Cultura e Società

Chimere. Ospitare l’irriducibile.  Lorena Preta

10/02/19

Lorena Preta

2018

 

Chimere

Ospitare l’irriducibile                                     

 

….Non avevamo diritto a procedere a una ripartizione cosí netta. Consentitemi di addurre un paragone (….). Immagino un paese con una conformazione del suolo varia – terreno collinoso, pianura e una catena di laghi – e con popolazione mista: vi abitano tedeschi magiari e slovacchi, i quali per di piú svolgono attività diverse. Ora, la ripartizione potrebbe essere tale per cui i tedeschi, che sono allevatori di bestiame, abitino nel territorio collinoso, i magiari, che coltivano i cereali e la vite, in quello pianeggiante, e gli slovacchi, che praticano la pesca e intrecciano vimini, sui laghi. Se questa ripartizione corrispondesse a un taglio netto…..pensate come sarebbe comodo a scuola per l’ora di geografia. È verosimile invece che, se vi mettete in viaggio per la regione, troviate meno ordine e piú mescolanza. Tedeschi magiari e slovacchi vivono sparsi ovunque; nel territorio collinoso vi sono pure campi coltivati e anche in pianura viene allevato bestiame. Alcune cose, naturalmente, sono tali e quali ve le siete aspettate, giacché sui monti non si trovano pesci e nell’acqua non cresce vino. In conclusione, l’immagine del paese che vi siete portata appresso può corrispondere nell’insieme; nei dettagli dovrete tollerare alcune discordanze.

 

In questa suddivisione della personalità in Io, Super-io ed Es, non dovete certo pensare a confini netti, come quelli tracciati artificialmente dalla geografia politica. I contorni lineari, come quelli del nostro disegno o della pittura primitiva, non sono in grado di rendere la natura dello psichico; servirebbero piuttosto aree cromatiche sfumanti l’una nell’altra, come si trovano nella pittura moderna. Dopo aver distinto, dobbiamo lasciar confluire di nuovo assieme quanto è stato separato.

 

(S. Freud, Opere, Introduzione alla psicoanalisi, 1932, Boringhieri, Torino, 1989, vol. XI)

 

Per molti anni il tema delle contaminazioni, anzi le ‘contaminazioni feconde’ come recitava un numero di Psiche, è servito da modello per interpretare i fenomeni della mente e della realtà sia culturale che sociale.
Sembrava evidente come esse avvenissero ‘spontaneamente’ in qualsiasi campo e dominio, da quello psichico a quello socio-culturale, a quello dell’ambiente naturale, una sorta di contagio tra differenti livelli che metteva in contatto situazioni intrapsichiche ed esterne.

Usando le parole di Roberto Esposito:

 

“Per quanto riguarda il contagio dovremmo cominciare a capire che esso non è qualcosa di esteriore, di successivo, e dunque di evitabile, da parte di entità biologiche preesistenti, ma che fin dall’origine è parte della struttura propria del vivente nel suo rapporto con l’ambiente. Il processo di contaminazione, in questo senso, va inteso come un dato originario ed universale: l’universo non è che un unico, gigantesco, meccanismo di contaminazione. Non solo. Ma – quel che più conta – è a doppia direzione incrociata: nel senso che non esiste mai una differenza assoluta tra l’elemento contaminante e quello contaminato.

Ogni organismo, grande o piccolo che sia, contamina il proprio ambiente in maniera chimica, olfattiva, sonora e contemporaneamente ne viene contaminato. Lo trasforma e ne è trasformato. Da questo punto di vista, gli stessi uomini, che pure si difendono con ogni mezzo dalla contaminazione virale, sono considerabili dei virus in continua attività d’infezione rispetto all’ecosfera planetaria. Per non parlare della tecnica: che da un lato ci difende dal contagio ambientale con strumenti sempre più sofisticati e dall’altro produce essa stessa nuova contaminazione. I virus che attaccano i computer, ad esempio, ne sono essi stessi prodotti in un circuito che non è possibile spezzare in due vettori contrapposti.…..Ogni organismo umano costituisce il contaminante per eccellenza l’ambiente naturale di miliardi di batteri. Al punto che certe epidemie che in alcuni momenti si scatenano con effetti devastanti potrebbero interpretarsi come una terribile risposta immunitaria del sistema terra nei confronti di un parassita umano in continua crescita quantitativa… delle infinite infezioni che il nostro sviluppo infligge all’ecosfera planetaria.”[1]

