Cultura e Società

In intimità con l’orrore: quale lavoro psicoanalitico con migranti e rifugiati? di Virginia de Micco

21/06/17

Chi è sradicato sradica scriveva Hannah Arendt,  il contatto con chi porta su di sé i segni dello sradicamento traumatico non lascia indenni , continua incessantemente a ‘sradicare’ ciò che gli si accosta. La percezione diffusa e immediata che i migranti portino ‘disordine e confusione’ traduce  il contatto, altrettanto traumatico, con un elemento ignoto innanzi tutto perché ha smarrito la ‘sua’ forma, la sua immagine e la sua stessa griglia di pensabilità, ignoto dunque innanzi tutto a sé stesso, tale ‘elemento’ spesso non ha più gli strumenti per ‘presentarsi’ in quanto umano.

La percezione dell’ ‘emergenza , cioè letteralmente ciò che emerge, è in questo senso soprattutto relativa al contatto con l’ignoto, in senso bioniano, che qui è parente stretto di un ‘ignoto’ in senso antropologico.

Mi riferisco a tutto ciò che cade fuori da un regime di pensiero, sia rispetto alla psiche che alla cultura, l’emergenza è sempre il non pensato, ciò per cui non si possiede ancora, e si dovrà cercare di trovare, uno spazio di pensiero. Tale ‘processo’ come ben sappiamo è sempre difficile e doloroso, passa sempre necessariamente attraverso l’odio e il rifiuto, attraverso l’esperienza dell’estraneità. Esperienza che in questo campo implica la necessità di entrare spesso in ‘intimo contatto’ con l’orrore.

Il luoghi dell’incontro con tali ‘emergenze’  diventano luoghi di problematica e complessa negoziazione, scenari di autentiche ‘crisi della presenza’ sia individuale che collettiva–volendo riprendere delle categorie demartiniane- tanto più  diffusa e pervasiva quanto più insidia il ‘quotidiano’ , quanto più dunque l’emergenza è il quotidiano.

Quotidiano che sembra perdere la sua rassicurante e ‘fidata’ ovvietà per caricarsi di presenze autenticamente unheimlischen ,  la cui perturbante vicinanza non fa che aumentarne l’angosciosa distanza.

In questa dimensione del ‘quotidiano’ occorre passare dall’angoscia dell’ignoto   (e di un ignoto che nel nostro caso specifico si ‘presenta’ a noi nelle forme di un ‘disumano’, ovverosia di qualcosa che ha smarrito le caratteristiche di ciò che siamo abituati a pensare come umano)  alla relazione con ciò che ci è straniero, ricordando con le parole della Szimborska “che solo ciò che è umano può esserci straniero”.

Ma per fare davvero esperienza dell’estraneità, per passarci attraverso,  bisogna tollerare che vengano mobilitate in maniera massiccia e immediata aree ‘psicosomatiche’ arcaiche.  L’esperienza dello straniero è innanzi tutto un “corpo a corpo”. Si tratta innanzi tutto di farne esperienza, sensoriale ed emotiva, pulsionale in senso lato: proprio perché non si condividono i mezzi simbolici di elaborazione delle ‘emergenze’ inconsce , intese sia come spinte pulsionali che come attese fantasmatiche, queste ultime si faranno sentire ancora più intensamente, cominceranno a invadere letteralmente il campo dell’esperienza sia intra- che interpsichica,  da cui la percezione diffusa di una invasione, che è innanzi tutto invasione del spazio del ‘pensabile’.

E’, invece, nella costruzione di uno “spazio dell’incontro” con tale ‘estraneità’ che il pensiero psicoanalitico è cimentato nel lavoro con migranti e rifugiati.

Testimoniare il trauma

Profughi e migranti delle più recenti ondate migratorie sono portatori di traumi massicci e di violenze ripetute che ne hanno sconvolto il tessuto identitario, traumi per molti versi inassimilabili psichicamente, con questo intendo indicare una qualità  molto più destrutturante della ‘semplice’ irrappresentabilità del trauma: si tratta di qualcosa che deve essere costantemente espulso dalla percezione psichica mentre il corpo vicaria quelle funzioni che la mente non è più in grado di svolgere, incaricandosi letteralmente di ‘essere il trauma’. Così i primi apparati psichici che ‘reagiscono’ al trauma sono proprio quelli degli ‘operatori’ dell’accoglienza, i primi a risultarne ‘affetti’, soprattutto nel senso di sviluppare le massicce reazioni emotive che la percezione ( la vista, l’udito)  dei traumi comporta. Gli occhi e le orecchie degli operatori sono quelli che per primi si lasciano ferire dai segni incorporati dell’orrore: cicatrici, ferite, mutilazioni.  “Tutte queste donne sono corpi che trascinano menti che non ce la fanno..” dirà un’operatrice in un momento di profondo insight.

