Cultura e Società

“La figlia ideale” di A. Grandes. Recensione di D. Federici

23/01/23
La figlia ideale di Almudena Grandes

Parole chiave: #follia, #fascismo, #franchismo, #femminile

La figlia ideale

di Almudena Grandes (2020, Guanda)

Daniela Federici

 “Il manicomio è una grande cassa di risonanza

E il delirio diventa eco,

l’anonimità misura.”

A. Merini

Un romanzo che fonde brillantemente fatti storici con l’invenzione letteraria, uno spaccato della vita spagnola nei decenni bui della dittatura franchista. Il manicomio femminile che riunisce le vicende dei protagonisti, è il modellino in scala di un paese malato e oppresso dal potere, con le sue differenze di classe e privilegi, lo sfruttamento e l’angustia della condizione femminile.

La malattia mentale è la peggiore delle prigionie. È un carcere interiore, una gabbia da cui non puoi liberarti, ti priva di tutto quello che possiedi

1954. Germán Velázquez è figlio di un famoso cattedratico di psichiatra perseguitato dal regime. Fatto fuggire in Svizzera dal padre quando era ancora adolescente, ne ha seguito le orme divenendo un medico umano e impegnato nella sperimentazione della clorpromazina. A un congresso dove sta esponendo gli effetti del neurolettico su pazienti considerati inguaribili che, tornati dai loro deliri ne potevano raccontare gli abissi di sofferenza, viene avvicinato da un ex allievo del padre e invitato a tornare in Spagna per introdurre il farmaco nell’istituto psichiatrico femminile di Ciempozuelos.

In quegli anni la psichiatria spagnola, fra epurazioni dei medici e pratiche retrive, è espressione di una nazione regredita e boicottata dal consesso scientifico europeo in dissenso con la dittatura franchista. Ma per Germán è l’occasione di ritrovare le sue origini e ricongiungersi dopo molti anni con la madre e la sorella, che dopo la morte del padre in carcere sono rimaste sequestrate in una miseria non solo materiale.

Nell’istituto psichiatrico ritrova un’anziana paziente che conobbe da bambino, quando si presentò allo studio di suo padre dopo aver ucciso la figlia diciottenne.

La storia vera di Aurora Rodriguez Carballeira è stata raccontata in diversi film e libri spagnoli: ricca e di buona famiglia, leader del movimento femminista e paladina dell’eugenetica sostenuta dal regime, nel 1933 sparò alla figlia Hildegart quattro colpi di pistola.

Al processo raccontò la sua missione di dare alla luce un redentore dell’umanità che era poi arrivata a considerare un bozzetto difettoso: Ho ucciso mia figlia, si, perché era un mio diritto farlo (…) era opera mia e non mi era venuta bene. (…) Ho fatto solo quello che fa un artista quando capisce di aver sbagliato e distrugge il suo lavoro per poter ricominciare.

Nella postfazione (che andrebbe letta come premessa) la Grandes riferisce del volume sulla vita di donna Aurora che ha fatto da canovaccio al suo romanzo: scritto dallo psichiatra che si specializzò all’interno del manicomio femminile di Ciempozuelos negli anni settanta e che partecipò al movimento di rinnovamento psichiatrico, aveva in copertina il fotogramma di un vecchio remake cinematografico di Frankenstein. Da lì il titolo originale del libro La madre de Frankenstein, più aderente alla vicenda rispetto al titolo scelto per la sua traduzione.

Quello dell’Autrice è uno sguardo umano a immaginare da dentro la follia, la grandiosità e l’incessante pioggia interiore dei deliri, l’inferno dei suoi mostri e delle voci, il buio impotente della resa.

Ma è soprattutto un libro capace di condensare un’epoca, la situazione sociale di repressione e pregiudizi che opprimeva la vita dei figli e delle donne di Spagna, che passavano dalla tutela dei padri a quella dei mariti, che potevano liberarsi di loro internandole in manicomio per futili motivi. La morale nazionalcattolica bigotta faceva del sesso un articolo da mercato nero, del piacere un’attività clandestina, del corpo un’arma del delitto. (…) snaturava l’allegria trasformandola in vizio, la felicità trasformandola in debolezza, la pelle, facendone un ponte per l’inferno. Era davvero uno schifo di verità, un carcere portatile che imprigionava i sensi, il corpo e la mente di tutti gli spagnoli.

