Cultura e Società

Per una clinica interculturale

3/06/08

Virginia De Micco

Georges Devereux riteneva che i saperi della psicoanalisi e dell’etnologia non fossero addizionali, ma complementari; riteneva perfettamente plausibile da un punto di vista epistemologico che un medesimo fenomeno ammettesse due ordini di spiegazioni -etnologico e psicoanalitico- entrambi ‘veri’, o meglio non mutuamente esclusivi.

Se ciò è valido su un piano epistemologico generale bisogna però immediatamente segnalare come Devereux sottolinei sempre il diverso livello di appropriatezza, per così dire, dei due ordini di spiegazioni: ovverosia nell’interazione clinica col paziente si privilegia sempre e radicalmente il livello psicoanalitico: anzi, anche quando sembra che la prerogativa etnica, espressa dal paziente e riconosciuta dal terapeuta, contenga la chiave di volta della comunicazione terapeuticamente ‘efficace’, bisogna cercare di farne venire alla luce la motivazione psicologica ‘attuale’ sottostante. Si potrebbe addirittura, parafrasando Lagrange, sintetizzare così le raccomandazioni di Devereux nel lavoro clinico: “ricerca l’implicazione etnica e diffidane”, etnica si badi bene e non culturale, ma su questo dopo ritorneremo.

Il problema sostanziale consiste nel fatto che una volta che entriamo (inauguriamo) in un certo assetto procedurale (setting), in un determinato cadre di riferimento, che consiste sempre in un testo e in un contesto, un discorso ed un procedimento, la forma che assumeranno gli eventi che accadono è radicalmente influenzata da quel medesimo setting, il quale diventa contemporaneamente sistema di misura ed unità di riferimento, sia che si tratti del setting analitico sia che si tratti del ‘setting’ etnografico, ovverosia della ricerca sul campo di stampo etnologico Del resto se non venisse assunta questa sorta di autoreferenzialità si rinuncerebbe alla possibilità di fondare gli oggetti-concetti di queste due discipline, trattandosi appunto di scienze umane applicate e non puramente speculative. Ciò è vero d’altronde tanto per la psicoanalisi quanto per l’etnologia la quale costruisce i suoi oggetti in quanto oggetti etnologici, li segmenta secondo una particolare ragione etnologica, come ci ricorda brillantemente Amselle ad esempio, non diversamente da come fa la psicoanalisi.

In maniera apparentemente tautologica dunque potremmo dire che se ci disponiamo in un rapporto duale con un paziente straniero, utilizzando il lettino, con sedute stabilite di quarantacinque minuti, difficilmente potremo usare altro discorso e altre spiegazioni da quelle psicoanalitiche, non perché abbiamo intenzione di curare il nostro paziente o perché lui ci richieda di guarirlo ma semplicemente perché in questa condizione non potremo – o meglio non sarebbe appropriato- vedere altro.

Un altro problema è considerare se tale assunzione possa essere valida anche per il nostro paziente: da un certo punto di vista tale obiezione può essere considerata irrilevante perché anche se non è valida inizialmente può sempre diventarlo; il problema è semmai capire se senza un’adeguata considerazione culturale il setting può risolvere le implicazioni che esso stesso ha creato. I rischi possono cioè essere rappresentati da: 1) le condizioni di legame (a livello affettivo e simbolico) non si stabiliscono affatto ed allora tutti questi pazienti potrebbero rientrare nel gran calderone dei “non adatti ad un trattamento analitico”  oppure 2) non si riescono a risolvere i movimenti transferali e controtransferali che il setting stesso ha sollecitato perché si manifestano in una maniera culturalmente ( e dunque tecnicamente) inconsueta.

