Cultura e Società

Psiche e Polis. La SPI premia M. Martone. A cura di E. Marchiori e A. A. Moroni, con i contributi di F. Barosi, S. Diena, A. Meneghini, F. Salierno e R. Valdrè

29/04/24
Voci dal Congresso della SPI: Psiche e Polis intervista a S. Roggiani

Parole chiave: Psiche e Polis, Martone, Premio Cesare Musatti, Psicoanalisi; cinema

La Società Psicoanalitica Italiana premierà Mario Martone con il Premio Musatti in occasione del Congresso Nazionale della SPI 2024 “Psiche e Polis” 

Mario Martone e il suo cinema

a cura di E. Marchiori e A.A. Moroni, con i contributi di F. Barosi, S. Diena, A. Meneghini, F. Salierno e R. Valdrè

“Sono convinto che esista un rapporto fortissimo
tra arte e il proprio tempo, la collettività e la polis”

(M. Martone, 2022)

Nella storia del cinema italiano Mario Martone (Napoli, 1959) è l’unico esponente che è riuscito a intrecciare in modo mirabile fiction, documentario e teatro, in un dialogo inarrestabile e fecondo.
La sua arte, densa di passione civile e politica, si declina in regie cinematografiche, di opere teatrali e liriche, ma anche nella produzione di performance e installazioni, oltre che di lavori per la radio. I suoi film, sia quelli che affrontano tematiche storiche e biografiche, sia quelli che ripropongono copioni teatrali, sono radicati nell’attualità e si proiettano nel futuro, in modo talora quasi profetico. Regista rigoroso, e al contempo profondamente libero, nelle sue opere riesce a dare corpo a dinamiche psichiche profonde, a mettere in scena la lotta tra Eros e Thanatos, il conflitto tra creatività e distruttività, la contrapposizione tra commedia e tragedia, l’incontro o il contrasto tra l’individuo e la collettività.
Nel libro, estremamente denso e interessante, dedicato alla sua opera “Mario Martone. Il cinema e i fim” (2022), a cura di Armocida e Mazzaro, il suo cinema è definito “un laboratorio permanente, un’officina surriscaldata”, “un cantiere”.
Tra i saggi, le testimonianze e le interviste a vari protagonisti del suo cinema e collaboratori, si trova anche un toccante dialogo con Martone, che afferma (Nazzaro, 2022, p.29): “I miei film, nel rispetto dello spirito del viaggio, non si chiudono. Sono dei transiti. Questo cosa vuol dire? Che lo spettatore è invitato a proseguire il viaggio. Non indico attraverso il viaggio la meta finale. Compio un transito, e lo spettatore con me. Poi, regolarmente, il film non si conclude mai con una conclusione, con un’invenzione della sceneggiatura, resta sempre una domanda con cui si apre”.
Non è questa anche la posizione di uno psicoanalista? Non è così che si concludono i viaggi, o meglio ora possiamo dire, i “transiti” psicoanalitici?
“La zona franosa in cui agisce la catena dell’inconscio, ancorchè poco indagata, sembra accompagnare sempre e, spesso, quasi esserne la sostanza, il lavoro di Martone”: questo è l’incipit del lavoro di Lorenzo Esposito (2023, 202), dedicato al film “Teatro di guerra” (1998).

Queste citazioni bastano ad avvallare la scelta, da parte della Società Psicoanalitica Italiana, di attribuire a Mario Martone il prestigioso Premio Musatti, in occasione del Congresso Nazionale della SPI 2024 “Psiche e Polis”.
La preparazione di un video celebrativo ha portato il piacere di vedere o rivedere, da parte di un gruppo di psicoanalisti, una decina di sue opere cinematografiche: “Morte di un matematico napoletano” (1992), “L’amore molesto” (1995), “Teatro di guerra” (1998), “L’odore del sangue” (2004), “Noi credevamo” (2010), “Il giovane favoloso” (2014), “Capri-revolution (2018), “Il Sindaco del Rione Sanità” (2019), “Qui rido io” (2021) e “Nostalgia” (2022).
È stato un lavoro alla ricerca della “sostanza”, in chiave psicoanalitica, dell’opera di questo artista tanto in sintonia con “l’arte” della psicoanalisi.

Bibliografia

Armocida P. e Nazzaro G.A. (2022, a cura di). Mario Martone. Il cinema e i film. Venezia, Marsilio.

Nazzaro G. A. (2022). Nell’agone del presente. Intervista a Mario Martone. In (Armocida P. e Nazzaro G.A. cura di), Mario Martone. Il cinema e i film, 27-46. Venezia, Marsilio.

1) “Morte di un matematico napoletano”, Italia, 1992, 108′

di Rossella Valdrè

Esordio alla regia forte e originale per Martone, con un film biografico che sceglie di raccontare gli ultimi giorni di vita di Renato Cacciopoli, insigne matematico napoletano non molto noto al grande pubblico; il film vinse il Gran Premio della Giuria alla 49° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Non si tratta di un ritratto agiografico, di un omaggio, e nemmeno il regista intende ripercorrerne la vita, ma si concentra sugli ultimi giorni prima del suicidio, come se in questo ristretto lasso di tempo, così convulso e devastato, si esprimesse la natura complessa del personaggio. Docente all’Università di Napoli e membro dell’Accademia dei Lincei, Cacciopoli fu genio precoce e figura di spicco nell’ambiente scientifico del tempo; il film si apre nel ’59, alla stazione di Roma, dove Cacciopoli, poco più che cinquantenne, prende il treno per Napoli, stanco e ubriaco, deciso a mettere fine ad una vita controversa.

Nonostante i riconoscimenti in giovane età, appare un uomo distrutto, disilluso e tormentato, schiavo dell’alcool, i cui legami di appartenenza sia con il Partito Comunista Italiano, da cui si sente ormai estraneo, sia con la moglie, sono ormai irrimediabilmente finiti. Reduce dall’Ospedale Psichiatrico, vive la sua ultima settimana vagando per una Napoli crepuscolare, al limite tra il sogno e la veglia, abitato solo dai suoi fantasmi interni mentre incontra amici, allievi, parenti in una progressiva, alienante estraneità. Fedele a questa sua prima opera, il napoletano Martone saprà essere sempre molto capace ad esprimere la complessità dolorosa della sua città, nella quale collocherà la maggior parte dei suoi film.

