Cultura e Società

“Wolf”di N. Biancheri. Recensione di E. M. Izzo

29/11/22
"Wolf"di N. Biancheri. Recensione di E. M. Izzo

Parole Chiave: Disforia di Specie, Istituzioni psichiatriche, Salute Mentale

Autore: Ezio Maria Izzo

Titolo: “Wolf”

Dati sul film: regia di Nathalie Biancheri, Irlanda, UK, Polonia, 2021, 99’

Genere: drammatico, thriller

Dobbiamo ringraziare Susanna Pellis per aver curato alla Casa del Cinema di Villa Borghese un’anteprima di “Wolf” (2021) della regista Nathalie Biancheri. La giovane regista, nata a Londra, vissuta fra la Gran Bretagna, gli Stati Uniti d’America e l’Italia, fin dalla sua prima opera “Nocturnal” (2019) aveva affrontato il tema dell’incomunicabilità, che in “Wolf” si esprime con una patologia mentale che spinge la persona a regredire alle fasi primitive della evoluzione ontogenetica, fino a preferire di vivere come un animale, tentando di impadronirsi della gestualità e del linguaggio semplice, ma incredibilmente più comunicativo di quello umano. Questo comportamento è il tema angoscioso del film, è il risultato della difficile relazione con la madre e con tutto l’ambiente originario, sentito come incapace di comprendere. Nella storia del Cinema il tema dell’incomunicabilità è stato trattato nella commedia come nel dramma, per raccontare la difficoltà delle relazioni interpersonali.

In “Wolf “questa incomunicabilità spinge tragicamente alcuni soggetti a ritornare alle origini della evoluzione della specie umana e, con una recitazione eccellente di tutto il cast, tra cui George Mackay e Lily Rose Depp come protagonisti, assistiamo alle storie di giovani che così si difendono da rapporti con genitori impreparati ad essere tali.

Il rifugio, per questi giovani malati, per il loro frustrato desiderio di ricevere un’autentica comprensione, è una Clinica Psichiatrica privata, specializzata per la cura della patologia definita species dysphoria nel D.S.M.V, diagnosi che arriva dagli Stati Uniti, dove è stata riconosciuta. In Europa è conosciuta la licantropia, un delirio di trasformazione, per cui una persona crede di essere un animale, un lupo nel racconto mitico. Nulla di ciò compare nei testi di diagnostica degli psicoanalisti (Dazzi, Lingiardi, Gazzillo  2009) ( Mc.Williams 1999). Nell’ultimo decennio gli psicoanalisti hanno invece osservato e studiato le problematiche dell’ identità di genere, non di specie, tematiche dei gruppi conosciuti come LGBTQ+ e nuove configurazioni familiari.

La diffusione geografica troppo dispari della patologia di specie, meriterebbe un’approfondita riflessione, che non poteva rientrare nel tempo di un’opera cinematografica.

In questa Clinicai metodi di cura sono quelli di una psicologia del comportamento esasperata e sono messi in atto da terapeuti che vorrebbero far capire a questi pazienti di poter vivere nella società degli umani, soltanto se ci si allinea ad un contegno dettato da uomini che non sanno e non vogliono pensare che possa esserci in quei modi un significato e anche un messaggio, seppur delirante.

Fin qui lo spettatore può trovare comunque un elemento di denuncia di un trattamento terapeutico autoritario, distruttivo della creatività della persona, come si vedeva prima del ’68 negli Ospedali Psichiatrici di tutto il mondo. Ma dal famoso “Qualcuno volò sul nido del Cuculo” di Milos Forman (1976) molti anni sono passati e in Italia abbiamo visto nel ’78 la promulgazione della legge 180, che ha garantito il riconoscimento dei diritti umani ai malati psichiatrici. La legge Basaglia è stata approvata con lo scopo primario di chiudere i manicomi, luoghi presi ad esempio di violenza e di emarginazione sociale, oggi sostituiti da istituzioni che non hanno però molto di diverso dal clima culturale di allora.Doveva essere chiusa anche quella cultura, oltre a quei luoghi!

Troviamo in “Wolf” anche questo aspetto di denuncia, certamente spettacolare, ma non credo che per gli spettatori siano l’interesse e lo stimolo maggiori a pensare. Sia per i giovani, bombardati dalla anti-cultura della post-modernità, sia per i non più giovani, oggi ormai lontani dal cavalcare la psichiatria ideologica degli anni ’60.

Ecco allora che la Biancheri trova le spezie e i sapori forti della violenza, per rappresentare il tema al pubblico del nostro tempo. Del protagonista, regredito a ragazzo-lupo, si innamora una giovane paziente che viene chiamata solo con il nome di un animale, Wildcat , ovvero “gatto selvatico”. WildCat è fin da piccola in quella clinica dalla quale non vuole più uscire. Cerca di aiutare Jacob, il lupo, con il suo amore. Vuole aiutarlo a ricordare il suo essere un umano e per riuscirvi scende sempre più verso l’animalità dell’amato.

Nella scena più potentemente toccante del film Wildcat, convinta di non poter abbracciare e baciare Jacob come farebbe una donna con l’uomo che ama, lo avvicina, anche lei a quattro zampe, in  un lungo armonico incontro fatto di mosse, sussulti, sguardi, spostamenti, balzi che fanno di loro una stupefacente, ma tragica coppia di animali in corteggiamento.

Quando poi il ragazzo-lupo, per una risposta fisica aggressiva verso i terapeuti, viene messo in una gabbia, Wildcat va a trovarlo e da dietro le sbarre si scambiano baci come due innamorati umani. Dove li porterà quell’amore?

È profondo il pessimismo della Biancheri che vediamo nelle ultime scene del film. È un pessimismo dichiarato anche da Freud che così scriveva a Lou Andreas Salomè: “Non ci resta che abdicare, e il Grande Sconosciuto […] ripeterà in futuro l’esperimento con un’altra razza” (1914, 17).

Riferimenti bibliografici.

Dazzi,N. Lingiardi,V. Gazzillo, F.(2009) La diagnosi in psicologia clinica.  Astrolabio, Roma

Freud, S., Andreas-Salomé, L.(1912-1936). Eros e conoscenza. Lettere 1912-1936, Bollati     Boringhieri Torino, 2010.

McWilliams, N.( 1999) La diagnosi psicoanalitica. Astrolabio, Roma

Novembre 2022

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