Cultura e Società

“Rifkin’s Festival” di W. Allen. Recensione di A. Falci

24/09/21
“Rifkin’s Festival” di W. Allen. Recensione di A. Falci

Autore: Amedeo Falci

Titolo: “Rifkin’s Festival

Dati sul film: regia di Woody Allen, USA, 2020, 88’

Genere: Commedia

Rifkin’s complaint (Lamento di Rifkin

‘Difficile’, se non imbarazzante, scrivere di quest’ultimo film del tanto ‘amato’ Woody Allen.  ‘Difficile’ commentare un film esile, frettoloso, forse sciatto (tranne che per qualcosa di cui dirò più avanti), costruito con resti di magazzino. ‘Amato’ perché, accanto alle indubbie qualità creative che gli hanno conferito quell’assoluto ruolo autoriale che gli spetta, W.A. è stato sempre circondato da quell’aura di icona artistica della psicoanalisi nella cultura nord-americana. Aura certamente sovradimensionata, a mio avviso, perché, a veder meglio, nei suoi film tutto quanto riguarda la pratica psicoanalitica appare abbastanza pasticciato e controverso, al di là dell’adorabile impregnazione di umorismo yiddish-like. Gli analizzati (o similari) non guariscono mai: “Io e Annie” (1977), “Zelig” (1983), “Harry a pezzi” (1997), rimanendo simpaticissimi mattoidi. Gli psicoanalisti (o analoghi) appaiono del resto ottusi, accomodanti, passivi, stereotipati e convenzionali. Né tantomeno dopo tutta la lunghissima esperienza di psicoterapie varie che sembra abbia avuto nella sua vita, Woody Allen è riuscito a produrre forme di elaborazioni psicoanalitiche artisticamente convincenti — tranne forse qualche sprazzo per “Interiors” (1978), “Crimini e misfatti” (1989), “Match point” (2005), “Sogni e delitti” (2007) — al di là delle trite gag sull’essere nevrotici. La sua rappresentazione della psicoanalisi risulta quindi abbastanza opaca e convenzionale — anche se molto spiritosa e intelligente — non riuscendo tuttavia ad occultare del tutto un certo girare intorno alla psicoanalisi, anche in un continuo confronto, conflitto, caricatura. “Rifkin’s festival” ne offre un esempio.

Un anziano critico cinematografico (Rifkin) si reca con la sua più giovane moglie (Sue), press agent del cinema, al festival di San Sebastian dove si troverà anche un giovane regista francese verso cui la donna non è affatto indifferente, come Rifkin teme. L’espediente narrativo è costruito quindi su un dispositivo in parallelo: la moglie si scopre innamorata del giovane regista, l’anziano critico si scopre inaspettatamente innamorato di un’altra donna. Queste due nuove coppie sono tuttavia contenute all’interno di un’altra, più fondamentale, cornice di coppia. Di chi è la voce fuori campo che commenta gli eventi del film? È di Rifkin stesso, narratore apparentemente per noi pubblico. Ma in realtà narratore per il suo psicoanalista che è il primo destinatario, come si vede nelle scene di apertura e in chiusura. Se il centro del film ha dunque uno svolgimento analettico (in flashback), che precede il racconto di Rifkin in seduta, è tutto il film che è il racconto di un’unica seduta, la quale è il vero contenitore dell’intero intreccio. L’opera contenuta in nuce in un suo frammento più piccolo, è espediente narrativo frequentissimo. Ma l’invenzione di Allen è qui idea geniale, ma non originale, in quanto mutuata di sana pianta, dal Lamento di Portnoy (Portnoy’s Complaint, 1969) di Philip Roth dove solo nell’ultima pagina si rivela come tutto il romanzo di ben sette capitoli sia stato solo il monologo di esordio del giovane Portnoy nella sua prima seduta dallo psicoanalista!

In filigrana, forse, dietro questa esilissima storia di crisi di coppia, Woody Allen riprende il suo filo dialogico, spesso ironico, spesso corrosivo e caustico, con la bistrattata psicoanalisi o psicoterapia. Come un conto in sospeso? Come un punto di riferimento in un momento in cui la linea dell’esistenza obbliga a riflessioni e bilanci?

Non è forse possibile rintracciare, nel film, forse due film che si toccano per un punto? Una storia più lunga, ‘lì’ e ‘allora’, sulle coppie al festival. Un film più corto e fulminante di neanche un minuto, ‘qui’ e ‘ora’, all’inizio e alla fine, sull’avvio (Portnoy?) o sulla conclusione di una terapia. Ultima inquadratura. La questione che Rifkin pone è, direi, fondamentale: “Ma dopo tutto quello che le ho raccontato, lei, dottore, ha nulla da dirmi?”. Il dottore, di spalle rispetto allo spettatore, forse scuote appena il capo, forse non (sa quello che) dirà. Rifkin sorride appena, enigmaticamente. La problematica questione (o l’antico rancore) di Woody Allen per la psicoanalisi. Restare o andarsene (o giocarci su)? The end. Ma non è esattamente la cruciale scena finale in “Match point” (2005), dell’anello lanciato che rimbalza sul parapetto del fiume: da quale lato cadrà? Nessuno lo può sapere.

Chi ha letto questo articolo ha anche letto…

"La sala professori" di I. Catak. Recensione di E. Berardi.

Leggi tutto

"Estranei" (All of Us Strangers) di A. Haigh. Recensione di F. Barosi

Leggi tutto