La fotografia di Luca Bigazzi, cupa e quasi lunare, esalta con grande efficacia il perturbante animo in deriva del personaggio: il suicidio, verso il quale vi è continua tensione, si pone qui come unico atto di libertà. È infatti il suicidio, come evoca il titolo, il protagonista del film: ma di che suicidio si tratta? Non esito della follia o dell’atto impulsivo, qui sembra di cogliere in tutta la sua forza quello che il filosofo Moroncini, riferendosi anche ad altri intellettuali, definisce “il carattere politico del fantasma masochista e della sua logica: di fronte a chi vuole fagocitarci, inserirci a forza in un legame sociale che produce ingiustizia e sopraffazione, la scelta migliore è quella di farsi rifiutare. Ma è necessario, perché questa scelta non diventi solo impoverimento di sé, trarre da essa un certo godimento, una soddisfazione pulsionale che confermi la sua legittimità […] il fantasma masochista rivela il suo carattere politico perché esso erode le basi stesse del potere su cui quel legame sociale può continuare (Moroncini, 2019, p.84, corsivi miei). Suicidio politico, quindi, atto di rottura, di estrema affermazione di sé e anarchica libertà.

Durante la cerimonia funebre, in chiusura del film, vediamo bene questo intento dissacrante del protagonista, laddove tutti, nel ricordarlo, sembrano pronunciare solo parole vuote, rituali, che non colgono la natura intima di un uomo non catalogabile, ricco di contrasti, capace di slanci, intuizioni geniali, e distacchi narcisistici. L’interpretazione di Carlo Cecchi, attore teatrale molto apprezzato, si rivela anch’essa una scelta precisa e originale, provenendo Martone dal teatro, così come l’ambientazione nei luoghi reali dove si svolse la vicenda. Ne esita così, e potremmo dire rappresentare la cifra stilistica specifica del film, una miscela perfetta di realismo e sogno, verità e immaginazione, Eros e Thanatos, vitalità disperata e folle corsa all’autodistruzione.

Bibliografia

Moroncini M. (2019). La morte del poeta. Potere e storia d’Italia in Pier Paolo Pasolini. Napoli, Cronopio.

2) “L’amore molesto”, Italia, 1995 104’
di Angelo Moroni

Rivedere a molti anni di distanza “L’amore molesto”, in un’epoca come la nostra in cui il tema del rapporto tra maschile e femminile ha subìto tante e controverse, a tratti drammatiche, trasformazioni, non può che stimolare molte riflessioni, rendendolo molto attuale. Il film prende spunto dal romanzo omonimo di Elena Ferrante, che ai tempi fece molto scalpore. Il film ha vinto nel 1995 il David di Donatello, nonché una nomination alla Palma d’Oro di Cannes. La protagonista, Delia, interpretata da una ispirata e assorta Anna Bonaiuto, è un’illustratrice napoletana trasferitasi da anni a Bologna. Una strana e preoccupante telefonata la richiama a Napoli dove scopre che nel frattempo la madre è morta, presumibilmente suicida per annegamento. Delia non crede però alla tesi del suicidio perchè il ricordo dell’anziana madre, vivo nella sua mente, è quello di una donna piena di vita, amante delle relazioni, aperta all’amore. Inizia così un’indagine, sia sul passato recente della madre, sia introspettivo, potremmo dire “autoanalitico”, relativo alla femminilità di Delia stessa e al suo passato. Ne emerge un affresco cinematografico nel quale la città di Napoli, le sue sonorità, i suoi colori, diventano fin da subito co-protagonisti nell’accompagnare Delia in una sorta di catàbasi verso le origini di un materno-femminile misterioso, “conosciuto non pensato” (Bollas, 1987), transgenerazionale, nel quale il trauma dell’abuso emerge lentamente, fotografato con una palette cromatica semibuia e piovosa da un eccellente Luca Bigazzi. Napoli, nelle inquadrature di Martone diviene una città-metafora dell’inconscio: un labirinto in cui Delia si perde per tentare di ritrovarsi attraverso il filo rosso del vestito a sua volta rosso che ha trovato a casa della madre. Il film possiede un taglio sottilmente joyciano (1920), là dove Delia, nuova Molly Bloom postmoderna che si perde in uno stream of consciousness attivato dalla morte della madre, arriverà ad incontrare simbolicamente anche il padre, la sua violenza autoritaria e brutalmente separante, che la allontanerà dalla possibilità di incontrare la sua autentica femminilità. Una femminilità violata sul suo nascere, durante la preadolescenza. In questa prospettiva, lo sguardo di Martone, oltre che le pieghe dell’anima di Delia, vuole scandagliare anche l’antropologia della famiglia italiana del primo dopoguerra, i suoi segreti, le derive perverse di un patriarcato in quegli anni ancora molto vivo e portatore di un potere violento. L’uso del flashback in inquadrature sfumate e dai colori pastello, conferiscono al film una cifra onirica, evocativa e continuamente oscillante su diversi piani del tempo. Nel film è presente il tema della sessualità e delle sue declinazioni transgenerazionali, in particolare come tale aspetto del Sé venga trasmesso da una generazione all’altra, e attraverso quali perturbanti deformazioni interpsichiche e transpsichiche. La materia filmica lavorata da Martone appare in questo film complessa e magmatica, desiderosa di insaturità evocante, ma simultaneamente per lo spettatore fin troppo immersiva, in un bagno sensoriale fatto di suoni, rumori del traffico, lunghi dialoghi in dialetto tra la protagonista e altri personaggi, per lo più maschili. Martone costruisce così un puzzle babelico che spinge la visione verso una molteplicità di vertici di osservazione tra di loro non sempre ben integrati. Il film rimane comunque un’opera importante e attuale, soprattutto per le tematiche che affronta in relazione all’identità femminile e ai suoi complessi e dolorosi percorsi storico-sociali.

Bibliografia

Bollas C. (1987). L’ombra dell’oggetto. Borla, Roma, 1989.

Ferrante E. (1992). L’amore molesto. Edizione E/O, Roma, 2015.

Joyce J. (1920). Ulisse. I Meridiani, Mondadori, Milano, 1984.

3) “Teatro di guerra”, Italia, 1998, 112′

di Elisabetta Marchiori

“Che cosa accade, e che cosa accadrà?
Dove è che il dio ci sospinge?
E v’è un termine, quale?”
(Eschilo, “I sette a Tebe”)

In occasione dell’assegnazione del Premio Musatti da parte della Società Psicoanalitica Italiana a Mario Martone, mi sono trovata a rivedere buona parte della sua filmografia, ma anche a vedere per la prima volta “Teatro di guerra”. È stata un’esperienza inaspettata, che mi ha profondamente colpita, nel suo amalgamare cinema, teatro e vita. È il terzo film di Martone, ha più di venticinque anni, ma a vederlo oggi risulta tragicamente, angosciosamente, terribilmente attuale, nell’intersecare passato e presente, con uno sguardo profetico sull’oscurità del futuro, come di un tragico indovino.

