Cultura e Società

“Passeggeri della notte” di M. Hers. Recensione di A. Meneghini

20/04/23
"Passeggeri della notte" di M. Hers. Recensione di A. Meneghini

Autore: Alessandra Meneghini

Titolo del film: “Passeggeri della notte”

Dati sul film: regia di Mikhael Hers, Francia, 2022, 111’.

Genere: drammatico

Presentato in concorso alla settantaduesima edizione della Berlinale, “Passeggeri della notte” è l’ultima pellicola del regista parigino Mikhael Hers, già noto per “Quel giorno d’estate” (2018), lungometraggio vincitore di vari premi internazionali.

Autore introspettivo ed intimista, Hers ci regala un’opera che tratteggia in filigrana un sottile ordito malinconico, nell’ordinaria tessitura costituita dalla quotidianità di una famiglia parigina tra le tante.

Protagonista assoluta del film è Charlotte Gainsbourg, attrice prediletta da Lars Von Trier, che qui interpreta Elisabeth, una donna alle soglie della mezza età che si trova a vivere una sofferta separazione coniugale in una Parigi elettrizzata dalla vittoria di Francois Mitterand alle elezioni presidenziali. È proprio questo l’incipit del film, dove l’euforia che percorre gli abitanti della capitale contrasta in modo sferzante con il dolore di Elisabeth che, lasciata dal marito per un’altra donna, è chiamata a dover riscrivere la propria vita assieme a quella dei due figli, Judith e Matthias.

Il percorso esistenziale di Elisabeth si intreccia con la traiettoria di quest’ultimo, un adolescente assorbito in una tormentata ricerca della propria soggettività. Entrambi si dibattono nello struggimento per ciò che non è più (compagno di una vita per lei, gli infallibili oggetti primari dell’infanzia per lui), incapaci di ritrovare in se stessi un senso alla propria esistenza. Non a caso, la prima parte del film è pervasa da una temporalità notturna che sembra raffigurare visivamente “l’ombra dell’oggetto” (Freud, 1915) perduto che permea l’esistenza di questi “Passeggeri della notte”. Questo è infatti il titolo quanto mai indovinato del programma radiofonico dove Elisabeth trova lavoro, crocevia sonoro di anime dolenti che, non viste, confessano la propria angoscia di vivere e la propria solitudine ad altrettanti ascoltatori insonni.

Muta ancorché essenziale presenza che fa da sfondo alle alterne vicende dei personaggi del film, è la capitale francese. Non una Parigi da cartolina turistica, bensì una Parigi dagli alti grattacieli del quindicesimo arrondissement e dalle strade di una periferia notturna insolitamente solitaria e deserta. Ripresa in vari istanti del giorno e della notte, quasi una versione cinematografica delle serie pittoriche di Monet, Parigi diventa il teatro scenico che scandisce con la sua immutevolezza il continuo e talvolta imprevedibile snodarsi degli eventi familiari, fungendo da garante meta-psichico (Bleger, 1967) per il fragile e disorientato Sé dei personaggi.

In questo fondale scenico, ben rappresentato da un appartamento che pare veleggiare sul panorama metropolitano, Elisabeth e Mattiahs si muovono in uno spazio-tempo sospeso, che è quello di un’assenza che non riesce a divenire ricordo e dove il dolore ancora non prende le vesti della nostalgia. Attorno, fanno la loro comparsa altri personaggi dalle radici smarrite: Talulah, un’adolescente vagabonda i cui genitori si disinteressano di lei e il padre di Elisabeth, puntualmente accompagnato dall’assenza della moglie.

Silenziosamente, scena dopo scena, incontro dopo incontro, il lavoro del lutto fa il suo corso, lungo un sentiero che si snoda grazie a quell’attitudine sognante della mente (Bion, 1962) che rende la realtà vivibile. Così, Elisabeth riesce a vedere che il legame con il marito da tempo era non più fonte di piacere reciproco, facendo posto dentro di sé alla possibilità di altri incontri vivificanti. Analogamente a Matthias, che può dare forma alla nostalgia per Talulah, scrivendo poesie nella stanza lasciata vuota dalla ragazza e frequentando le sale cinematografiche, dove il cinema diventa per questi adolescenti un luogo dove ci si ripara quando “fuori è freddo” e dove “è alla seconda visione che si vedono cose che prima non si erano viste”.

È proprio alla settima arte che il regista esprime il suo riconoscente tributo nel film, convocando l’attrice Emmanuelle Béart e inserendo una scena che ritrae un illustre passeggero di notte, il regista Jacques Rivette, entrambi esponenti della Nouvelle Vague francese.

Hers segue con partecipe discrezione i tormenti e le quotidiane conquiste dei personaggi della pellicola, procedendo per via di levare, più che per via di porre. Ne emerge un delicato scampolo di vita familiare che si dipana storicamente tra un’amministrazione politica francese e la successiva, segno tangibile del tempo che scorre e che lascia ognuno diverso da com’era prima.

Alla fine della proiezione, i personaggi del film, e forse anche lo spettatore, sono sfiorati dalle impalpabili tracce di una sottile malinconia, la stessa che rimane dopo che ci si è accomiatati da un’analisi sufficientemente buona (Winnicott, 1963), che non ha fornito salvezza o guarigione, ma che ha trasformato “la […] miseria isterica in una infelicità comune. Contro quest’ultima (ci si può difendere) meglio con una vita psichica risanata”. (Freud, in Breuer e Freud, 1892-95).

BIBLIOGRAFIA

Bion W.R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1972.

Bleger J. (1967). Simbiosi e ambiguità. Roma, Armando, 2010.

Breuer J., Freud S. (1892-95). Studi sull’isteria. Opere 1. Torino, Boringhieri, 1967.

Freud S. (1915). Lutto e melanconia. Opere 8. Torino, Boringhieri, 1976.

Winnicott D.W. (1963). Sviluppo affettivo e ambiente. Roma, Armando, 1970.

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