Continuando a seguire Devereux ricordiamo come questi ritenesse l’analisi del controtransfert molto più attendibile dal punto di vista scientifico rispetto a quella del transfert, per il semplice motivo che analizzare fenomeni che accadono nei pressi dell’osservatore consente, secondo uno schema epistemologico generale ricalcato sulla fisica, una maggiore esattezza e precisione.  Analisi quindi che pretende molto meno rispetto alla natura dell’osservato che rispetto alla natura dell’osservatore. Questa indicazione può rivelarsi preziosa nel sollecitare innanzi tutto una capacità di autoanalisi culturale da parte dello stesso terapeuta e nel ritenere preliminare e fondamentale non tanto, o non soltanto, una conoscenza particolareggiata delle specificità etniche di un determinato paziente, quanto la capacità di sviluppare una sensibilità specifica nei confronti delle proprie intime strutturazioni culturali, delle proprie scotomizzazioni culturali, di ciò che possono impedire di avvertire e di comprendere.

 

Per una clinica interculturale

Credo che l’espressione di clinica interculturale possa rendere meglio di altre i paradossi e le difficoltà del nostro specifico oggetto di indagine: l’interazione clinica tra terapeuta occidentale e pazienti non occidentali all’interno dei contesti di immigrazione. Tenendo ben presente come esso rappresenti il campo in cui uno specifico conflitto di interpretazioni può trovare lo spazio per articolarsi e per cercare una possibile via di risoluzione. Conflitto di interpretazioni che riguarda naturalmente non solo le discipline coinvolte: psicoanalisi ed etnoantropologia, ma anche le diverse interpretazioni culturalmente condizionate di terapeuta occidentale e paziente straniero.

La strutturazione e l’espressione delle manifestazioni psicopatologiche avviene sempre secondo modalità culturalmente condizionate; ogni cultura infatti elabora un suo sapere per concettualizzare e metaforizzare l’esperienza psichica ‘alterata’.

Tale assunzione viene però ‘bilanciata’ dalla necessità altrettanto viva di costruire una teoria clinica metaculturale accanto ad una pratica clinica interculturale, ovverosia una teoria che tenga conto del fattore Cultura nella strutturazione delle manifestazioni sintomatiche e delle strategie terapeutiche e non delle singole culture particolari: che possa cioè mettere in grado il ricercatore-terapeuta di comprendere ed utilizzare le specificità dei tratti culturali anche quando non conosce direttamente il significato di quel tratto culturale in quella cultura.

Ho già sottolineato come l’ordine culturale risulti strutturante per l’interiorità, attraverso la concretezza delle relazioni emotive precoci del bambino. Il processo di formazione psichica, così come del resto il processo terapeutico, avvengono dunque entro e attraverso un universo simbolico-linguistico. Tutto ciò  fa capire d’altra parte quali profonde ripercussioni possano manifestarsi a carico dell’apparato psichico quando il contesto culturale in cui si è immersi muta bruscamente come accade nell’esperienza migratoria.

 

Scenari clinici

Ancora Devereux sottolinea come le modalità di ammalarsi dal punto di vista psichico sono modellate culturalmente: ogni cultura offre secondo questo Autore dei modelli di anormalità, oltre che dei modelli di normalità, a cui bisogna uniformarsi nel momento in cui l’angoscia travalica le consuete difese. Essi funzionano come una sorta di segnali di allarme perfettamente riconoscibili dalla comunità ed utilizzabili dal ‘malato’ per innescare una sequenza diagnostico-terapeutica che si ripropone il controllo dell’angoscia del singolo (che sa come manifestare il disagio) e  della comunità (che sa con cosa ha a che fare e che cosa deve fare). Si potrebbe dire dunque che se da una parte il terapeuta occidentale non sa come curare, dall’altra il migrante non sa come ammalarsi.

