Cultura e Società

“TÁR” di T. Field. Recensione di A. Falci

13/03/23
"TÁR" di T. Field. Recensione di A. Falci

Parole Chiave: Potere, Identità di Genere, Genere sessuale, Coppia, Musica

Autore: Amedeo Falci

Titolo: TÁR

Dati sul film: regia di Todd Field, USA, 2022, 158’  

Genere: drammatico

MAHLER TRA I FANTASMI.

Le molte esistenze di una compositrice e direttrice d’orchestra, Lydia Tár, tutte intrecciate dal tema della concertistica sinfonica. Film sulla musica, naturalmente, ma anche sulla creatività (forse in declino), sul potere e su come (anche) una donna sappia ben gestirlo, sul confortante retroterra di una vita familiare con ‘moglie’ e figlia adottiva, su quanto giochi la fascinazione amorosa sulle scelte dei talenti musicali. Poi, appena sfumate, le ombre degli scandali sessuali, stavolta da un vertice femminile, e i riferimenti alla cancel culture. Film, soprattutto, sull’ascesa e sulla caduta degli dei. Film intrinsecamente intriso dei valori della cultura musicale occidentale, con i suoi protagonisti continuamente in movimento tra Berlino e New York, ma uno straordinario contrappasso finale di sorprendente delocalizzazione.    

Dopo varie prove attoriali non di primo piano — lo si era visto in Radio days (1987), di Woody Allen, e in Eyes wide shut (1999), di Stanley Kubrick —, dopo appena tre lungometraggi, e a quattordici anni dal suo ultimo film, Little children (2006), la stella creativa di Todd Field esplode in questa raffinata opera, concepita di getto in poche settimane durante il lockdown della recente pandemia.

Un film specialistico sotto il profilo della cultura musicale, tanto da far pensare, in prima battuta, che sia destinato al ristretto pubblico della musica sinfonica. I riferimenti ai protagonisti della concertistica contemporanea internazionale, e l’iniziale stile da docufiction (la lunga intervista alla protagonista da parte dello scrittore Adam Gopnik in persona!) possono far pensare ad un film biografico. Il personaggio è invece del tutto immaginario; anche se immaginario poi non tanto, dal momento che Marin Alsop, prima direttrice donna di una grande orchestra americana, la Baltimore Simphony Orchestra, ha dichiarato di essersi sentita particolarmente offesa dal film, “in quanto direttrice ed in quanto lesbica”, per l’immagine negativa che l’opera di Field offrirebbe circa le donne che hanno saputo emergere in ruoli di prestigio.

Eccellente resa fotografica, dai colori insaturi in tono con quelli delle sale sinfoniche. Formalmente e tecnicamente un film quasi perfetto. Mi limiterei a citare la sequenza della lezione di Lidya alla Jiulliard School nel suo andare su e giù tra scena e platea, in dialogo con lo studente Max: un magistrale piano sequenza di circa dieci minuti di cui si fa persino fatica a comprenderne la tecnica di realizzazione.

Interni e scenografia eleganti, formali, opachi, che rispecchiano egregiamente l’identità e la personalità (anch’essa formale, ma solo fino ad un certo punto) della protagonista. Un lungometraggio che sembra inizialmente statico, che poi acquista cambiamenti di velocità, di ritmo, i quali, senza evocare i movimenti della molto citata 5a. Sinfonia di Mahler, assumono il senso che il termine ‘movimento’ ha nelle parole di Bernstein, che giusto la protagonista ascolta in un vecchio video del maestro: “La musica è movimento che va sempre da qualche parte, spostandosi da una nota all’altra; un movimento che può parlarci di cosa proviamo più di quanto possa fare un milione di parole”. Ecco che dopo un ritmo iniziale lento, largo e solenne, il film va accelerando, si vivacizza, si fa rapido, presto, prestissimo…verso un inatteso finale.