 

Questa pervasività e onnicomprensività dei fenomeni di contaminazione si appella dunque al fatto che essa costituisce una ‘funzione naturale’ ed essenziale anche per il pensiero e la creatività.
Le contaminazioni infatti erano definite ‘feconde’, anche se allo stesso tempo andava dimostrata più che la loro necessità o bontà, la complessità dei vari piani sui quali si presentavano.
Si parlava di migrazioni interdisciplinari, nozioni clandestine, ibridazioni feconde, per rappresentare un processo continuo e dinamico dove l’ufficialità e l’istituzionalità anche dei pensieri vivono in tensione dialettica con il non riconosciuto, l’eretico, l’estraneo che si infiltra nell’ordine costituito. Processo drammatico e complesso ma anche l’unico che possa rendere possibile l’incontro con la diversità o con lo straniero, l’altro da sé.

 

Dalla contaminazione feconda alla difesa immunitaria

 

Evidente comunque sembra l’aspetto di rischio che questo comporta. Lo stesso Esposito in Immunitas[2], sottolinea maggiormente i fenomeni di ‘difesa’ rispetto alle forme di contagio:

 

“Il dispositivo immunitario ( che) permette la protezione attinente all’ambito medico e all’ambito giuridico – che tuttavia si è andato estendendo nel corso del tempo a tutti gli altri settori e linguaggi della nostra vita, fino a diventare il punto di coagulo, reale e simbolico, dell’intera esperienza contemporanea. Oggi, alla fine della stagione moderna, l’esigenza di protezione è diventata il perno intorno al quale si costruisce sia la pratica effettiva sia quella immaginaria di un’intera civiltà. E per farsene una prima idea, basti guardare al ruolo che l’immunologia – cioè la scienza deputata alla definizione dei sistemi immunitari situati nel nostro corpo – ha assunto non solo sotto il profilo medico, ma anche sotto quello sociale, giuridico, etico. Si può dire in breve che essa sia divenuta il fronte lungo il quale si è organizzata l’intera battaglia per la conservazione e il prolungamento della vita. ( …. ) Ma  l’immunità, necessaria a proteggere la nostra vita, se portata oltre una certa soglia, finisce per negarla: nel senso che tale protezione, se spinta oltre un certo limite, costringe la vita entro una sorta di armatura nella quale si perde non solo la nostra libertà, ma il senso stesso della nostra esistenza individuale e collettiva: vale a dire quella circolazione sociale, quell’affacciarsi dell’esistenza fuori di sé, che io definisco con il termine ‘communitas’”…

Si tratta di un cambiamento di accento se non proprio di prospettiva, che serve ad introdurre un vertice diverso rispetto a quello della fecondità delle contaminazioni.

 

 

Soggetti dislocati

 

Negli ultimi tempi sempre più la preoccupazione si è andata accentuando. Certamente hanno inciso i fenomeni ai quali abbiamo assistito negli ultimi anni, l’uso sempre più massiccio delle biotecnologie, delle realtà virtuali, il terrorismo, i fenomeni migratori.

Sembra ogni volta di snocciolare un ‘rosario della contemporaneità’, ma questi in effetti sono i nodi che costellano la nostra attuale esperienza del mondo.

I fenomeni della globalizzazione in maniera velocissima e pervasiva hanno sempre più allargato i confini geografici dei Paesi determinando un’omogeneità ed uniformità mai viste finora. Lungi però dal risultare una riduzione seppure costrittiva, ad un denominatore comune, si scatena piuttosto una sensazione angosciante di non appartenenza, di destrutturazione,  di dislocazione.[3]

In Occidente questo appare molto evidente ma anche nell’Est assistiamo al presentarsi di problematiche simili, come fossimo in un grande laboratorio planetario dove si generano reazioni diverse ma provocate dalla stessa sostanza.