Altra voce narrante del romanzo che dà corpo a quel mondo di oppressi è Maria, una ausiliaria nata nella casa ai confini dell’istituto dove il nonno faceva il giardiniere. Cresciuta fra le internate, ha un rapporto naturale con loro e un legame particolare con donna Aurora, che da bimba le insegnò a leggere e scrivere. Ma le sue capacità e dignità possono poco contro la sua condizione di orfana e giovane donna abbandonata, per cui subisce il discredito e le angherie dei reietti cui è concesso un unico destino: esisteva un mondo in cui mi sarebbe piaciuto vivere. Piansi perché stavo vedendo quel mondo da dietro le sbarre della mia gabbia, perché la sua immagine mi consolava di quell’altro brutale, cupo, l’unico che avrei conosciuto.

L’Autrice rende splendidamente il vuoto morale creato dalla violenza semplificante dell’ideologia, il ‘genocidio intellettuale’ che esilia punti di vista diversi, svuota i cuori e intossica l’immaginazione per riempirli di una colpa estranea, impiantata a tradimento, che aveva ucciso per asfissia, già da parecchi anni, la libertà di cui continuava a vantarsi invano.

Così la paranoia di donna Aurora riverbera la paranoia del pensiero fascista diffusa in tutto il paese, la colpa persecutoria che aumenta la sottomissione, l’intimidazione e l’idealizzazione del persecutore che istituzionalizzano il sacrificio nelle persone: quell’umiliazione, la liquida oscurità di certi occhi temprati dall’abitudine alla disgrazia, una rassegnazione inesprimibile a parole.

Ce le hanno suonate forte, Germán. Ce le hanno suonate così forte che molti si accontentano di non prendere più altre botte.

Con la storia clinica della paziente 6966 la Grandes dà forma a un materno repressivo e mortifero, la follia di una Madre Patria dall’animo figlicida. L’eugenetica era un pensiero criminale con cui medici e religiosi dello stato franchista si arrogavano di ‘perfezionare la volontà divina’ avallando i furti di neonati partoriti nelle carceri o nelle cliniche cui donne sole e senza mezzi si rivolgevano, uscendone con falsi certificati di morte di bambini che venivano consegnati a famiglie benestanti e ‘affidabili’.

Fra le mura dell’istituzione, Germán rappresenta l’estraneità al sistema, quel che il pensiero sul mondo sarebbe potuto diventare senza il freno perverso della dittatura fascista: la nuova psichiatria, quella dedita al senso e al riconoscimento dell’altro, ma anche un maschile – e più in generale un umanesimo – non vessatorio, solidale e maieutico.

La curiosità di quell’uomo mi costrinse a pensare ad alta voce, a cercare risposte a domande che non mi ero mai sognata di farmi.

Perché la vera sovversione dell’ideologia è il simbolico, con il disseminarsi della sua polisemia, con l’inclinazione visionaria che crea un altrove, che si fa eccedenza dell’immaginazione su una realtà che viene trascesa e reinventata oltre la sua concretezza e la sua univocità, per aprirsi al dubbio, al mistero, alla molteplicità dei punti di vista.

Le figure di Maria e Germán rappresentano chi patisce e rischia fuori dal buio violento e ipnotico dell’ideologia: perché anche se viviamo in un cimitero, alcuni di noi sono ancora vivi.

Il lusso di coltivare speranze in un paese che ne era privo.

Il romanzo della Grandes sembra rispondere a un’esigenza morale oltre che letteraria, di denuncia dei guasti e del recupero della Storia che sempre occorre per meglio costruire un futuro.

Mi ha fatto pensare a un altro delizioso piccolo romanzo di Claire Keegan, Piccole cose da nulla (Einaudi, 2022). Il protagonista, figlio di una ragazza madre, si trova anch’egli ad attraversare un dilemma fra l’adattamento silenzioso ai poteri forti delle cose così com’erano e il coraggio di spezzare il guscio dell’ipocrisia, rischiando le proprie sicurezze per provare a cambiare qualcosa nel piccolo pezzetto del proprio mondo.

Sullo sfondo, le vicende irlandesi delle Magdalene Laudry, istituti gestiti e finanziati dalla chiesa con il benestare dello Stato (si stima ce ne potessero essere trentamila, chiuse solo nel 1996), in cui le donne si nascondevano o venivano incarcerate e costrette a lavorare, molte delle quali hanno perso i loro bambini, morti o dati in adozione anche contro la loro volontà.

La narrativa non è psicoanalisi, ma quest’ultima, che indaga sulle trascrizioni individuali della propria realtà, lavorando ai margini, là dove si annida il fallimento del narrabile e dove si incagliano le identificazioni a un unico senso delle cose, trova buona compagnia in scritture che aprono al pensiero e insegnano l’incontro e l’ascolto.

Come l’auspicio di chi pure, alla fine, non era troppo ottimista sul potere della Kultur: La voce dell’intelletto è fioca, ma non ha pace finché non ottiene udienza (Freud, L’avvenire di un’illusione).

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