Da qui la scelta metodologica di costruire una specifica funzione di ascolto analitico dell’orrore  attraverso il lavoro coi ‘testimoni’.

Vivere in ‘intimità con l’orrore’: questo significa vivere accanto ad un sopravvissuto. E’ questa una delle esperienze più difficili da elaborare, da reggere senza farsene distruggere, per gli operatori. Come pensare  una mente in regime di sopravvivenza, come rapportarcisi: è certamente questa una delle questioni che cimenta il nostro operare come psicoanalisti in queste condizioni estreme.

Vivere accanto silenziosamente attendendo che da quel silenzio possa ‘emergere’ una autentica parola sull’orrore, la necessità di una lenta e profonda ‘ricostruzione’ del tessuto del quotidiano, in cui soprattutto ‘chi vive accanto’ deve poter tollerare un regime ridotto al minimo di investimento emotivo, al limite un non investimento per tutto il tempo che sarà necessario perché una mente in regime di sopravvivenza, una mente che si è dovuta restringere e incapsulare in una mano aggrappata a una fune per poter sopravvivere nell’attesa dei soccorsi in mare ad esempio, una mente che è diventata come un ‘pezzo di corda’ quindi, possa di nuovo tollerare di tornare all’animazione della vita. Animazione che porterà inevitabilmente con sé il lancinante dolore di una mente che sente e vede l’orrore che fino ad allora si era necessariamente limitata a ‘portare’.

E’ indispensabile che gli operatori vengano aiutati a tollerare la necessità per i sopravvissuti di sostare ancora nel ‘disumano’, a immaginare quanto possa risultare intollerabile cominciare a ‘vedersi’ dal vertice di un quotidiano umano e a comprendere il disumano in cui si era precipitati.

In questo ‘ritorno all’umano’ avverrà una (ri)costruzione dolorosa e incompleta, che continuerà a portare dentro parti mute e mutilate, forse mai più recuperabili.

Incubare

Quando il disumano comincerà di nuovo a trasformarsi in umano bisognerà “  tentare di creare un luogo per ciò che ha avuto luogo. Questo luogo è la psicoterapia” ( Fédida, 2007).

Questo luogo sarà  un luogo particolare, sarà in molti sensi il luogo dell’incubo: come in tutti i traumi massici e precoci sarà necessaria una incubatrice prima di tornare a nascere ( si ricorderà come già Leon e Rebeca Grinberg assimilavano l’esperienza migratoria ad una vera e propria esperienza di rinascita). La stessa mente dei terapeuti dovrà funzionare a lungo come un’incubatrice, accontentandosi dapprima di fornire strettamente condizioni di sopravvivenza senza potersi presentare come oggetti troppo umani, non ancora investibili psichicamente. Poi dovendo incubare nella loro mente qualcosa che  non è ancora in alcun modo nè comunicabile nè dicibile per chi è ancora intrappolato nell’inumano. Si tratta di qualcosa che può essere in un certo senso solo ‘inoculato’ quasi come un virus: un’immagine insostenibile che viene letteralmente ‘messa negli occhi’ di un altro affinché il suo apparato psichico possa per primo guardare in quello che tu hai visto, soffrire quello che è rimasto congelato. Forse solo quando si potrà cominciare a vedere la propria ferita nello sguardo ferito dell’altro  -un altro che si è lasciato ferire nella sua umanità dal disumano-  forse solo allora, dicevamo, la mente che ha attraversato il deserto del disumano potrà cominciare a popolarsi  , ad affollarsi di incubi, laddove l’incubo diventa una sorta di area intermediaria tra l’allucinazione e il sogno.

In definitiva è come se il lavoro psicoanalitico coi migranti ci chiedesse di essere ancora più profondamente analisti, attraverso una rinnovata profondità di ascolto di quanto ci è più straniero, una grande tenuta della capacità negativa, messa particolarmente a dura prova, una costante attitudine autoanalitica capace di mettere in gioco le nostre stesse aree traumatizzate, aree mute  e sommerse, forse per noi stessi aree non analizzate e per questo particolarmente inquietanti e faticose da contattare: credo che sia la percezione di questa enorme fatica che talvolta possiamo sentirci impreparati ad affrontare e che siamo qui per cercare di tradurre, faticosamente e parzialmente, in pensiero.

 

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