La trama è solo apparentemente semplice. In estrema sintesi, è il racconto del tentativo, da parte di una compagnia teatrale napoletana d’avanguardia sperimentale, alla Living Theatre, di portare la rappresentazione della tragedia di Eschilo “I sette a Tebe” nel teatro di guerra della città di Sarajevo, posta allora, quando è stato girato il film, sotto assedio, come l’antica città di Tebe.

In realtà è un film impossibile da raccontare, tanto è complesso e intriso della “sostanza dei sogni”: bisogna guardarlo, sentirlo, pensarlo.

Il titolo gioca sull’ambivalenza, o meglio sulla polivalenza, dell’espressione “teatro di guerra”: palcoscenico dove si svolge una tragica messa in scena o luogo dove si combatte un conflitto armato? Entrambi, ma non solo, perchè Martone sembra riuscire anche a rappresentare quei “Teatri dell’Io” (McDougall, 1982) e quei “Teatri del corpo” (McDougall, 1989) – per richiamare i fondamentali testi di Joyce McDougall – che si svolgono sulla scena psicoanalitica e che hanno come protagonisti la vita psichica, l’inconscio, i conflitti tra Es, Io e SuperIo, il circuito corpo-mente-corpo, il dramma delle relazioni interpersonali. Sono innumerevoli quindi i “teatri di guerra” messi in scena.

Il primo è, come accennato, quello dell’allestimento della rappresentazione teatrale de “I sette a Tebe”, dove l’esercito di Polinice mette sotto assedio la città di Tebe quando il fratello Eteocle si rifiuta di mantenere l’accordo di alternarsi al trono. È dunque una guerra fratricida, una guerra civile si definirebbe oggi, che si conclude con i fratelli che si uccidono l’un l’altro, e la sorella Antigone pretende che ad entrambi venga data degna sepoltura.

Incastonate nel film sono le sequenze delle riprese delle prove teatrali della messa in scena della tragedia di Eschilo che Martone ha effettivamente allestito nel 1996 al Teatro Nuovo di Napoli insieme ad Andrea Renzi, protagonista del film nel ruolo del regista Leo.

I corpi si muovono, si contorcono; le voci sono coperte da rumori, suoni; si alzano grida; si abbattono muri; si cercano oggetti di scena in magazzini dove è accumulato di tutto; un’angoscia attanagliante è il sentimento prevalente. Gli attori, dismessi i panni dei loro personaggi, nei luoghi delle prove, tra le vie della città e nelle loro case, vivono i loro drammi e conflitti personali, esprimono le loro diverse motivazioni ad impegnarsi in un lavoro rischioso e mal pagato, mettono a nudo tutte le loro fragilità, si confrontano e si scontrano tra loro e con Leo, il regista. Le tensioni sono così forti da trasmettere la sensazione di essere sempre sull’orlo dell’esplosione emotiva.

È Leo, rigido, testardo, che mantiene rapporti e trattative con il bosniaco Jasmin, che non si vedrà mai, e cerca inutilmente sostegno dalla stampa e dagli addetti ai lavori.

Poi c’è il contasto tra la compagnia priva di risorse, che lavora in un teatro sempre in penombra nei Quartieri Spagnoli, e la compagnia del Teatro Stabile diretta da Franco (Toni Servillo), regista tronfio, potente e cinico, che sta preparando “La bisbetica domata” di Sheakespeare nel suo bellissimo teatro pieno di luci e costumi sfarzosi, e umilia ripetutamente Leo che si rivolge a lui per ottenere qualche sostegno economico.

È il contrasto tra la sperimentazione e la classicità, tra la passione e l’impegno politico e sociale e la mera ricerca del successo di pubblico e di botteghino, del “farsi vedè”.

Intorno a questo nucleo frenetico la guerra si allarga, esonda per le strade e i vicoli bagnati di sangue delle faide camorriste, con i morti uccisi barbaramente che cadono sull’asfalto. Intorno all’edificio in cui si svolgono le prove infuriano le proteste degli abitanti del quartiere, disturbati dai rumori e da quell’incompresibile via vai, arrivando a esplicite minacce fino a creare un diverbio che porta all’intervento della polizia e all’arresto degli gli attori, le cui armi finte vengono scambiate per vere.

Non si vede mai, così come non si vede Jasmin, ma la guerra incombe come uno spettro feroce.

Come Jonathan Glazer nel film Premio Oscar “La zona d’interesse” (2023), così Martone smuove memorie dello spettatore attraverso indizi, immagini evocative, le parole di una lettera che arriva da lontano, una pietra annerita della Vijećnica, la famosa biblioteca di Sarajevo distrutta nella guerra.

Ecco che le atrocità e gli eccidi perpetrati durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina, che inevitabilmente rimandano alle immagini delle guerre in corso, appaioni nitide nella mente dello spettatore.

Lorenzo Esposito scrive: “Martone ha più volte dichiarato come tutto fosse partito da una sensazione di vuoto, che lo aveva condotto a concepire il film come luogo di un soggetto che non si vede e che, atteso, non arriva mai […], con l’idea che il soggetto è sempre altrove” (2023, p. 205). Lo stesso autore sottolinea che il film mostra anche la perdita di senso di un’idea, di un’ideale, di una speranza che agonizza fino a morire, come esplicita la scena finale del film. Durante i festeggiamenti per la buona riuscita della prima della di “La bisbetica domata” a qualcuno — mentre legge in un quotidiano le recensioni entusiaste — cade lo sguardo sul titolo “bagno di sangue a Sarajevo”. Chiede a Franco, il regista che si sta godendo il successo: “Come è andata a finire con quei ragazzi che volevano andare a Sarajevo?”. E lui risponde con un ghigno: “E come doveva andare a finì? Non sono andati da nessuna parte. Quelle sono cose velleitarie … a quella povera gente servono armi, hai capito? Armi! Quale teatro?”.

È questa la speranza, che agonizza fino a morire…

Bibliografia

Esposito L. (2022). Teatro di guerra (1998). In (Armocida P. e Nazzaro G.A. cura di), Mario Martone. Il cinema e i film, 202-208. Venezia, Marsilio.

McDougall J. (1982). Teatri dell’Io. Illusione e verità sulla scena psicoanalitica. Milano, Cortina.