Questo gioco a rimpiattino tra alterità culturale e alterità psichica, tra sintomo e cultura, può portare o a sovrastimare il disturbo psichico in una popolazione culturalmente eterogenea etichettando come deviante, come ‘malato’ ogni comportamento non omogeneo dal punto di vista culturale oppure, al contrario, a sottostimare la sofferenza psichica equivocando per specificità etnica, per diversità culturale, quelle che sono in realtà manifestazioni di disagio, seppure culturalmente connotate. Nell’interazione clinica in campo specificamente etnopsichiatrico, infatti, si privilegia un  lavoro terapeutico che si muove all’interno del mondo di credenze e di significati del migrante, mobilitando in questo senso in particolare le etiologie tradizionali dello stato di malessere  psichico, soprattutto l’universo mitico tradizionale e le complesse interazioni familiari. Una delle chiavi del discorso etnopsichiatrico va dunque individuata in quel doppio registro del sintomo -etnologico e psico(pato)logico- che bisogna essere in grado di ricostruire e in qualche modo di ripresentare al paziente nelle nostre comunicazioni.

La possibilità di ricostruire assieme al terapeuta un territorio simbolico intessuto di elementi culturali tradizionali, in cui sia possibile ricominciare a far circolare il proprio pensiero e la propria identità, risponde a quella necessità di “metaforizzazione dell’interiorità” che risulta, come abbiamo già sottolineato, psichicamente indispensabile, ma che si realizza solo attraverso strumenti simbolici culturalmente adeguati.

In questo consiste la più recente tendenza in ambito etnopsichiatrico, ovverosia nell’utilizzare esplicitamente nuclei concettuali e tecnici appartenenti alle terapie tradizionali nella terapia di pazienti migranti, mi riferisco in particolare alla lunga esperienza di Tobie Nathan, ormai abbastanza conosciuta anche in Italia. Non è certamente questa la sede per approfondire né per esporre una teorizzazione ricca e stimolante ma per molti versi discutibile. Mi limiterò comunque a segnalare che, al di là dell’uso che poi se ne faccia, nell’ambito di un’interazione clinica con un paziente straniero quasi inevitabilmente entreranno in gioco elementi legati all’universo mitico tradizionale, in particolare alle concezioni tradizionali legate allo stato di disagio psichico, ovverosia alle influenze magiche o alla trasgressione di qualche norma tradizionale, intrecciati alle complesse interazioni familiari.

Vanno a tale proposito segnalati alcuni elementi significativi per una riflessione: innanzi tutto tali complesse interazioni familiari allargate traducono sempre un’organizzazione sociale del gruppo, in cui sono rappresentate e ‘attivate’ istanze contrapposte sia affettive che relative alla distribuzione del potere al suo interno. Esse pertanto non costituiscono mai un’esperienza esclusivamente individuale per il paziente, il quale dunque andrà aiutato a comprendere se può effettuare una modifica del suo ruolo, della sua posizione piuttosto che del suo affetto, poiché questa porterà automaticamente con sé una ristrutturazione interiore dell’affettività. Potremmo dire che  l’intuizione freudiana per cui  la scoperta dell’assenza fallica sul corpo della madre provoca una reazione d’angoscia analoga a quella che si prova di fronte alla minaccia della caduta “del trono e dell’altare”, ovverosia il rispecchiamento tra catastrofe interiore e catastrofe sociale ( crollo del mondo culturale) è in questi casi più di un’analogia: è esattamente la stessa cosa. Se si spinge per una modificazione affettiva inaccettabile dal punto di vista culturale non crolla solo il singolo ma simultaneamente crolla il suo mondo, egli sta cioè attivamente distruggendo la sua famiglia, il suo paese, il suo sapere. Bisogna piuttosto spingere per un ricollocamento all’interno di un sistema di rapporti che sicuramente contiene al suo interno una posizione a partire dalla quale il soggetto potrà esprimere o antagonizzare un determinato moto affettivo.

Il problema dell’influenza magica coinvolge non soltanto una specifica concettualizzazione culturale del disagio interiore, e del rapporto tra universo visibile e invisibile, naturale e soprannaturale, ma mobilita sempre un universo di relazioni contemporaneamente fantasmatiche e reali che, mentre acquistano una straordinaria forza sul piano patogenetico, se opportunamente utilizzate potranno altrettanto bene lavorare a favore del ristabilimento di un equilibrio psichico.

