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A. A. Semi: “Il trauma della Shoah non si supera, è una condanna a vita”. Huffpost 26/1/2022 di D. D’Alessandro

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Parole chiave: memoria, traumi storici, Semi

Antonio Alberto Semi: “Il trauma della Shoah non si supera, è una condanna a vita”. Huffpost 26/1/2022 di D. D’Alessandro

Huffpost 26 gennaio 2022

A colloquio con A.A.SEMI, “Il trauma della Shoah non si supera, è una condanna a vita.”Introduzione: “…un trauma nel quale alla violenza a sé stessi si associa la violenza di una assenza culturale, un vuoto improvviso di umanità circostante… è una condanna a vita”. Queste le parole di Antonio Alberto Semi, in occasione del 77 esimo anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz., rilasciate in questa intervista a Davide D’Alessandro.( Maria Antoncecchi)

Davide D’Alessandro, saggista

Antonio Alberto Semi psichiatra, psicoanalista Full Member AFT della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalityc Association.

Intervista ad Antonio Alberto Semi

di Davide D’Alessandro

Un essere umano, sostiene la scrittrice Edith Bruck, non è un numero ma un mondo. E di questo mondo si prende cura la psicoanalisi, chiamata a chinarsi sul dolore, a tendere l’orecchio al dolore che non muore. La Giornata della Memoria è occasione per far sì che il ricordo della Shoah sia fissato, serbato, per non perderlo tra le maglie della frenesia quotidiana. Con l’essere umano, del resto, c’è sempre il rischio che, appena il giorno dopo, quell’idea sfumi, quelle tragiche immagini valgano meno, siano meno presenti.
Ne parlo con Antonio Alberto Semi, uno dei più importanti psicoanalisti freudiani, che dall’osservatorio veneziano ha visto navigare, per decenni, gondole umane sempre precarie e vacillanti. Ha curato il “Trattato di psicoanalisi”, edito da Raffaello Cortina, ha scritto libri rilevanti ma, più di ogni altra cosa, ha ascoltato tanti pazienti, ha vissuto i loro traumi, i loro sogni, i loro pianti, le loro disperazioni.


La psicoanalisi, che si nutre di memoria, ha parole per dare significato a questa giornata?

“No. Ha affetti da provare e riprovare, per consentire alle parole di ritrovare un significato, che per la Shoah è il senso della devastazione, terribile ma necessario da sentire sulla propria pelle almeno un po’. E poi il senso positivo – non colpevole, come invece a volte capita – della sopravvivenza: non siete riusciti e non riuscirete a distruggerci. Dove nel ‘ci’ bisogna includere non solo gli ebrei ma tutti gli esseri umani (che all’aggettivo ci tengono). Mi sembra che non si tratti di “conservare” il ricordo, ma di accorgerci che ricordare vuol dire riprovare: altrimenti il rischio è quello di guardare una serie di fotografie di sconosciuti, mentre quelli lì possiamo essere noi”.


Nei decenni di attività professionale le è capitato di avere davanti pazienti toccati in modo diretto o indiretto da quell’evento?

“Nipoti o figli di perseguitati sì, che fortunatamente erano molto diversi uno dall’altro. Nel senso che, benché essa pesasse, l’eredità del trauma non era stata tale da impedire una soggettivazione.
Soprattutto pesava per il silenzio, per quel che essi ‘sapevano’ (preconsciamente o inconsciamente) che non era stato detto, che non era dicibile. Diventava una raffigurazione del limite ma di un limite negativo. ‘Non puoi andare oltre’. Invece, tutti abbiamo bisogno di sentire che solo se il limite può essere oltrepassato, può essere anche rispettato. Se si può anche solo in parte sentire quel che sente l’altro, superare il suo confine personale, si può anche comprendere perché e come rispettarlo”.


Che cos’è il trauma? Lo si supera o si impara a conviverci?