McDougall J. (1989). Teatri del corpo. Un approccio psicoanlitico ai disturbi psicosomatici.

Milano, Cortina.

4) “L’odore del sangue”, Italia, 2004 157’

di Angelo Moroni

In questo suo film del 2004 Martone utilizza in modo quasi esclusivo la figura retorico-linguistica dell’ellissi. Ritenuto dalla quasi unanimità della critica l’opera forse meno riuscita del regista (Mereghetti, 2011, Morandini, 2016), “L’odore del sangue” è il grande racconto in negativo delle vicende di una coppia di intellettuali, Carlo (Michele Placido) e Silvia (Fanny Ardant), arrivata al termine di una parabola sentimentale molto complessa e dalle forti sfumature sado-masochistiche. Tratto dall’omonimo romanzo di Goffredo Parise scritto in prima stesura nel 1979 e pubblicato postumo nel 1986, il film è stato presentato al Quinzaine des Réalisateurs del 57° Festival del Cinema di Cannes nel 2004. Dalle sale ne è uscita successivamente una versione in DVD vietata ai minori con alcuni secondi in più rispetto a quella distribuita nei normali circuiti cinematografici. Tornando allo stilema dell’ellissi, Martone, a partire da un Parise che ci parla del clima culturale italiano degli anni ’70, vuole riportare al centro dell’attenzione, e in tempi a lui attuali, i temi della crisi della figura dell’intellettuale insieme a quello della “coppia aperta”, attraverso il racconto del tradimento di Silvia nei confronti del marito. Un tradimento con un giovane fascista delle borgate romane, che non si vede mai, che è appunto sempre ellittico, ma viene fatto immaginare al marito Carlo e allo spettatore, fino al tragico finale nel quale “l’odore del sangue” riesce a “bucare” i freddi ed intellettualistici dialoghi che i due protagonisti si scambiano nel corso di tutto il film. Questo tipo di linguaggio drammaturgico, radicalmente insaturo ed evocativo, assume in questo film un sapore esistenzialistico alla Sartre, poichè l’insaturità del non detto e del non visto mette in scena innanzitutto l’abisso di incomunicabilità tra maschile femminile, accentuato dalla lingua madre di Silvia, che non è l’italiano, ma il francese. La difficoltà, o la non volontà, di ascoltare la lingua madre dell’altro, inteso qui da Martone come sesso opposto, determina tagli, ferite, e infine apre le porte ad una parte abissale, oscura e violenta che alberga in ognuno di noi. Una sorta di “mentalità fascista” nascosta nell’intellettuale di sinistra, che la sinistra stessa non è mai stata in grado di metabolizzare, pensare, risolvere. La “coppia aperta” è dunque, secondo Martone, un alibi pseudo-progressista per negare aspetti inelaborati della storia collettiva della Sinistra italiana, che il regista estrinseca attraverso il microcosmo di questa coppia i cui incontri sono sempre non-incontri. La scelta del testo di Parise, che scrive il suo romanzo ben venticinque anni prima del film, farebbe pensare che Martone desideri evidenziare una continuità temporale di topoi caratterizzanti un certo tipo di borghesia intellettuale italiana, così come è venuta socialmente a configurarsi dal Dopoguerra in poi. In tale prospettiva, non è un caso che in alcune sequenze in cui vengono ripresi i lussuosi salotti romani o veneziani in cui Carlo parla con amici editori delle sue velleità di scrittore, respiriamo un’atmosfera di decadenza dal sapore moraviano. Per converso la parabola di Silvia verso un graduale degrado, rimanda a climi pasoliniani in cui il rapporto tra periferia e centro – politico, economico, culturale – viene messo in discussione ma risolto, anche in questo caso, con uno sguardo pessimistico che elegge, anche in questo caso, l’incomunicabilità tra periferia e centro come unico registro relazionale. È l’appartenenza alla “classe intellettuale” e ai suoi rituali identitari a determinare un blocco nella crescita emotiva di questa coppia, ma questo blocco identitario intossica anche il piano del collettivo, del divenire storico politico di un paese.

Sul piano stilistico il film appare a tratti freddo, anche nelle sequenze più sorprendentemente hard presenti nei primi minuti del girato. Anche il rapporto tra Carlo e Lù – una ragazza di campagna con la quale il giornalista intrattiene da lungo tempo una relazione extra-coniugale col pieno consenso di Silvia – appare privo di vero pathos nonostante le molte sequenze in cui il regista tenta di toccare il tema del conflitto transgerazionale. La fotografia di Cesare Accetta non fa che sottolineare un senso di algida fissità, anche, se non soprattutto, quando inquadra i corpi nudi, avvolti in amplessi più cerebrali che vitali. Un senso di morte e una sottile, infiltrativa sensazione di decadenza pervade infatti tutto il film, che si chiude coerentemente con immagini che appaiono allo spettatore come una pietra tombale davvero tragica nella loro essenzialità, ma capaci di conferire significato ed eurésis a tutto lo script.

Il film possiede un suo rigore nella sceneggiatura e nella regia, nonché una capacità di far risaltare le doti attoriali di Michele Placido, e soprattutto quelle di una splendida quanto seduttivamente perturbante Fanny Ardant. Il problema di questo film, a mio avviso, è che produce l’effetto di portare lo spettatore in un bosco semantico fin troppo affollato nel quale alla fine si corre il rischio di perdersi, nonostante una trama piuttosto lineare.

Riferimenti bibliografici

Mereghetti M. (2011). Dizionario dei film 2011. Milano, B.C. Dalai Editore.

Morandini M. (2016). Il Morandini 2016. Dizionario dei film e delle serie televisive. Bologna, Zanichelli

Parise G. (1986). L’odore del sangue. Milano, Rizzoli, 1997.

Sartre J.-P. (1943). L’Essere e il Nulla. Milano, Il Saggiatore, 2023.

5) “Noi credevamo”, Italia, 2010, 170′

di Simonetta Diena

“Noi credevamo” è un film che Mario Martone ha sceneggiato con Giancarlo De Cataldo, liberamente ispirato a vicende storiche realmente accadute e all’omonimo romanzo di Anna Banti. È ambientato durante il Risorgimento e segue le vicende di tre ragazzi che si uniscono alla Giovine Italia animati da ideali patriottici e repubblicani. Presentato in concorso alla 67° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ha vinto sette David di Donatello, tra cui quelli per il miglior film e la migliore sceneggiatura.