Possiamo dire più in generale che i comportamenti che osserviamo nella società attuale, anche in paesi diversi del mondo, sembrano caratterizzati da una tendenza ad “agire l’inconscio” come se questo fosse rivoltato fuori e si fosse persa la necessaria distinzione tra mondo interno e  realtà esterna e i molteplici elementi che caratterizzano il soggetto fossero evacuati e frammentati, secondo la modalità del pensiero psicotico.

La costituzione della psiche basata sull’interazione tra la singolarità psichica e il sistema sociale dovrebbe necessariamente passare attraverso un’appropriazione dei significati comuni contenuti nel deposito dell’immaginario sociale, che a sua volta li produce in una relazione di trasformazione reciproca.

Per attuare questo processo però è necessario un luogo che funga da spazio di elaborazione, che sfugga alla compulsione dell’agire, dove il soggetto possa sostare e riconoscersi, mentre ora la soggettività sembra invece dislocata sempre altrove, in un luogo fisico esteso che ormai comprende il dentro e il fuori senza soluzione di continuità. Un tutto presente, orizzontale e simultaneo.

La rappresentazione del corpo è completamente alterata. Spesso sembra di assistere alla creazione di una contro-realtà fattuale che si allontana dall’esperienza del corpo come lo conoscevamo finora, per portarci in una dimensione altra, simile ad un’allucinazione.

Come si vede anche in molta arte contemporanea o in certe pratiche adolescenziali sul corpo, è portato sulla scena un corpo alterato, stravolto, reso irriconoscibile, le sue parti e i suoi organi usati in maniere inusuali.

Non sembra che i corpi che ci capita di incontrare anche nei nostri studi, nei mass media, nella rete, siano corpi alla ricerca di un Sé corporeo autentico, appartenente a un individuo identificabile, ma sembrano aderire piuttosto a un immaginario collettivo che li esalta svuotandoli delle loro caratteristiche soggettive.

Assistiamo a dei fenomeni di embodied dislocations ( dislocazioni incarnate) dove il senso è completamente appiattito sul corpo che lo assorbe come in un buco nero da cui è difficile estrarre dei significati e sembra impossibile ogni elaborazione, e allo stesso tempo a delle disembodied dislocations( dislocazioni disincarnate) che proiettano invece il corpo lontano anni luce annullando la fisicità per fare una ricostruzione virtuale del corpo.

Il nuovo propriamente non ci assale ma ci ‘attraversa’ in quanto è un processo che lascia tracce ma non sembra destinato a permanere o a generare mutazioni stabili, ma al contrario cambiamenti vertiginosi, continui e soprattutto poco assimilabili.

Anche il nostro linguaggio esprime in maniera evidente questo transito ininterrotto. Preferiamo ormai dire migrante invece che immigrato, sottolineandone appunto l’assetto transeunte. Lo descrive bene Marco Francesconi:

 

“Ci si può domandare, se nell’immaginario comune oggi, rispetto a ieri, alla possibilità di accogliere e ‘integrare’ in sé, da un punto di vista societario, l’Altro da sé (per cui il ricorso al participio passato si rivelava maggiormente idoneo a sottolineare la ‘stabilizzazione’ dello ‘straniero’ nel nuovo contesto di vita), si sia sostituita un’accoglienza ‘a termine’, precaria, che fa di ogni ambiente, per chi vi arriva in cerca di casa e lavoro, un ‘non luogo’, nel quale l’identità non può che configurarsi come ‘in corso d’opera’, mai scontata e stabilizzata, appunto, ‘migrante’.”[4] (Soggetti in transito titolava un numero delle Rivista Interazioni del 2004 che descriveva proprio questo fenomeno.)

 

L’Italia in particolare sembra essere per i migranti stessi non una meta ma appunto un luogo di passaggio. D’altronde quella del migrante è una geografia frastagliatissima, che passa dall’esperienza della fuga disperata da violenze e miseria, a quella della rincorsa di un modello occidentale mitizzato da assumere nella sua totalità e che prevede quindi il restare e fermarsi, a quello dell’utilizzazione per un periodo soltanto dei vantaggi offerti dalla società occidentale per poi tornare al luogo di origine.

