggio sono evidenti nella discrepanza che lo spettatore coglie nella non sempre chiara diacronia degli eventi.

Delle figure della violenza si è detto. E della famiglia? La sua rappresentazione qui cambia rispetto all’antropologia della cucina italo-americana dei bravi ragazzi (con in scena addirittura la madre del regista), o di Jake La Motta (Toto scatenato, 1980), della stupenda galleria delle mogli e delle famiglie dei gangster (sempre Quei bravi ragazzi), della famiglia a pezzi del boss di Casinò, o del gruppo familiare sotto minaccia di Cape Fear. Rispetto all’asse criminale di padre e figlio – in realtà zio e nipote – dove il secondo è insieme emulo e vittima, con il loro parlottio di complotti e misfatti, la donna Osage si erge nel suo maestoso silenzio, come simbolo di madre natura arcaica e vitale, di grande elevazione morale, avvelenata (non solo metaforicamente) dalla corruzione della civiltà. Sembra ancora che Scorsese ci racconti della fine del matriarcato tribale sano in equilibrio con il creato – la famiglia Osage tutta al femminile di Mollie, moglie di Burkhart – distrutta dalla spoliazione ambientale da parte del patriarcato tirannico di Hale. Il giovane Burkhart rappresenta la congiunzione ambigua ed ambivalente tra le due culture familiari. Qui il film non riesce bene a sciogliere l’enigma del nipote, tra complicità avida e devozione alla donna.

Scorsese mette in scena un De Niro esageratamente cattivo, senza chiaroscuri, senza quelle insinuanti sfumature del male, tra simpatie e sorrisi, come in tanti altri suoi personaggi. Ma su un punto le battage médiatique aveva ampiamente ragione: che Lily Gladstone, nel ruolo della moglie Osage, è brava, bravissima, e surclassa alla grande – ed è quanto dire – i due mostri sacri, De Niro e Di Caprio, con quel suo minimalismo mimico-espressivo inversamente proporzionale alla sua intensità emozionale e che, in fondo, rappresenta – e questo Scorsese riesce a farlo capire – l’unica forza di luce e di vita dell’intero racconto. Film da vedere, anche per lei.

Ottobre 2023


[1] Osage Indian murders.  https://en.wikipedia.org/wiki/Osage_Indian_murders

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