Purtroppo è un film poco noto, scomparso troppo presto dalle sale e dalle piattaforme streaming. Forse la durata o forse l’argomento non fanno più presa, ma è un errore, perchè rimane uno dei suoi film più beli e riusciti, con un’aderenza stupefacente tra contenuto e forma. Il problema del nesso tra questi due elementi in qualche modo rimanda al dualismo tra classico e romantico, e ci indirizza inevitabilmente al tema del “contenuto sentimentale”. È lo stesso Martone, in un’intervista al settimanale L’Espresso (2012)[1] a raccontare: “Ho cercato di cogliere il clima esistenziale vissuto da ragazzi diventati uomini e mai piegati sotto il peso di una lotta disperata, quei “briganti” meridionali antenati dei partigiani, dei movimenti, degli anni ’60 e ’70 dei repubblicani che in Italia conoscono una storia drammaticamente altalenante, tra faticate vittorie e continue sconfitte. Giravo per Londra con la macchina fotografica alla ricerca dei luoghi vissuti dai cospiratori italiani in esilio, che avrei raccontato sullo schermo. Ho girato Noi credevamo mirando a ciò che è sotto la pelle della storia”.

Questo sentimento “sottopelle” ebbe su di me, quando vidi il film la prima volta, un’impronta duratura. Sentivo che parlava, in modo asciutto e sincero, di un lungo percorso di partigiani, di uomini comuni, che avevano avuto il coraggio di scegliere da che parte stare, e che questo era il valore aggiunto dell’opera, che dal Risorgimento arrivava diritto a noi giovani, e anche adesso, che giovani non siamo più, trasmette ugualmente il suo messaggio.

La grande Storia si intreccia con la storia dei tre protagonisti, di cui si salva solo uno, Domenico, interpretato da Luigi Lo Cascio. È lui che, al palazzo Carigliano di Torino,  sede del primo parlamento del Regno, chiude il film con un toccante monologo interiore, nel quale medita sull’unità d’Italia realizzata da uomini di potere per i propri interessi, senza un autentico coinvolgimento del popolo. 

Risiede proprio in questo monologo il significato profondo del film: Domenico, guardando gli scranni vuoti del parlamento sabaudo, ripensa alle rivoluzioni cui ha partecipato, al carcere subito, agli assassini cui ha assistito, alle fucilazioni degli eserciti e alle condanne (false) per tradimento. Noi volevamo solo “libertà e giustizia” ribadisce, nulla di tutto ciò si è realizzato: “Ma noi credevamo”.

Qui assistiamo ad un freudiano polo ricostruttivo – storico, contrapposto al dibattito senza fine tra verità storica e verità narrativa, memorie storiche e memorie private.

È un film storico, ma anche intimo, nel quale gli ideali personali, le ragioni della politica e gli insuccessi continui delle rivoluzioni e delle trasformazioni verso un mondo più giusto, più libero ed uguale appaiono riproporsi, in una sorta di coazione a ripetere risorgimentale, ma anche post-risorgimentale, post-bellica, molto attuale nella nostra società.

Martone è molto legato all’estetica crociana: “La storia è sempre storia del presente”. Il problema della verità degli ideali, che il protagonista ribadisce fino all’ultimo, non modifica lo sviluppo degli elementi storici e del loro svolgimento.

Da un punto di vista psicoanalitico personale, sembra che in analisi noi assistiamo alla continua ricostruzione della storia, privata e pubblica del paziente, contribuendo a questa co-costruzione con le nostre limitate conoscenze e le nostre appassionate accettazioni dei nostri ideali.

Alla fine del film compaiono i destini desolanti di Mazzini, di Garibaldi, di Carlo Poerio. Eppure, adesso sono gli eroi mitologici della nostra Storia.

“Noi credevamo” è un’affermazione che, con diverse declinazioni, appare spesso nei film di Mario Martone, nel suo continuo oscillare tra illusione e delusione, ricerca della verità e impossibilità di rappresentarla pienamente, sommersa ogni volta dalla realtà storica in continua evoluzione. È una realtà napoletana, delusa dai Borboni, dai Savoia, dalle rivoluzioni infinite, ma è anche uno specchio della realtà complessiva italiana.

È una riflessione che può combaciare anche con quelle storiche sulla psicoanalisi. “Noi credevamo”. E crediamo ancora, aggiungerei, ma siamo più consapevoli delle disillusioni, delle sconfitte e degli errori vissuti e commessi.

Nota:
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Noi_credevamo

6) “Il giovane favoloso”, 2014, Italia, 137′

di Alessandra Meneghini

Presentato alla 72° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, vincitore di cinque David di Donatello e del Nastro d’Argento per la miglior regia, “Il giovane favoloso”, interpretato magistralmente da Elio Germano, ripercorre la vita e le relazioni di Giacomo Leopardi, fino alla sua morte, avvenuta a Napoli nel 1837.

Stretto tra le mura dell’austera e asfittica dimora familiare di Recanati, dove sono state girate molte delle riprese iniziali, riscaldata solamente dalle voci argentine e dagli sguardi complici e affettuosi dei fratelli minori Carlo e Paolina, il giovane Leopardi è ritratto mentre è assorbito nello “studio matto e disperatissimo” all’interno della poderosa biblioteca di famiglia, dove legge e traduce i classici, sotto lo sguardo ammirato e vigile del padre, il Conte Monaldo. Il regista tratteggia con abilità e delicatezza il complesso rapporto del poeta con la figura paterna, percorrendo con equilibrio il sottile crinale tra l’intrusiva possessività e il sincero affetto che il Conte prova verso il primogenito; la madre, la Contessa Adelaide, compare in poche sequenze, raffigurata come una donna dura, fredda, silenzioso fil rouge dell’infelicità del poeta, in virtù della sua assordante assenza.

Il giovane Leopardi di Martone è malinconico, ma al contempo dotato di una sensorialità viva e palpitante: così, gli occhi si tendono verso gli “interminati spazi” e le orecchie colgono lo “stormir tra queste piante” sul colle de “L’Infinito” (1819), il corpo si abbandona con beatitudine sul suolo erboso, le mani accarezzano divertite le orecchie del cane di casa e la pelle assapora la luce e il calore dei raggi di sole che si riversano nel severo palazzo paterno. Accanto a un paesaggio naturale da cui il poeta trae linfa e nutrimento psichico, nelle sequenze del film si stagliano superfici irraggiungibili, inospitali, talvolta di adamantina consistenza tra le quali il giovane scrittore si muove. Così, siamo condotti dal regista a osservare, quasi sfiorare, gli angusti corridoi del palazzo natio, le imponenti pareti della biblioteca zeppe di tomi e, in esterno, le viuzze lambite da alte mura che disegnano traiettorie soffocanti, le punte aguzze di un cancello, la parete recante iscrizioni latine sulla quale il corpo del poeta si appoggia con intensità.

