Cultura e Società

“Un semplice incidente” di J. Panahi. Recensione di A. Meneghini

2/12/25
"Un semplice incidente" di J. Panahi. Recensione di A. Meneghini

Parole chiave: trauma, ambiguità

Autore: Alessandra Meneghini

Titolo del film: Un semplice incidente

Dati sul film: regista Jafar Panahi; 2025; 101 minuti; Iran, Francia, Lussemburgo; genere: drammatico.

Dietro il titolo apparentemente dimesso (e bellissimo per il suo sconcertante candore), si cela in realtà un film complesso e sfaccettato che racconta da un’angolazione originale i vissuti traumatici individuali e collettivi connessi alla violenza di stato. L’autore è il pluripremiato regista iraniano Jafar Panahi, più volte incarcerato per motivi politici nel suo Paese e, per questa pellicola, vincitore della Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes.  

Il film inizia con la cinepresa fissa che inquadra l’abitacolo di un’auto, dove una normale famiglia sta compiendo un viaggio notturno lungo le polverose strade iraniane. Mentre l’uomo è impegnato alla guida, la donna parla alla figlioletta del fratellino in procinto di nascere. Improvvisamente si sente un rumore sordo: la macchina ha urtato qualcosa. Si fermano e l’uomo scende nel buio per capire cosa sia successo. La cinepresa rimane concentrata sul volto interdetto dell’uomo: da un guaire dolente, si capisce che ha investito un cane. Il viaggio riprende, ma qualcosa non funziona: il mezzo arranca, perde colpi e infine si ferma. L’uomo cerca aiuto in quella che sembra essere una piccola officina. Uno dei due operai va in soccorso della famiglia, cercando di far ripartire l’auto, mentre l’altro, di nome Vahid, sui ponteggi, osserva dall’alto; osserva, ma soprattutto ode. Le inquadrature mutano, facendosi oblique e portando lo spettatore a percepire ciò che vede e sente Vahid. Così, l’automobilista ora appare in soggettiva: lungamente la macchina da presa ne inquadra di volta in volta le gambe, il busto, la schiena, in una scomposizione cubista di ciò che prima appariva come intero, lasciando lo spettatore disorientato, smarrito in un’inquietante attesa senza tempo. C’è poi quel particolare fruscio che accompagna il passo dello sconosciuto …

Solo più avanti, in après coup si potrebbe dire, suoni e rumori prendono forma e significato per lo spettatore, lasciando intravedere un’atroce possibilità: quel gentile padre di famiglia potrebbe essere la stessa persona che, agendo per conto del regime islamico, in passato aveva torturato Vahid e tanti altri, sospettati di essere avversi alla dittatura.

É chiaro ora perché l’operaio non può vedere che “a pezzi” l’oggetto; per certi versi, non può che “farlo a pezzi”, come esito dissociativo di eventi traumatici inelaborabili e insieme come segnale di un potente movimento interno di identificazione con l’aggressore (Ferenczi, 1932-1933).

Il film di Panahi si snoda attorno a questo terribile dubbio che scava dentro il passato apparentemente sepolto dei personaggi, riportando alla luce ferite mai cicatrizzate e traumi mai narrati. Sì, perché di memorie traumatiche si tratta, che necessitano di altre menti per essere contenute e per trovare una via di elaborazione tramite la parola. Così, nella trama concitata del film, via via si aggiungono altri ex prigionieri: la fotografa Shiva, il suo ex compagno Hamid e Golrokh, una giovane donna in procinto di sposarsi, tutti ingaggiati da Vahid per stabilire una volta per tutte se l’uomo sia veramente il loro sadico aguzzino di un tempo. Un volto che non è possibile ricordare perché non era mai stato visto, essendo stati loro bendati: potente traduzione filmica di quella che è una sorta di cecità psichica, il diniego, a cui la mente si aggrappa nel disperato quanto necessario tentativo di far fronte a una realtà che eccede di gran lunga le sue capacità di contenimento. Ciò che non può venire rappresentato rimane però come resto, come eccedenza sensoriale, spezzettato, dissociato, nelle menti dei vari componenti del gruppo di ex prigionieri: c’è chi risente con ribrezzo l’odore corporeo dell’aguzzino, chi con rabbia il suo suono della voce, chi con terrore quel suo particolarissimo trascinare l’arto protesico. Tutto ciò non permette ancora di accedere alla rappresentazione dell’oggetto intero, alla pensabilità del trauma individuale e collettivo.

Così, l’enigma sull’identità dell’uomo rimane inspiegabilmente aperto, rimandando a specchio l’ambiguità (Bleger, 1967) identitaria di ognuno dei componenti del gruppo riemersa drammaticamente ora, nel contatto con il possibile seviziatore, ma sperimentata prima, durante le torture in carcere, nel momento cioè in cui ci si adatta a qualsiasi cosa (Amati Sas, 1996), dove i confini tra sé e l’altro sfumano, per fronteggiare indicibili angosce di annientamento psichico e corporeo. É per questo che l’enigma identitario resiste, non si scioglie, portando Vahid e gli altri a percorrere affannosamente le strade trafficate del loro paese piuttosto che a sostare nel silenzioso deserto iraniano al tramonto, alla ricerca di una risposta nella realtà esterna che solo altrove potrà darsi.

É per il tramite della mente gruppale che i protagonisti del film riusciranno a dare parola a memorie sensoriali fino a quel momento rimaste mute, trasformandole in affetti rappresentabili, aprendo così la via per la simbolizzazione del trauma. Così, identificandosi con il proprio bambino interno inerme e violato, il gruppo troverà un oggetto da salvare (Amati Sas, ibidem) nella figlia dello sconosciuto, terrorizzata perché rimasta sola, ristabilendo così ognuno i confini della propria identità e, conseguentemente, sciogliendo l’enigma sull’identità dell’uomo.

Muovendosi agilmente tra vari registri narrativi: il thriller, il dramma e la surreale ironia, Panahi racconta con cristallina umanità le vicende del suo Paese, scosso da continui rigurgiti di repressione e violenza che egli stesso ha conosciuto. Il film è tanto più prezioso considerando il tempo attuale, in quanto sembra indicare la speranza legata l’accoglimento da parte di un’altra mente di vissuti traumatici indicibili, condizione necessaria per il loro contenimento e la loro simbolizzazione, unici antidoti rispetto rischio di agire altrettante repliche amplificate e vendicative della distruttività. 

BIBLIOGRAFIA

Amati Sas S. (1996). La modesta onnipotenza. In: Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale. Franco Angeli, Milano, 2020.

Bleger J. (1967). Simbiosi e ambiguità. Armando Editore, Roma, 2010.

Ferenczi S. (1932-1933) Diario Clinico, Cortina Editore, 1988.

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