Anche dire luoghi di passaggio non è del tutto corrispondente alla realtà. I migranti infatti sono immessi in strutture di accoglienza sostanzialmente detentive, perché non possono uscirne fin quando non si trova loro una definizione e dove i tempi di permanenza possono essere lunghissimi.

A quel punto non si tratta più né di migranti né di immigrati ma di individui in cerca di un’assegnazione di identità, trattenuti in una zona di sospensione.

In un panorama così variegato la figura dell’immigrato, che offre tutte queste immagini fuse insieme senza potere lui stesso amalgamarle né dare modo all’altro di farlo, come è inseribile nell’esperienza di chi lo accoglie?

Inoltre la crisi identitaria che il  migrante subisce traumaticamente si affianca, pur nella diversità di esperienza e di significato individuale e sociale, a quei difetti di soggettivazione della società occidentale che provocano i vissuti di dislocazionedi cui sopra.

 

 

L’irriducibile. Chimere

 

Il processo di soggettivazione è progressivo e non ha mai fine rispetto all’individuo e rispetto alla cultura stessa di cui l’individuo è fruitore e creatore allo stesso tempo, per cui si trova a riversare in questa le sue specifiche caratteristiche modificandola, mentre contemporaneamente si trova ad assorbire quelle sociali che lo modificano a sua volta, secondo un processo senza soluzione di continuità e che è dato fin dall’inizio. Non a caso Alfredo Lombardozzi parla di una sostanziale ‘imperfezione dell’identità’.

Sulla processualità della formazione identitaria e dei processi di soggettivazione Virginia  De Micco e Alfredo Lombardozzi e hanno scritto importanti capitoli di antropologia psicoanalitica.

Anche se Il lavoro incessante di formazione identitaria e di confronto con l’altra cultura consente soluzioni creative e generative, nella società odierna esso sembra trovarsi nella impossibilità di poggiarsi su dei cardini stabili che lo garantiscano.

Potremmo parlare di difetto di simbolizzazione della cultura attuale, come anche di rottura traumatica. Il tema è complesso e richiederebbe anche qui una lunga trattazione.

Quello che vorrei ora mettere invece in risalto è un altro tipo di problematica che considera l’estraneità come qualcosa di radicale e irriducibile. Una diversità-estraneità che, lontano dall’essere attribuibile solo all’altro, vediamo invece comparire nel cuore stesso dell’appartenenza: il proprio contiene l’alieno al suo interno.

Non si tratta però di quell’unheimliche che si determina a causa di un’ambiguità, un’indecidibilità tra straniero e familiare, umano e non umano, se stesso e l’altro. Quanto piuttosto di quelle parti di irriducibilità che ci appartengono e che non possiamo in nessun modo trasformare ma solo “ospitare”, vedremo in che se senso, come nostri elementi costitutivi anche se estranei.

Nella dinamica psichica parti di sé possono convivere con altre estranee per vari motivi, un’impossibilità di assorbimento, una difficoltà di integrazione di parti scisse.

Spesso le troviamo nei sogni per esempio. Immagini incomprensibili, irriducibili a qualsiasi significato, assemblaggi di sensazioni, emozioni, modificazioni corporee, pensieri abortiti, pensieri altrui che ci attraversano dall’esterno, oppure ancora frutti originali di transfert analitici, generati da un accoppiamento operato con la mente dell’analista.

Oppure a volte è possibile riconoscerli in quegli episodi che si collocano tra il somatico e lo psichico, in cui i contenuti mentali sembrano concretizzarsi, farsi materia.

Per illustrare il fenomeno vorrei usare un’immagine mitologica: Chimera.