Come non pensare al contatto primordiale intriso di senso-motricità con un oggetto duro, che non si modella, che punge da fuori e nello stesso tempo intrude da dentro, nella doppia accezione di percezione esterna e interna (Freud, 1922)? Ecco allora che compaiono i sogni del poeta, nei quali egli è sovrastato da un’irraggiungibile creatura sassosa dalle sembianze materne oppure è invaso da una padrona di casa che tutto apre e tagliuzza, altrettante riedizioni traumatiche dell’incontro con un oggetto primario tagliente ma che non si lascia scalfire. Un po’ come la carne che il giovane Giacomo, in una scena del film, si ostina a voler sminuzzare con la sola forchetta, provocando la reazione stizzita della madre, illuminante metafora della dolorosa impossibilità di un “intendersi” con l’altro (Freud, 1895, 223).

Eppure, “il giovane favoloso” scrive indefessamente: traduzioni, prosa, versi, pensieri, in quelle disordinate e “sudate carte” rievocate in “A Silvia” (1898) da cui si lascia circondare, quasi lo avvolgessero in una seconda pelle, alla continua ricerca di un’integrazione trasformativa dei propri nuclei dolenti, dove il lavoro creativo può essere anche concepito come lo strenuo tentativo di soggettivarsi, attraverso il rendere “malleabile il proprio ambiente rigido” (Roussillon, 2015, 489).

Nella seconda parte del film, lasciato finalmente il detestato paese natio dal clima insalubre e dagli orizzonti culturali limitati, un Leopardi maturo percorre vari luoghi geografici, non trovando mai il proprio posto interiore, stringente visualizzazione cinematografica di un mancato “in-dwelling della psiche nel corpo” (Winnicott, 1970, 285), che lo porta a cercare nel mondo esterno una collusione psiche-soma mai saldata sul piano interno. Assistiamo così al suo peregrinare con l’amico Antonio Ranieri tra Firenze, dove il poeta vive una disperante delusione amorosa, Roma, dove incontra letterati gretti e invidiosi, fino a giungere a una conturbante quanto insidiosa Napoli, travolta poi dal colera.

Con il trascorrere del tempo, i tratti del volto dello scrittore si fanno più pesanti, l’andatura più incerta, la schiena più sinistramente curva. Il corpo che abita le sequenze della parte finale della pellicola cinematografica è brutto, deforme, quasi ripugnante. Giocando con le immagini, si potrebbe ri-vedere l’opera di Martone in maniera capovolta, a partire dalla fine, un po’ come la locandina del film, dove il volto del giovane Leopardi è fotografato a testa in giù, specularmente a uno sguardo materno che forse, fin dall’inizio, non si è mai posato su di lui con desiderio.

Ri-vedere il film in après coup, insomma, in sintonia con la poetica leopardiana che si arriva ad apprezzare con pienezza in una temporalità successiva a quella preadolescenziale, quando la si incontra per la prima volta, giocoforza, sui banchi di scuola.

Bibliografia

Freud S. (1895). Progetto di una Psicologia. O.S.F. 2.

Freud S. (1922). L’Io e l’Es. O.S.F. 9.

Leopardi G. (1819-1898). Poesie. I Meridiani, vol. 1, 1987, Mondadori, Milano.

Roussillon R. (2015). Un’introduzione al lavoro sulla simbolizzazione primaria. Rivista di Psicoanalisi, 2015 LXI, 2, 477-491.

Winnicott D.W. (1970). Sulle basi di sé nel corpo. In Esplorazioni psicoanalitiche, 1995, Cortina, Milano.

7) “Capri-Revolution”, 2018, Italia, Francia, 122’

di Filippo Barosi

“Non sanno che portiamo loro la peste”

(Freud a Jung, all’arrivo negli Stati Uniti d’America, 1909)

È il 1914. Lucia (Marianna Fontana) è una capraia analfabeta che vive sull’isola di Capri insieme alla sua famiglia: la madre, un padre morente e due fratelli che ne prenderanno il posto come custodi dell’immutabilità della tradizione. La sua esistenza sembra essere segnata fin dalla nascita dalla miseria e dall’ignoranza, finché l’arrivo sull’isola di un artista rivoluzionario e dei suoi seguaci, ma anche della scienza e del pensiero progressista, metteranno tutto in discussione.

Sedotta dall’artista e dal suo stile di vita così distante e libero rispetto al suo destino di isolana prigioniera, Lucia intraprenderà un percorso che la porterà a scontrarsi con la famiglia e le convenzioni del suo tempo.

Per raccontare la storia di “Capri-Revolution” Martone, qui anche co-sceneggiatore insieme alla moglie Ippolita Di Majo, trae ispirazione dalla Comune fondata sull’isola a inizio ‘900 dal pittore tedesco Karl Wilhelm Diefenbach, pioniere del nudismo, del pacifismo e del vegetarianesimo ma anche, e soprattutto, dalle opere dell’artista Joseph Beuys.

Il film, presentato alla 75° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, mostra l’incontro tra due realtà lontane, una tanto libertina e sperimentale da apparire diabolica e l’altra, quella degli abitanti dell’isola, atrofica e quieta. A mediare tra le due, la fiducia positivista incarnata dal medico interpretato da Antonio Folletto. Ciò avviene alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, in quel momento storico di cataclismi sociali, scientifici e culturali intorno ai quali nacque anche la psicoanalisi.

Nel film di Martone si percepisce l’effetto sconvolgente e rivoluzionario dell’incontro col nuovo, capace di sovvertire, e in certi casi anche di pervertire, l’equilibrio vigente. Da un certo vertice, “Capri-Revolution” può essere riletto a posteriori come una versione storicamente contestualizzata del più recente “Povere Creature!” (Y. Lanthimos, 2023). Luca Pacilio, nella sua recensione sul sito di cinema spietati.it, scrive: “Lucia, esperendo tutto, sceglie la libertà e decide a cosa appartenere, senza votarsi anima e corpo a nessuno dei suoi mentori”. Non si può certo dire che la Bella di Lanthimos non si voti anima, e soprattutto corpo, agli uomini che incontra lungo la sua strada, eppure il senso delle parole di questa recensione si adatta perfettamente al tragitto di entrambe le protagoniste.

Per azzardare una proporzione che poggia sulla seconda topica si potrebbe dire che “Lucia : Bella = Io : Es” (Lucia sta a Bella come l’Io sta all’Es), dove l’Io nascente dell’isolana si barcamena nel triangolo tra l’artista liberatore e il “giusto” e superegoico medico socialista.