 La trappola, per così dire, concettuale e segnatamente culturale consiste proprio nel ritenere alternative la spiegazione magica e la spiegazione psicologica del malessere: ovverosia nel credere che bisogna smontare in qualche modo la spiegazione magica per accedere alla vera, e risolutiva in maniera stabile, presa di coscienza sul piano psicologico: invece c’è sempre la possibilità di far filtrare una comprensione interiore di quello che sta accadendo entro le pieghe della visione magica.

L’espressione di timori magici avviene sempre in un’atmosfera di grande allarme e paura, in cui le stesse percezioni del paziente possono risultare alterate, la convinzione raramente è assoluta ma si offre a un trattamento dialettico, a un trattamento interpersonale: insieme dobbiamo stabilire cosa sta accadendo. Essa materializza psichicamente, mantenendo quello statuto liminare tra realtà e fantasma, profonde angosce persecutorie, indomabili ansie dis-individuanti, le quali posseggono una sorta di statuto trans -izionale che trapassa di continuo le frontiere dell’Io, sia in senso psichico che culturale. Molti pazienti è come se si chiedessero davanti al terapeuta occidentale: chi sta pensando questo? cosa lo pensa dentro di me? chi o cosa mi parla (nel senso di essere parlato da) così? 

Ed è esattamente su queste angosce che si può lavorare solo tenendo aperto l’accesso ‘magico’, che funge per così dire da  vincolo simbolizzante, che dà forma e figura al mondo intrapsichico e interpersonale del paziente. Per fare ciò è indispensabile comprendere il valore psichico di tali formazioni culturali, accanto alle loro caratteristiche etnologiche.

 

Osservazione clinica n.1: un paziente proveniente dal Mozambico, studente universitario con una buona conoscenza dell’italiano, comincia a sospettare un influsso magico in seguito a una serie di disturbi psichici e a una serie di incidenti a cui è andato incontro negli ultimi tempi, ma non può risolversi a credere in questa possibilità perché gravida di conseguenze nefaste, per di più è all’estero senza una ‘persona esperta’ che possa aiutarlo.

Consapevole del fatto che per lui, africano, le influenze magiche significano qualcosa che un europeo difficilmente può arrivare a comprendere – vanno prese cioè con grande serietà innanzi tutto, crederci o non crederci non è cosa da fare alla leggera- chiede dunque al terapeuta cosa ne pensi. E’ come se stesse dicendo che non può vivere né senza né con i sospetti magici ( e gli oscuri moti affettivi che vi sono connessi). Essi non possono essere perciò né sostenuti né eliminati ma probabilmente si può iniziare a mutarne il segno, vengono cioè mantenuti ma in uno statuto liminare che non irrompa nella coscienza, da cui funzionano come generatori di senso.

“Potrebbero essere un avvertimento”, dice allora il terapeuta, aprendosi ad una interpretazione catastrofica della propria comunicazione, rischio che deve essere corso, materializzato-evocato nel discorso, se si vuole cercare di superarlo.  “Allora è vero, mi dovrà accadere qualcosa”  reagisce il paziente. “Ma un avvertimento è anche un messaggio che ti manda qualcuno che ti vuole bene perché tu stia in guardia e non ti accada nulla” replica il terapeuta, presentificando esattamente quel misto di minaccia e di protezione dalla minaccia che occorre evocare.

