Cultura e Società

“Lamaro” di L. M. Sicca. Recensione di S. Thanopulos

8/07/22
"Lamaro" di L. M. Sicca. Recenione

Lamaro

di Luigi Maria Sicca (Editoriale scientifica, 2022)

a cura di Sarantis Thanopulos

parole chiave. #lutto, #poesia, #nostalgia

Sarantis Thanopulos introduce la raccolta di poesie di Luigi Maria Sicca, una dodecafonia quasi melodica della nostalgia

Nella sua nuova raccolta di poesie[i], “Lamaro”, Luigi Maria Sicca adotta uno stile musicale quasi, ma non propriamente, “dodecafonico”, affidando le melodie non alla combinazione delle note, ma alle geometrie dei ritmi che si interrompono e, come bruscamente si discontinuano, altrettanto prontamente si riprendono. Il piacere di leggere, ciò quindi che di melodico prende forma attraverso la lettura, non è nella costruzione di “mestiere”, nel prêt à porter/prêt à manger/prêt à écouter, nei prodotti ben confezionati per un uso rapido e spensierato che possono anche essere sofisticati. Non è neppure nella cura dell’immagine, dei dettagli, dell’equilibrio dell’architettura della messa in scena, che un sarto, uno chef, un compositore mette nel suo lavoro. È nel “non so che” di un “gusto” goduto nella sua immediatezza, nel senso che si significa da sé, senza la mediazione di codici significanti. Il lettore legge i versi quasi/forse mentre il poeta li scrive. Lettura e scrittura tendono a coincidere e nella distanza virtuale, ma esistente, creata dalla non coincidenza la poesia dispiega il suo effetto sincopato.

I versi di apertura (Saluto) già disorientano/orientano e poi sbilanciano, ognuno dovrà muoversi nello spazio in cui la “soglia” lo introduce, a suo modo di vivere la tensione tra equilibrio e disequilibrio:

Illumina con la tua mente lo sguardo
Il nostro

, palpebre su
la fronte l’odore

è freddo[ii].

Il saluto scende dal titolo tra i versi e resta invisibile come l’oggetto a cui si rivolge. L’odore, che è sudore, è freddo come il saluto. Perdita, ansia, distanza? Il nostro presume me e te. Ma la tua mente illumina lo sguardo di chi? Il nostro sguardo?

Lo sguardo è freddo, l’odore/sudore è freddo, il saluto è freddo. Alla fine, le parole diventate versi convergono, come il sudore, sulle palpebre. E dalle palpebre dipartono di nuovo, palpebre che si chiudono, palpebre che si aprono. È una poesia sul lutto congelato, i versi scivolano sul ghiaccio.

Entrati nel libro dalla porta della perdita, non ce ne usciamo evadendo dalla finestra. Il lutto attraversa le pagine in modo asincrono, trasforma la melanconia dello sguardo in sentieri dislocanti che cambiano sempre prospettiva, e così l’oggetto perduto resta vivo, sui suoi occhi non cala il silenzio del sipario, guarda il mondo da radici che si espandono, è solido nella sua permanenza, persistenza, perché pezzo per pezzo lo ritroviamo dentro di noi, mentre pezzo per pezzo, diceva Freud, ci rendiamo conto che non è più con noi. In fondo Lamaro è un libro di poesie nostalgico:

[…]

un bacio
che odora in un tempo passato

con sguardo a uno

ohi, quanti futuri

i suoi […][iii].

I versi permangono, persistono come

[…]

lacrime amare in stazione centrale[iv].

E poi, lentamente sciolgono le incrostazioni in cui

[…]

feroce

inesorabile

resiste

la sua voce […][v].

Nulla di più della persona amata, odiata, avuta, perduta, ritrovata, mancata ci insegue. Della sua voce. Essa pretende ciò che lo sguardo invoca, suggerisce (forse), che la mano non trattiene e il tatto non rivela. La voce ci insegue, ci ossessiona, ma non ci possiede, né la respingiamo. Feroce la sua determinazione, ma non è il nostro ascolto che la tiene in vita? L’ossessione, la perdita inesorabile (“sentirò ancora la sua voce?”), il tintinnio nella testa, e se alla fine ciò che davvero ci manca, ciò che vogliamo che resista è il ritmo? La voce è suono, il suono è tempo, il tempo è ritmo, respiro. La nostalgia è fatta di respiri:

l’orologio da taschino con il suo tintinnio teso,
teso,

teso turbinio inabissato
Suono respirato[vi].

