Cultura e Società

“Il male che non c’è” di G. Caminito. Recensione di D. Federici

29/09/25
"Il male che non c’è" di G. Caminito. Recensione di  D. Federici

Parole chiave: ipocondria, ansia, panico, ossessioni, integrazione

Il male che non c’è
di Giulia Caminito (Bompiani, 2024)

recensione di Daniela Federici

Facciamo di noi un luogo appartato
dietro parole leggere di scherno e ironia
ma quanta agitazione nel cuore
finché qualcuno davvero non ci trova.
È un peccato se il caso esige che alla fine
parliamo in modo letterale
per ispirare la comprensione di un amico.
Ma è così per tutti, dai bambini che giocano
a nascondino fino a Dio lontano,
chiunque si nasconde troppo bene
dovrà parlare e dirci dove sta.

Frost, Revelation

Esistono i mali evidenti, le ferite, ma esistono anche i mali oscuri, quelli che non li vedi ma sono i peggiori, sono i più crudeli.

Loris ha trent’anni e una inconsapevole e divorante paura di vivere, di affrontare le frustrazioni, gli errori, le responsabilità e i cambiamenti che la vita comporta. Nel suo corpo detona un male oscuro e sfuggente che annienta ogni suo slancio e prospettiva, rivestendo ogni cosa dei colori della catastrofe. Tutto si è fatto insopportabilmente pericoloso nel suo presente e Catastrofe è ormai una presenza concreta per lui, l’unico punto di vista da cui sentirsi compreso, la sua vera metà, dal momento che la sua ragazza è stizzita e delusa dalle sue scene.

Sto male, dice lui e sente che è la frase sbagliata, ma anche la verità. E più lei cerca di ridurre ogni cosa a un problema passeggero e risolvibile, più lui sente che invece il dolore resterà, e desidera che lei se ne accorga, che abbia voglia di accudimento, di vicinanza estrema.

Lo feriscono le espressioni sminuenti di Jo, il suo crederlo un esagerato nella sua maniaca ricerca di un male che non c’è con esami sempre più invasivi. È doloroso rivedersi ogni volta di fronte al proprio crollo, lei in cima alla vetta, lui nel dirupo. La rabbia la fa ormai da padrone: nonostante il timore della perdita che si innesca a ogni litigio, non si scusa, non ce la fa e anzi le ributta addosso frasi che sanno come far male, un gioco delle parti violento e subdolo, che va avanti da un po’.

Le sua non è fantasia, non è ossessione, è che a lui sta capitando una patologia e va curato, preso in considerazione. E finché è nelle mani di un camice bianco la sua vita non è in dubbio, in quei secondi in cui le dita del medico affondano nella sua pancia, lui è guarito, rinato. Vorrebbe avere un letto tra i malati, tra quelli che stanotte avranno un campanello da suonare, una flebo da cui far passare soluzioni possibili.

Ma una soluzione per stare al sicuro non si trova, che non si trovi mai un male evidente vuol solo dire che si nasconde più in fondo e nessuno lo riconosce. Loris non se ne fa niente del medico che spiega che più si ossessiona peggio starà, perché l’intestino è un organo particolare, che reagisce agli stimoli nervosi…

Si sente preso in giro… la visita è durata un quarto d’ora… Tutti l’ansia abbiamo per loro, tutti malati immaginari… Lo stress che sarebbe causa di tutto, ma lui non ci crede, pensa che quella sia la conseguenza e non la causa, è angosciato perché sta male e non il contrario. Come fanno a non rendersene conto… Quel dolore è troppo forte, non può essere cosa da poco, deve nascere da un problema, e un problema se non lo individui non lo puoi risolvere…

Non sanno neanche narcotizzare quelli come lui alla ricerca di risposte fulminee, di rassicurazioni immediate, di salvagenti gettati al momento del naufragio, e non quando della nave non si vede più neanche lo scheletro. 