Si tratta evidentemente di film molto diversi, quasi in antitesi rispetto all’idea di cinema che ci sta dietro. Eppure, entrambi raccontano l’emancipazione femminile attraverso il tema della soggettivazione, sia essa in chiave corporea, spirituale, intellettuale o perfino politica. Certo, Lucia ha, rispetto a Bella, un percorso più convenzionale in senso integrativo, dove a rotture necessarie, agli inevitabili slegamenti richiesti da ogni crescita, seguono ricomposizioni che rafforzano il Sé e lo arricchiscono. Ancora Pacilio scrive: “Martone sembra dirci che non c’è progresso se non nella sintesi di tutte queste istanze”. La sua è una catabasi, che comporta la discesa dolorosa della protagonista dentro se stessa, ma che allo stesso tempo va dall’interno verso la costa e oltre, verso la libertà di salpare per il Nuovo Mondo, la terra della libertà e delle opportunità, lontano da una società fallocentrica che sta per fare i conti con la propria distruttività.

Mentre l’uomo del tempo si prepara alla guerra, le giovani della Comune danzano balli sfrenati nei boschi dell’isola che, come fossero sabba, sono momenti di liberazione ed estasi dissociati da un mondo che rimuove il femminile. E non è affatto casuale che nel film sia proprio un terapeuta ante litteram ad approfittare di questa spinta per provare ad impossessarsene.

Nel film si percepisce bene che se Lucia, come molte altre donne ben note a Freud, non fosse riuscita a dare seguito alla propria vitalità, avrebbe trovato nella via della nevrosi l’unica alternativa per ricacciare indietro i suoi moti interni. Da analisti possiamo ipotizzare che la ragazza abbia potuto accogliere come opportunità ciò che dall’esterno si è presentato in modo sconvolgente, anche grazie a uno sguardo materno e femminile incoraggiante, prima oppresso e poi finalmente ritrovato in quello che forse è il momento più emotivamente intenso del film. La protagonista recupera qualcosa che attendeva di essere risvegliato, anche attraverso l’uso consapevole della sapienza contadina e riuscendo ad apprendere dalle nuove esperienze, come fosse un terreno di coltura fertile che doveva ancora essere dissodato. Lucia, come Bella, scopre in sé la necessità di farsi da sola, non come vittima passiva della Storia, ma come protagonista, senza farsi assorbire dagli estremismi degli altri personaggi e delle sue istanze interne per infine incontrare un altro destino, questa volta scelto da lei.

“La rivoluzione siamo noi”, l’opera più celebre di Beuys che ispira il titolo del film, suona allora vicina all’esergo freudiano sopracitato e al mandato della psicoanalisi, per l’individuo come per la società.

A dispetto di tutte le resistenze, siano esse dentro o fuori dell’essere umano.

Sitografia

Per la recensione di Luca Pacilio: https://www.spietati.it/capri-revolution

L’opera “La rivoluzione siamo noi” di Beuys https://www.tate.org.uk/art/artworks/beuys-la-rivoluzione-siamo-noi-ar00624

L’intervista a Ippolita Di Majo: http://www.caprilife.blog/capri-revolution-intervista-a-ippolita-di-majo/

8) “Il sindaco del Rione Sanità”, Italia, 2019, 118

di Elisabetta Marchiori

9) “Qui rido io”, Italia, 2021, 133

di Simonetta Diena

Qui rido io” (2021), presentato alla 78° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è uno dei film più rappresentativi dell’opera di Mario Martone, che mette in scena una coralità napoletana e universale, dove tutto viene tenuto insieme da fili sottili ed antichi. Una coralità fatta di disordine esistenziale, di allegra confusione familiare dove figli legittimi e illegittimi si confondono e si rincorrono, figli a loro volta di sorelle e nipoti. Il tutto è tenuto insieme dalla presenza scenica straripante di Edoardo Scarpetta, un Toni Servillo veramente a suo agio in questa parte. Come spesso nei film di Martone, “Qui rido io” parte da un’idea ben precisa e ripetuta, che viene poi declinata con maestria in tutta l’evoluzione della storia, nelle scene, nelle musiche, nei dialoghi. In questo caso l’idea riguarda il teatro comico napoletano, la parodia. Essa consiste nell’imitazione di uno stile letterario, musicale o artistico, destinata a essere riconosciuta come tale, o anche l’imitazione caricaturale di un noto personaggio esistente o fittizio, in chiave comica o farsesca. In molti esempi di quest’ultima, il gioco è scoperto: opere letterarie o film famosi vengono riproposti in forma stravolta sin dal titolo[1].

Mario Martone, che è un uomo di cinema e di teatro, e ha diretto mirabili opere liriche, qui ricostruisce la poesia semplice dell’opera di Eduardo Scarpetta e disegna il profilo del padre naturale e artistico di Titina, Eduardo e Peppino De Filippo. Coglie l’artista agli inizi del Novecento, quando la sua ‘maschera’ (Felice Sciosciammocca), che ha sostituito nel cuore dei Napoletani quella di Pulcinella, è in crisi, nel momento del processo intentatogli da Gabriele D’annunzio (Paolo Pierobon) sul plagio della “Figlia di Jorio”. “Felice Sciosciamocca – spiegava ai figli – è un’eredità e una rendita: Tutti voi la dovrete interpretare”. Ma non di plagio si tratta, ma di parodia, argomenta in una scena mirabile un giovane Benedetto Croce (Lino Musella), avvocato di Scarpetta, che delinea con magistrali parole la natura generale dell’opera e del successo di Scarpetta. E gli permette così di vincere la causa.

Edoardo Scarpetta appare però avvilito da questa definizione. Il suo essere Comico, antica professione del teatro napoletano, che vede in Pulcinella il suo primo personaggio, viene ridotto a qualcosa di diverso rispetto alla sua rappresentazione. Lì lui si vede, come ripete Martone, esponente di quella “miseria e nobiltà” che troviamo in tanti personaggi del teatro napoletano e non, da Totò a Edoardo De Filippo. È mirabile la scena a teatro degli spaghetti mangiati in piedi sul tavolo e messi in tasca, di cui Totò aveva dato al cinema un’altrettanto smagliante rappresentazione.