Respirare è uscire – non disincanto, ma ricollocazione, senza finalità precisa, nel mondo – dal rumore dell’arena, dalla sfida del “tutto o nulla”, del “vita o morte”, spazzare dai propri vestiti la polvere chiamata “Storia”[vii], archivio immenso delle esistenze morte. È non dimenticare che esistiamo perché siamo esistiti, che noi, tu- io, tu-l’altro, respiriamo/abbiamo respirato insieme. Perché questo diventi possibile è necessario, a un certo punto, il disgusto, semplice senso delle cose, non repulsione indignata, che rende visibile la “banalità del male”:

[…]

senza ritorno cinica civica eco folle
cieca la folla

assiste l’assolo

.., che dire, mia cara in fondo …
è solo una gara

[…]

dopotutto, è banale

squallido, sbircio, tetragono male[viii].

L’amarezza è memoria, basta coglierne la forza di osservazione:

[…]

Occhio ai dettagli. Occhio ai dettagli

Scarpe con occhi
ciecati
sguardi ai cuori contriti o solo

contratti ridotti
per forza e comunque imperfetti

Traditi[ix].

La memoria è:

Odore di camelie[x].

Già Proust l’aveva detto, ma la memoria è anche uno spazio da custodire:

[…]
No, altrimenti proprio no

intimo
privatissimo, esclusivo

.., non se n’esce[xi].

Altrimenti dove? Dalla memoria non se n’esce, altrimenti, proprio no, cosa sarebbe? Ogni cosa ricordata è reincarnata:

Memoria ancestrale
polvere sulle ali della farfalla[xii].

Melanconia? Sì, perché no. Lutto sulle ali della farfalla. Nostalgia che respira. Che misura i passi in avanti, odore che dal passato anticipa. Cosa?

Certi orizzonti
peso del passo
ne immagini il primo

[…]

cala il buon asso sesso sul sasso[xiii].

Misurare i passi perché

Immerso nel passato

privato di presente

futuro onnipotente[xiv].

Passi, ritmo dei passi, delle parole che si guardano attorno, sentono l’odore, cadono e si rialzano, i versi non amano la coerenza, non sostano nella contraddizione, prendono cura delle prospettive piuttosto che dei paesaggi, non indugiano nel sognare, si accordano e si scordano, costeggiano, ma evitano l’usura. In fondo la solitudine è

[…]

meglio del nulla,

semplice prendersi cura[xv].

Viaggio nostalgico della solitudine, il “no proprio no”, l’“anziché” della desolazione, la poesia di Luigi Maria Sicca alla fine si rivela a se stessa[xvi]:

[…]
non scrivi trascrivi

respiri[xvii].

Si avvicina a una finestra, che somiglia a uno specchio, ma è nondimeno aperta alla vista e trovando la propria metafora si congeda:

Per me, davvero,
va bene così

Sono stanco .., per piacere

Lasciatemi andare

Lieti, fragili

grati momenti[xviii].


[i] [Precedente è del 2018, dal titolo Laskaro, Napoli, Editoriale scientifica]
[ii] [Saluto, p. 31].
[iii] [Quel bacio, p. 36].
[iv] [Termini, p. 45].
[v] [In.crosta, p. 56].
[vi] [Respiri, p. 73].
[vii] [Questa cifra storica è trasversale all’intera raccolta].
[viii] [Anfiteatro Flavio, p. 80-81].
[ix] [Occhio al dettaglio, p. 87-88].
[x] [Odore, p. 93].
[xi] [Etica della memoria, p. 94].
[xii] [La reincarnazione, p. 95].
[xiii] [Passo, p. 99].
[xiv] [verba manent, p. 97].
[xv] [Solitudine, p. 110].
[xvi] [Analogamente, l’autore ci svela il titolo di ogni lirica in calce anziché in apertura: è in quel titolo finale, infatti, che ogni poesia “risolve” se stessa].
[xvii] [Dormi distratto, p. 106].
[xviii] [Lungo un nastro, p. 114].

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