… tutto non dà certezze…

Quanto è inaccettabile questo bilancio da natura matrigna di una realtà vulnerabile e mortale? Dove sono finite le garanzie che adornavano l’infanzia? Illusioni di sogni onnipotenti necessari fintanto che crescono le capacità della mente di far fronte alla vita in maniera più realistica. Ma quando manca la capacità di accettare il disincanto, quando una quota d’angoscia come segnale che promuove le difese fallisce nel suo compito di riequilibrare l’economia psichica interna e anziché prevenire uno stato traumatico lo induce, ogni segno diventa subito certezza del male, ogni affetto si fa terrore di esserne travolti, e ci si ritrova schiacciati da un panico paralizzante.

Loris questa sua vita la terrebbe tra pollice e indice per guardarla da vicino e poi ficcarla in tasca, tenerla al sicuro.  

Come accade che ci ammaliamo? Vogliamo sapere perché e come si formano dentro di noi i nostri peggiori avversari.

Se il crescere risuona solo come una tragica perdita di protezione senza riuscire a mescolarsi con il piacere della vita e delle sue scoperte, se il maltolto delle illusioni di sicurezza e grandiosità non è qualcosa cui si è disposti ad abdicare, si va in cerca del bisogno fallace di controllare ogni cosa e garantirsi un quotidiano dove tutto vada com’è previsto e preteso.

Ma quando si fatica ad accettare le cose per come sono, è la scissione che si offre a rimedio dell’inabilità a gestire il conflitto con i propri impulsi e l’intolleranza dell’incertezza e della frustrazione.

Quella incredibile e urgente necessità di leggere… I libri sono muri-fortezze per Loris fin da quando era bambino, quella foga di lettura spaventosa, che quietava il cervello, lo metteva al riparo, rifugi di un mondo a parte che gli permetteva di evadere dalla realtà per non doverne portare il peso. Ne ha fatto perfino il suo lavoro da adulto: ah potersi chiudere fra quelle pagine, al riparo dall’ignoto, dalle mortificazioni, dai sentimenti in guerra fra loro…

Comincia a leggere con la stessa determinazione che aveva da bambino, la stessa che buttava tutto fuori, rifiutava che esistesse altro, che fosse necessario affrontarlo…

Perché i compromessi con la realtà per tagliare fuori l’inaccettabile, sono un sollievo temporaneo ottenuto al prezzo di un’amputazione, di un crescente isolamento che ristagna, che insegna la fuga e avalla sia che i pericoli siano inaffrontabili sia il proprio disarmo di fronte ad essi. Quel che non può affrontare cambiamento non può crescere, e quel che non può crescere non può immaginarsi di cambiare.  

Non era così quando c’era nonno Tempesta, con la sua cantina di labirinti e il natale ad agosto come in Africa. Il tempo con lui era spazio di piacere, avventure, possibilità. La maniera che aveva di far passare il dramma distraendolo mentre nonna Gemma gli faceva le punture o insegnandogli a reggere la vertigine dell’altalena per godersi il movimento. La vita con lui era un gioco fra paure sostenibili, e ogni volta che aveva voglia di urlare per lo spavento e correre via, poi tornava, perché Tempesta lo lasciava provare e riprovare, aiutarlo sarebbe stato banale e il bambino aveva da imparare le difficoltà e il fare da solo, ché non ci sarebbe stato sempre lui.

Ma poi il nonno si era ammalato, neanche lui inviolabile al male, e quando Loris non se l’era sentita di vederlo in ospedale la mamma lo aveva chiuso nella tregua del suo abbraccio.  

Che tormento le relazioni, quel bisogno che fa sentire fragili ed esposti, che muove il timore di sentirsi patetici e diventa disprezzo di sé – per sentimenti che non sono più riconosciuti con umana benevolenza – e ripulsa verso l’altro che ne è testimone.

Così se la madre si avvicina senza annunciarsi e lo tocca, lui serra le dita a pugno. Non mi scavare addosso con gli occhi, le risponde. La madre allora sospira e smette, di norma tace davanti alla stizza del figlio, ma a volte si anima e si innervosisce per le sue frasi categoriche o le sue sparizioni, non le sa tollerare. Ai suoi occhi c’è sempre un bambino, un pezzo di carne appena partorito da difendere, da accudire. E le difficoltà di Loris non fanno altro che consolidare quest’idea, della sua infanzia lunghissima e dell’essere mamma all’erta, pronta a intervenire.