Figlia di Tifone il cui corpo gigantesco culminava in cento teste di drago e di Echidna, per meta’ donna bellissima e per meta’ orribile serpente maculato. Raffigurata nella famosissima opera bronzea di Arezzo come leone davanti, capra sul dorso, e  serpente dietro.
Chimera per lunghi anni terrorizzò le coste dell’attuale Turchia, seminando distruzioni e pestilenze. Fu Bellerofonte, eroe da molti ritenuto figlio del dio Poseidone, a riuscire ad ucciderla. Con l’aiuto del cavallo Pegaso, Bellerofonte immerse la punta del giavellotto nelle fauci della belva, il fuoco che ne usciva sciolse il piombo che uccise l’animale. Abilmente quindi seppe sconfiggere la creatura facendo si’ che la sua forza si ritorcesse contro di lei.
Nell’antica Grecia, la figura della Chimera era simbolo di una somma di vizi, divenne poi nel medioevo una sorta di simbolo del cambiamento, con un’accezione tuttavia ancora negativa. Con il passare dei secoli, la Chimera divenne infine simbolo delle illusioni, una fantasticheria, un miraggio, un abbaglio.
In biologia sappiamo esistono davvero le chimere, sia nel mondo animale che in quello umano, per le quali in un individuo possono essere presenti popolazioni differenti di cellule geneticamente distinte e dar luogo a degli esseri che mantengono co-presenti nello stesso individuo delle alterità.
A volte diventano forme mostruose che contengono corpi diversi e sovrapposti, ma spesso le alterità convivono senza un’evidenza fisica esteriore.
Con l’uso sempre più frequente delle fecondazioni in vitro pare che questo fenomeno stia aumentando notevolmente.
Tornando all’aspetto psichico, anche nel contatto con l’altro avviene sempre e spontaneamente un’ibridazione che genera una nuova “formazione” identitaria, eppure permangono necessariamente dei nuclei di estraneità che alla fine appunto coesistono con il nuovo oppure in qualche caso si pongono in alternativa drammaticamente.
Certo la Chimera è un mostro pericoloso che va ucciso ma anche una fantasia che ci può portare a concepire un organismo psichico e sociale composito dove le varie individualità non si annullino ma possano convivere nella loro assoluta eterogeneità.
Dal problema delle contaminazioni, al contagio, alla reazione immunitaria, ai fenomeni di dislocazione, si può dire che ora più che mai appare evidente come non sia possibile immaginare operazioni integrative volte all’assimilazione per quanto riguarda le alterità, quella dei migranti in primis, ma piuttosto la promozione di una presa di coscienza della irriducibilità dell’altro a noi.
Anche se la circolazione tra culture da sempre ha creato commistioni e meticciati che certo non si possono negare, sembra ora più adatto immaginare un caleidoscopio di figure proteiformi che possano vivere ‘accostate’ mischiandosi solo nello spazio che le contiene.
Questo ‘campo’ in cui avvengono gli incontri potrebbe essere quello dell’ospitalità”. Con le parole parole di Jacques Derrida:

“Ci braccherà senza posa questo dilemma tra, da un lato, l’ospitalità incondizionata che va al di là del diritto, del dovere o addirittura della politica, dall’altro, l’ospitalità circoscritta dal diritto e dal dovere. L’una può sempre corrompere l’altra, e questa possibilità di snaturamento è irriducibile. E deve restarlo. […] Ci troveremo sempre a dibatterci tra queste due accezioni del concetto di ospitalità nonché di linguaggio. Torneremo anche sui due regimi d’una legge dell’ospitalità: l’incondizionata o l’iperbolica da una parte, e la condizionata e la giuridico-politica, cioè l’etica dall’altra parte – l’etica in realtà si trova a metà tra le due, a seconda che si occupi di regolamentare il rispetto e il dono assoluti, oppure lo scambio, la proporzione, la norma eccetera” [5]

 


[1] Esposito, Biopolitica e immunità nella costruzione sociale dell’identità in Narrare i gruppi. Prospettive cliniche e sociali Anno III, Vol. 1, 2008

[2] R. Esposito, Immunitas. Prevenzione e negazione della vita, Einaudi 2002

[3] Vedi Lorena Preta ( a cura) Dislocazioni. Nuove forme del disagio psichico e sociale, Mimesis Edizioni 2018

[4] M. Francesconi “Nessun posto per l’Altro”, 14.4.2010, citato da Daniel Scotto di Fasano in Identità di chi? Identità per chi? In Leo G., 2017, a cura di, Psicoanalisi, luoghi della resilienza ed immigrazione, Edizioni Frenis Zero.Un libro importante e ricco di spunti originali.

[5] 119-120; 119-121). Jacques Derrida, AnneDufourmantelle, Sull’ospitalità, Baldini &Castoldi,2000

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