Film raffinato e composito, che propone a partire dalla trama dominante della musica, l’emergere di altri possibili sottotesti. In primo luogo, il tema della creatività, della libertà compositiva e interpretativa dell’artista. Il tema del contrasto tra una primitiva originalità ispirativa sul campo – la protagonista ha vissuto da etnomusicologa per cinque anni nella foresta amazzonica – e la carriera istituzionale di direttore d’orchestra, nel claustrum delle sale. Ma anche il sottotesto delle segrete trame/brame di potere, persino nell’empireo della musica sinfonica. Solo che qui si tratta di un potere femminile. Senza dimenticare poi il sottotesto della hybris e della predazione sessuale, specie se stavolta è agita da parte di una ‘lei’ egemone e potente. Ma se il dominus è una lei — almeno nel prendere e lasciare, senza tanti complimenti e senza tante scuse, delle ragazze sinceramente innamorate che poi vanno in disregolazione borderline e stalkeraggio mail — sarà questa tendenza un ruolo maschile o femminile? E se è la femmina alfa a predare, sarà una (finalmente) agognata e raggiunta parità tra i generi, o una cosa brutta e vergognosa esattamente come per i maschi in arousal predatorio? Non sarà per caso, l’affiorare di quel ‘maschile’ che si (ri)presenta come dominante ruolo di genere persino nella coppia omosessuale femminile di questo film? Visto che lei è un ‘marito’ che fa e sfa quello che vuole, con a casa una moglie sofferente e paziente. Oppure entra in gioco quell’imago interiorizzata iper-fallo paterno che fa sì che lei dica alla bambina: “Picchia duro, te lo dico io che sono tuo padre”. Ma allora questa/o madre/padre Lydia Tár, a che cultura di genere mai apparterrà? A quella liberatoria antibinaria, o a quella degli imperituri ruoli di padre e madre, e di maschio e femmina, che sembrano il nostro destino? Ma se volessimo cercare altri sottotesti, tutto il film non è anche leggibile come un’allegoria dell’Ascesa e della Caduta? Oppure, aggiungiamo ancora, non sarà infine, soprattutto un film centrato sul contrasto tra il reale e i fantasmi, lungo un percorso decifrativo che a partire dalle pseudoallucinazioni uditive notturne conduce ad un incubo?  

In questa direzione, l’intuizione più originale sul senso dell’opera, è quella offerta dal critico Dan Kois, sulla rivista on line Slate: Tár Is the Most-Talked-About Movie of the Year. So Why Is Everyone Talking About It All Wrong? https://slate.com/culture/2022/12/tar-cate-blanchett-movie-ending-explained-analyzed.html il quale ci dice come il film tratti di un progressivo ‘movimento’ dal registro del reale al registro dell’incubo e del misterioso, di una discesa non soltanto di grado sociale, ma verso quegli insondabili fantasmi personali che riecheggiano nelle sue (false?) percezioni uditive.

Un’idea interpretativa che fonda una sua giustificazione proprio a partire dall’incredibile viraggio espressivo di Cate Blanchett che, in un passaggio nell‘ultima parte del film, reincarna una terrificante maschera di odio, rabbia e violenza che sembra aprire nel film una vera dimensione di incubo; una maschera che qualche critico non ha esitato a definire come la maschera di un ‘Tutankhamon in piena furia psicotica’.

Forse il miglior film della stagione in corso. Cast in grazia di Dio. Brava come sempre Nina Hoss, ma seconda solo alla Blanchett collocherei Noémie Merlant (Ritratto della giovane in fiamme, di Céline Sciamma, 2019), che nelle sue palpitanti esitazioni e nei suoi silenzi dice (più di) tutto.

Il superbo contributo interpretativo della Blanchett, tra i più difficili della sua carriera, è la vera colonna portante di tutta l’opera, come è stato riconosciuto dall’assegnazione della Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile alla 79° Mostra internazionale del Cinema di Venezia del 2022, e dal Golden Globe 2023 come miglior attrice in un film drammatico. Una prova attoriale spesso di terrificante intensità (vedi sopra alla voce: Tutankhamon!), che conferma quel suo peculiare talento di saper rappresentare complesse sfumature emozionali con un minimalismo espressivo. A volte anche di un’attrice si può pensare sia un genio (o si dovrebbe dire una genia?).

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