Cultura e Società

“Un giorno di pioggia a New York” di W. Allen. Commento di A. Falci

13/12/19
“Un giorno di pioggia a New York” di W. Allen. Commento di A. Falci

Autore: Amedeo Falci

Titolo: Un giorno di pioggia a New York

Dati sul film: regia di Woody Allen, 2019, USA, 151’

Genere: Commedia

 

 

 

“Una pioggia sottile, molto sottile, quasi inconsistente”

Una coppia di giovani innamorati in un week end romantico nella Grande Mela. Ma impegni di lavoro di lei, avvenimenti imprevedibili e altre emergenze amorose si metteranno di traverso alla loro storia sentimentale. E sulla città scende una pioggerellina …

Che cosa non faremmo per sollevare le sorti di quest’ultimo fragilissimo ultracinquantesimo, film del nostro amatissimo Woody Allen?

Potremmo immaginare una lettura che forse non dispiacerebbe ad una delle più note psychoanalysis-friendly personalità del cinema. Allora questo “A Rainy Day in NewYork” potrebbe essere leggibile  in un senso radicalmente sessuale. Sull’impossibilità di due giovani belli attraenti e intelligenti di riuscire ad avere il benché minimo sexual intercourse. Arrivano nel loro romanticissimo hotel di New York, e niente avvicinamenti, né qualcos’altro di appassionato, veloce e furtivo. Lei biondissima, bellissima e candidamente ambiziosa, parte a razzo per le sue interviste al grande e tenebrosissimo regista in crisi. Lui va bighellonando per la città, fa la comparsa in un film, va a trovare il fratello, vince un sacco di denaro a poker, in attesa di una sontuosa cena dai genitori a cui dovrà presentare la sua ragazza. Lui è certamente affetto da impuissance sexuelle (voi direte: ma come fai ad esserne sicuro? Risponderò con le parole di una collega: “in questi casi uno/a psicoanalista non sbaglia mai”) per problemi complessuali legati alla figura materna (inevitabile!). Arrivate verso la fine e capirete perché. Quando lui deve baciare un’altra tizia, sul set cinematografico, lei è abbastanza sveglia e sa quello che vuole, ma lui la bacia come un merluzzo. Più avanti incontrerà una professionista del sesso, e neanche stavolta niente, anzi se la porta a cena dai suoi. Dall’altro lato, la biondissima, inconsciamente (ma anche consciamente) delusa dal fidanzato disinteressato, sarebbe disposta a cercare padre edipico o vero uomo che la ami.  Ma per farla breve, il destino è proprio avverso, ma non è detto che non possa ritessere gli eventi… Ma tutto, alla fine,  ripassa per Edipo.

Certo, questa lettura vede solo ciò che vuol vedere, ha le sue falle e non spiega tutto bene, e soprattutto non spiega la genesi di questo film. Sarebbe più interessante considerare invece questa sorta di coazione alla Shahrazād del nostro regista che sembra debba necessariamente far uscire un suo film ogni anno (o quasi) per, credo, sconfiggere la morte. Tuttavia non sempre l’empito creativo è pari al peso di questo ritmo produttivo, e più segni rivelano stanchezza, né si avvertono quei ritmi  veloci e quella costruzione di sceneggiatura ben collaudata come nei tempi migliori. In questi casi si ripesca qua e là nei vecchi cassetti, tra ripetizioni, vecchie idee, e stralci di sceneggiature del passato. Quindi innamorati teneri e sprovveduti, ragazze belle, imbranate e ingenue, la New York degli scorci romantici, personaggi che flirtano con la depressione, amori che non durano, tradimenti lievi e simpatici dietro ogni angolo, madri invadenti e pervasive (ricordate l’episodio alleniano Oedipus wrecks in New York stories, 1989?), e soprattutto l’immancabile Destino che scombina e ricombina le carte. Ma il solito graffiante umorismo yiddish è in pensione, l’ironia è sbiadita, il pessimismo esistenziale si è diluito con la pioggia, per far posto ad un ‘benevolismo’ sentimentale gradevole e lievemente edulcorato. La stessa freccia verso la persistente madre edipica è spuntata: il personaggio della madre qui non funziona bene, è scritto grossolanamente, in pochissime sequenze sono condensati troppi eventi  decisivi e infine l’attrice – Cherry Jones – appare abbastanza inadeguata alla parte.

E per l’appunto, a differenza della maggior parte dei film precedenti alleniani, caratterizzati in genere da una grande cura nella scelta dei personaggi secondari, anch’essi dotati di carattere e personalità, con attori anche di rilievo, qui tutti i personaggi collaterali sono anonimi e opachi, senza carattere e salienza, incrementando la spiacevole sensazione di un film fatto in fretta con i resti di magazzino. Riguardo i ruoli principali, W. A., come sempre (fateci caso) ha la bravura, o il genio, di saper sempre catturare per i suoi film gli attori più sulla cresta dell’onda (che lavorerebbero per lui anche gratis), e qui infatti due acclamatissimi e bellissimi del momento, cha fanno quello che possono (ma lei è più in stato di grazia).

E ancora, una scenografia di ambienti molto alto borghesi, come in certe sophisticated comedies hollywoodiane degli anni’30 e ’40, dove tutti sono ricchissimi e felici, e la vita sembra scorrere in un continuo inebriante party.  Questo Woody Allen sembra davvero mettere in scena una contemporaneità che non esiste, ma che è ‘di un altro tempo’. Guardare i personaggi principali, come parlano, come si regolano tra di loro, come non si sfiorano mai: appunto qui ritorna, più seriamente il tema della non-sessualità che traspare; ma è chiaro, sono ragazzi di quei tempi ormai remotissimi in cui i fidanzatini al massimo si davano un bacio sotto casa di lei. Guardare anche il mondo che ruota loro intorno: potrebbe essere una commedia di altri tempi, ambientata in un’Europa fin de siècle da operetta, o in una Torino da libro Cuore. Questo fuori-tempo è l’essenza dell’arte, direte voi. Certamente, ma c’è qualcos’altro che non fa volare magicamente questo film, e che lo zavorra. Come se segnalasse una perdita di contatto del regista con la realtà attuale. Ricorderei come nel momento in cui W. A. girava questo film, per le strade di New York si agitava il movimento di Occupy Wall Street. È quindi evidente come  W.A. possa solo continuare a girare film su un suo mondo, su una New York irreale, e che non è neanche più quella di Io e Annie (1977) e di Manhattan (1979), su un suo mondo poetico (qui lievemente affaticato) ma collocato ormai a considerevole distanza rispetto alla capacità di saper raccontare della nostra contemporaneità.

Va bene, gli perdoniamo anche questa. E anche se, in definitiva, si tratta di un film fatto di resti, di raschiamenti del fondo del barile creativo, di spiriti residuali del nostro W.A., si tratta pur sempre di un film di un genio dei nostri tempi, che non va perso di vista, anche nei momenti più spenti, di stanchezza o di pausa, dopo i quali riprenderà, speriamo, un nuovo slancio. Anche perché, per dirla tutta, e per sostenere le angosce del nostro amato regista, Shahrazād, a quota mille più uno ci era arrivata.

 

Dicembre 2019

 

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