… più che un figlio pare un guscio trasparente d’insetto volato via, una traccia.

Gli succede lo stesso con Jo, che vuole e insieme detesta… non sembrano due giovani amanti, ma due caparbi esploratori, convinti di poter trovare qualcosa dove qualcosa forse non c’è più.

Come si fa a fermare questa vita che pare scorra senza riuscire a trattenerla né a viverla davvero per l’angoscia di poterla perdere? Come si fa ad accettare di non avere tutto l’intero ma la parte che vale solo a memento del suo mancante?

Sente la potenza di ciò che accade fuori ed è nella norma, sa esistere e svilupparsi, coincidere con un’idea di mondo. … C’è un’ottusità di ferro nella conservazione di quelle cose che il tempo ha reso guaste, una dichiarazione di malinconia in un tempo che galleggia… da cercare di tenere eterno e immoto.

Come si fa a distogliersi dall’assedio dei pensieri?Da quel dolore dal guscio compatto che trova sempre il luogo in cui depositarsi e da dove farsi ascoltare.

Vorrebbe anche lui sapere come fare, armarsi di una volontà che non possiede più.

Gli pare che l’universo sia diviso proprio così, tra quelli che agiscono e non si fanno spaventare dal mondo e quelli come lui, che a ogni passo sono pronti a demordere. Ed è odioso far parte della seconda categoria, saperlo ma non capire mai come passare dall’altro lato, come afferrare in mano il martello.

Tempesta, se si incontrassero oggi, cosa penserebbe di lui? Forse che è un pavido, un fallito, un nullafacente. Lo perdonerebbe per non aver cercato le cose che andavano viste, le cose radicate nel mondo, le cose che non ci appartengono e per questo vale la pena conoscere?

Giulia Caminito costruisce un romanzo potente e favolosamente vero sull’assedio del male che non c’è che parassita la vita mentale disperdendo le energie nelle ruminazioni e nella coattività, erodendo la possibilità di un pensiero libero. L’Autrice descrive magnificamente gli effetti della compromissione di quell’area intermedia di contatto fra mondo interno e mondo esterno che consente l’oscillazione tra regressione e progressione, fusionalità e distacco, funzioni intellettuali ed esperienza personale, quando il difetto della funzione sintetica rende difficile la fusione fra amore e odio, passività e attività, bisogno d’ordine e tendenze ribellistiche.

Ma soprattutto mappa con acume le traiettorie della sensibilità narcisistica, le relazioni affettive scandite dalla polarità dominanza-sottomissione dove le posizioni di vittima e carnefice sono fisse e reversibili. Perché in mancanza di un contatto libero e vitale con se stessi è compromessa anche la possibilità di un rapporto positivo con gli altri: se essere tormenta di poter non essere mai abbastanza, avere e legarsi porta l’angoscia di perdere, così l’altro è vissuto più facilmente come fonte di invasione più che di arricchimento, perché ricevere è ammettersi mancanti. Gli oggetti disturbanti imbrigliano la rabbia distruttiva e si fanno ricettacoli delle sue proiezioni, dell’impazienza e l’astio per tutto ciò che non si da subito e pieno, la dose di sintomi di un male che c’è, che fa perdere un orizzonte di senso al vivere mentre pian piano lo devitalizza, lo riduce in solitudine logorato dai timori di perdere la misura, incapace di edificare indulgenza.

Un racconto che sa accostare con sincera partecipazione affettiva queste tragiche tormente emotive e suggerire la strada, il lutto necessario di una parte per avere il resto che la vita ci riserva.

Il bambino aveva voglia di urlare per lo spavento e correre via, poi tornare a guardarlo ancora, riprovare, perché era la sua missione: riconoscere a tutti i costi i superstiti del naufragio.

Una storia che mostra splendidamente come il pensiero di scongiurare la caducità può trasformarsi nella speranza godibile dell’ancora possibile.

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