Come si vede non ci si è azzardati né a confermare la realtà dei sospetti magici né a commentarne gli aspetti per così dire etnografici, trattandoli cioè come materiali culturali vagamente esotici, né tantomeno sono stati trattati come elementi destituiti di fondamento affrettandosi a ‘tradurne’ il vero significato in termini psicogenetici, ma vengono considerati, come in effetti sono, strumenti descrittivi estremamente efficaci di ciò che il paziente sta vivendo nei termini in cui egli può attualmente comprenderlo, o ancora meglio figurarselo. Se non si risponde in qualche modo alle ansie in essi pre-figurate non c’è nessuna possibilità di accedere a un livello comunicativo efficace, che vada proprio nella direzione di una maggiore  consapevolezza di ciò che sta accadendo. Tale risposta avviene dunque sul piano della creazione all’interno della relazione terapeutica di un linguaggio entro e attraverso il quale possa svolgersi il processo terapeutico.

 Bisogna considerare come  lo sviluppo della “parola efficace” (la parola che agisce e che cura: dall’interpretazione dell’analista alla formula magica) che rappresenta una caratteristica costante dei contesti terapeutici, differentemente declinata a seconda della loro specificità tecnica e culturale, sia in un certo senso moltiplicata nel lavoro clinico con pazienti stranieri,  i quali è come se apprendessero per la prima volta  a dare un nuovo nome (nella lingua  per loro ‘straniera’) a nuovi sentimenti, a nuove sensazioni o avvenimenti. Le nuove esperienze talvolta possono essere ‘nominate’ per la prima volta, con tutto ciò che questo significa, proprio perché ciò avviene in una lingua ‘straniera’, il che comporta una sorta di parziale estraneazione rispetto a quello che si sta dicendo.

Se ben utilizzata, la lingua ‘straniera’ all’interno della relazione terapeutica può funzionare come un compiuto ‘sistema di oggetti verbali transizionali.

Non è detto infatti che sia necessariamente utile condurre una terapia nella lingua già conosciuta dal paziente ( come si sa si tratta spesso delle lingue europee adottate in epoca coloniale, ed è dunque già molto controverso trattarle come ‘lingua madre’, molto difficilmente del resto si potrebbero usare dialetti o lingue precoloniali): può essere utile comprenderla, seguire le frequenti oscillazioni da una lingua all’altra, ma non necessariamente scegliere di usarla nella relazione. Anzi quando i passaggi da una lingua all’altra diventano frequenti è come se la libera fluenza del paziente fosse più vicina al momento di formazione linguistica, per così dire, del pensiero; la lingua del contesto di adozione, la lingua del terapeuta come rappresentante di tale contesto, può funzionare allora come fondamentale richiamo alla realtà, come vera e propria funzione di realtà. Anzi a volte un uso troppo disinvolto della lingua madre del paziente da parte del terapeuta può favorire uno sviluppo inelaborabile di movimenti transferali o addirittura dei veri e propri sviluppi psicotici.

Bisogna d’altro canto prediligere comunicazioni che sposino quel registro metaforico più volte ricordato, che possano cioè attraverso espressioni dirette e concrete materializzare le realtà psichiche che i pazienti ci presentano. Realtà che, letteralmente, ci mettono sotto gli occhi con le loro comunicazioni o con i loro sintomi.

 

L’esperienza migratoria, come del resto l’esperienza psicoanalitica, riattualizza una primaria esperienza di spaesamento rispetto al linguaggio ed al significato, mette nella condizione di confrontarsi di nuovo con la necessità di un progressivo farsi del senso, di un progressivo strutturarsi e consolidarsi del significato in una forma di enunciazione.

E’ come se l’esperienza migratoria, e il suo doppio terapeutico, richiedessero la formazione di nuovi giochi linguistici, giochi linguistici transculturali, per così dire, che possano riflettere nuovi rapporti oltre che nuovi significati, che possano consentire di (ri)strutturare esperienze interiori in un nuovo codice simbolico.

Tutto ciò tende alla costruzione di un universo referenziale ‘meticcio’, abitabile sia per il migrante che per il suo terapeuta: quel confine su cui ci si incontra può trasformarsi da linea sottile in spazio dove abitare.

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