“Bisogna distinguere: quel tipo di trauma lì, quello della Shoah o dei genocidi, è difficilissimo da superare perché è un trauma nel quale alla violenza a sé stessi si associa la violenza di una assenza culturale, un vuoto improvviso di umanità circostante. Si può convivere tragicamente con quel trauma, ma è una condanna a vita.
I traumi che hanno una motivazione razzista sono terribili anche per questo. Però qualcuno è anche riuscito a superare quel trauma, spesso identificandosi nella ‘vita’ delle generazioni seguenti. Nel trauma ‘normale’ (si fa per dire, tanto per capirci) la violenza dell’altro su di noi è isolata, non è il frutto di una condivisione sociale e non è la conseguenza di un giudizio di disumanità su di noi.
Sempre difficile ma più superabile”.

Il trauma si affronta soltanto con l’analista o aiuta comunque confidarlo anche a persone vicine, delle quali ci si fida?

“Si affronta anche con altri, certamente. Il problema però non è solo quello di riuscire a confidarlo condividerlo ma di riuscire a sperimentare e verificare il senso di ciò che chiamiamo ‘fiducia’. Per superare un trauma, occorre sperimentare un particolare tipo di fiducia, quello che Freud chiamava ‘intendersi’. È lo stato d’animo che prova il neonato quando un adulto soddisfa il suo bisogno, ad esempio di cibo: non passa solo la fame, si stabilisce anche la certezza che ‘qualcosa’ (il seno o il biberon, il neonato non concepisce ancora la persona intera di fronte a sé) può consentire di ristabilire
uno stato di pace. Il seno ‘consente’ e il neonato coglie questa occasione ‘ristabilendo’, dunque, una fiducia particolarissima, con sé ma permessa dall’altro. È difficile ri-stabilire, regredendo fino a quel tempo, questa possibilità di intendersi, difficile anche in psicoanalisi. Però è possibile”.


“Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, pubblicato nel 1921, è ancora un libro centrale per inquadrare e comprendere quegli anni di ubriacatura generale e quell’evento?

“È un libro da rileggere perché parla di situazioni sempre ripetibili. Le pagine sull’identificazione con un leader-duce capo, poi, vanno tenute sempre presenti. Per paradosso, si potrebbe dire che oggi siamo fortunati perché (almeno finora e facendo i debiti scongiuri) non ci sono personaggi in grado di rappresentare quel tipo di leader, abbiamo a che fare solo con figure non carismatiche e perlopiù meschine. Ma sono pagine che vanno tenute presenti anche perché mostrano l’altra faccia della identificazione: se inconsciamente ci si identifica con un altro, si diventa quest’altro e allora non si è più sé stessi. Il prezzo dell’identificazione massiccia è l’alienazione, effetto sgradevole ma anche
pericoloso, perché se non si è sé stessi si può fare qualsiasi cosa – uccidere, violare, torturare ecc. – senza esserne responsabili. Ci sono dei vantaggi nell’essere alienati”.

Anche Freud fu costretto a lasciare Vienna e a riparare a Londra. Che cosa avverte dentro di sé una persona che si sente, a ragione, perseguitato?

“Non lo so. Scrivendo da Londra una lettera a Jones, Freud parlava di ‘una lontananza così prossima’ perché – malato – non poteva intervenire appunto a Londra a una riunione della Società Britannica di Psicoanalisi. Forse era una lontananza anche psichica, tanto più dolorosa da avvertire quanto più segnalava che, comunque, il persecutore aveva provocato una reazione, aveva lasciato un segno, una distanza anche dai più vicini”.

Auschwitz l’hanno fatta gli uomini. Insomma, siamo proprio capaci di tutto?

“Possiamo combinarne di tutti i colori – e lo abbiamo fatto – ma non siamo capaci di tutto, nel senso
che non esiste una onnipotenza negativa (come non esiste quella ‘positiva’). Però facciamo del nostro
meglio per crederlo e farlo credere. Quel tanto di distruttività che abbiamo – ahimè – basta e avanza.
Per consolarmi, ogni tanto mi ricordo di un parente che – anche lui per consolarsi – diceva sempre:
‘Pensa cosa sarebbe successo, se avessero vinto i tedeschi e gli italiani!’. Però quel che era accaduto
era già abbastanza”.

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