Cultura e Società

“Quel giorno tu sarai” di K. Mundruczò. Recensione di A. Meneghini

3/02/22

Parole chiave: Trauma; Campo di concentramento; Identità

Autore: Alessandra Meneghini

Titolo: “Quel giorno tu sarai” (“Evolution”)

Dati sul film: regia di Kornél Mundruczò, Germania, Ungheria, 2022, 97’

Genere: drammatico

Uno scantinato umido e buio, un gruppo di uomini che con secchi e ramazze lavano incessantemente il pavimento e le pareti, come dei moderni Sisifo: da una fenditura, uno di loro estrae un filo. Infiniti fili iniziano a spuntare da altrettante crepe e, mano a mano, prendono la forma e la consistenza di matasse aggrovigliate di capelli. Una parte del pavimento si rompe. Si sente un urlo lancinante: gli uomini si avvicinano e uno di loro tira fuori dall’apertura un bambino che urla disperato. La scena si sposta all’esterno: gli uomini sono dei soldati polacchi e portano il piccolo in salvo, dopo averlo avvolto con una coperta.

La scena cambia nel tempo e nello spazio: siamo in Ungheria, a casa dell’anziana Eva. È la bambina “nata” dal cemento di Auschwitz. Spettinata, vestita di una sciatta vestaglia, sta facendo colazione. Arriva da Berlino Lena, la figlia. È venuta per accompagnarla a una cerimonia di commemorazione sulla Shoah. Eva non vuole andare, non ci crede. È costretta a dimostrare la propria origine ebraica per avere delle sovvenzioni dallo Stato: “Eravamo ebrei quando non potevamo esserlo e ora che possiamo esserlo, non lo siamo”. L’incontro tra le due donne esita in un lungo e sofferente monologo in cui l’anziana narra alla figlia la sua nascita nel campo di concentramento, ad opera di una madre che l’ha voluta contro tutte le umane possibilità. E il troppo traumatico deborda: dal rubinetto della cucina sgorga l’acqua, prima a singhiozzo, poi a fiumi e dalle mensole si riversa sul pavimento, allagando tutto l’appartamento. Lena assiste impotente alla scena, nel vano tentativo di salvare i documenti e le foto che testimoniano la storia della sua famiglia.

La scena muta nuovamente: stavolta siamo a Berlino, dove abitano Lena ed il figlio adolescente Jonas. La scuola del ragazzo viene fatta sgomberare: c’è un principio d’incendio. È bruciata la lanterna ebraica che il ragazzo aveva portato: Jonas è preso di mira a causa delle sue origini da un gruppo di coetanei. A casa, ha un forte scontro con la madre, che gli rimprovera di voler disconoscere le proprie radici. Durante il litigio, Jonas riesce a dirle che la odia, per poi ritrovare il legame con lei, uniti dalla stessa dolorosa colpa: quella di essere sopravvissuti. A quel punto, la scena si apre all’esterno, dove troviamoJonas ed una coetanea di origine araba seduti l’uno accanto all’altra, nei pressi di un rio cittadino dalle acque tranquille.

A proposito di fili che si dipanano, questa stupenda pellicola ne può evocare, tra i tanti possibili, uno: il percorso del sogno/cinema come funzione traumatolitica, in senso ferencziano (1927-1933). Tratta da una storia vera, si può pensare come trasformazione in sogno (attraverso il pensiero onirico della veglia, direbbe Bion, 1962) del trauma rappresentato dal genocidio degli ebrei perpetrato durante la II Guerra Mondiale. “Ferite di lutto mai aperte mai si richiudono”, scrive Racamier (1992): dalle crepe cementizie della dissociazione, del diniego, si estraggono dei fili che diventano via via grovigli di capelli, che portano alla nascita di Eva. È grazie alla tessitura di questi fili, attraverso la narrazione di vissuti prima indicibili che l’anziana fa alla figlia, che è finalmente possibile sciogliere i vissuti di colpa, di impotenza e di odio di chi è sopravvissuto all’orrore. Tali vissuti sono cinematograficamente resi attraverso lo sgorgare dei fluidi corporei non più trattenuti dal corpo (e dalla mente) di Eva, nonché dalla massa d’acqua che si riversa nell’appartamento della donna, quasi un diluvio di lacrime rimaste per troppo tempo cementificate. È per il tramite di questa messa in parola trasformativa di esperienze e di affetti prima denegati che le generazioni successive, rappresentate dalla figlia e dal nipote di Eva, possono finalmente scontrarsi su di terreno identitario (ebrei/tedeschi?) e generazionale (madre/figlio), piuttosto che su questioni che vertono sull’essere sull’essere vivi o morti, riportando il conflitto, seppur doloroso, su di un piano più squisitamente interno e quindi tollerabile.

Non a caso, è solamente dopo aver percorso questo passaggio traumatico, che Jonas può aiutare l’amica araba a seppellire il suo criceto, metafora di una ferita che, ancorché impossibile da cancellare, può essere però ora richiusa, ricucita, aprendo così a nuove “evoluzioni” (riprendendo il titolo originale del film, “Evolution”) riparative e trasformative nella relazione con sé e con l’altro.

Bibliografia

Bion W.R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1972.

Ferenczi S. Opere. (1927-1933) Milano. Raffaello Cortina Editore, 2002.

Racamier P.C..(1992). Il genio delle origini. Milano. Raffaello Cortina Editore, 1993.

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