Ma Croce gli nomina un teatro differente, in cui non c’è solo la parodia della vita, il disordine esistenziale cronico di tutta una civiltà e di uno stile di vita, ma c’è anche un teatro angoscioso, furibondo, realistico, che non ride di se stesso. Nella difesa di Croce, Scarpetta vede ciò che teme di più. Egli si sente l’erede di Pulcinella, un personaggio tragico e estremamente rappresentativo della napoletanità. Ma con ciò che gli propone Croce, Scarpetta vede la fine del suo universo esistenziale. E cammina per i vicoli di Napoli, da solo, accompagnato dalle canzoni napoletane più significative, fino ad arrivare al suo teatro dove ha questa visione di Pulcinella, morto, sul palcoscenico. Gli toglie la maschera e vede se stesso. Capisce che è la fine della sua epoca. Vinta la causa, si ritira dalle scene, mentre tutta la sua tribù di figli, che ha ereditato le sue doti, porterà avanti in altre forme il suo talento, trasformando la parodia in un’esperienza universale tragica e ricorrente, che si amplia oltre i confini del teatro napoletano.

Nota:
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Parodia

10) Nostalgia”, Italia ,Francia, 2022, 117′

di Flavia Salierno

Arriva sempre, nella produzione artistica di un regista, quel momento di “Nostalgia”. Il bisogno tutto privato di prendere contatto con una parte di sé, quella con cui, prima o poi, è necessario fare i conti. “La conoscenza è nella nostalgia, chi non si è perso non possiede”, dice Martone in un’intervista, prendendo in prestito le parole di Pasolini[1].

Come nel gioco freudiano del rocchetto (Freud, 1920), il fort-da emerge come un magma incandescente che deve trovare la sua strada a forza. E arriva. E meno male che arriva, perché altrimenti stagnerebbe in una sedimentazione permanente e mortifera. E la creatività si oppone sempre a questo, quando è libera di fluire.

Martone ha cercato, e trovato, negli occhi di Pierfrancesco Favino, il modo per guardare il ritorno alla sua vecchia Napoli.

Per vivere Napoli, diceva Leopardi, ci vuole la pieghevolezza dell’ingegno”, “ma anche la pieghevolezza del cuore, aggiungo io” (Ciak Magazine, Cannes 2022). Il regista napoletano racconta così, in un’intervista, la sua città amata, e si è appoggiato al romanzo di Ermanno Rea, per trovare il contenitore giusto per la sua Nostalgia.

Felice (Pierfrancesco Favino), il protagonista del film, si addentra nelle vie del rione Sanità, spaesato e spaurito, straniero a casa propria, estraneo nell’ambiente in cui è cresciuto. Comincia così il suo viaggio del ritorno nel terreno impervio del dimenticato. In un tempo e in uno spazio sospesi, quest’uomo cammina sulle strade e sui passi dell’adolescenza. Dove si perse. “Chi non si è perso non possiede”, dice Pasolini (dal film “Il Vangelo Secondo Matteo”, Pasolini,1964). E, per possedere, è necessario rielaborare.

Nei quarant’anni passati fuori dal paese natio, dopo aver trovato il proprio Paradiso in Egitto, con la casa bella quanto il viso della moglie amata, sente il bisogno di tornare all’Inferno, perché c’è sempre posto per quello, nei gironi danteschi del nostro mondo interno. 

È strano ascoltare Favino/Felice nella nuova lingua appresa negli anni della lontananza, tanto da superare quella delle origini. Meglio usare l’arabo, se il napoletano porta ricordi belli ma dolorosi. Meglio ascoltare la propria voce come fosse quella di un altro, piuttosto che far entrare dalle orecchie il vissuto antico di un rimosso. Nell’interstizio del preconscio, invece, riemerge il dialetto partenopeo, misto a quello arabeggiante. Come nelle poche parole, quelle dette alla mamma malata e morente. Sollevare il suo corpo caduco, nell’atto di prendersene le ultime cure, in una Pietà michelangiolesca al contrario, è forse l’espiazione di quella colpa di non esser stato il figlio integerrimo, con la vita ligia e leale verso la famiglia. Sulle spalle, il ricordo dell’omicidio condiviso con l’amico Oreste (Tommaso Ragno), d’infanzia e di quell’adolescenza spezzata dalla fuga. Da se stesso, ancor prima che dalla legge. Nel vano tentativo di recuperare anche la vecchia amicizia, Felice sembra non voler accorgersi della pericolosità della rabbia di Oreste, il quale non gli perdona il fatto di essere stato testimone, non solo del vecchio omicidio, ma anche di quanto quel vecchio stile di vita, fosse diventata la sua vita stessa.

Felice morirà nell’inferno della Napoli dei suoi ricordi, ucciso non solo per mano dell’amico, compagno di ricordi e nefandezze, ma anche dal pugnale delle sue colpe, il luogo simbolico dei delitti non elaborabili. È il il male ad avere la meglio, a non trovare scampo.  Eppure la macchina da presa si direziona sul tentativo di Don Luigi Rega (Francesco di Leva) di portare in salvo i giovani del rione Sanità, di condurli verso una strada differente. Alla fine, però, è Thanatos che vince su Eros, è l’impossibilità per alcuni di avere la chance del riscatto.

Presentato in concorso a Cannes nel 2022, Nostalgia è stato selezionato per rappresentare l’Italia ai Premi Oscar 2023, nella sezione miglior film internazionale, anche se non inserito tra i candidati del premio.

Martone ha vinto Il Nastro d’Argento nel 2022 come miglior regista. Sempre ai Nastri, Favino ha vinto come miglior attore protagonista, Francesco di Leva come migliore attore non protagonista, migliore attore non protagonista anche a Tommaso Ragno. A Mario Martone e Ippolita di Majo, il premio come miglior sceneggiatura.

Nella poetica del regista, “Nostalgia” è un punto fermo. Racchiude il suo stile, che è insieme gentile e aspro, che sa essere morbido e crudo, che sa anche raccontare il vuoto e il pieno della vita. Un punto fermo è anche la sua Napoli, dove sente sempre il bisogno di tornare. Ci sono posti, infatti, dove non solo si nasce, ma che vanno a rappresentare un modo di essere e pensare. Certi angoli, certe strade, i rumori, il vociare della gente, entrano a far parte del modo proprio di sentire e di esprimere. E, la nostalgia, un modo per averle sempre con sé. “Vedi Napoli e poi muori” si dice. La nostalgia, invece, ha il potere magico di tenere in vita. 

Bibliografia

Freud S. (1920). Al di Là del Principio di Piacere. OSF. 9

Rea E. (1980). Nostalgia. Rizzoli. Milano

Nota:
[1] https://youtu.be/cH_DpVP_zHM?si=pkRxPgxGL8FJ-Kg3


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