Cultura e Società

“L’attentato” di H. Mulish. Recensione di D. Federici

24/01/22
"L’attentato" di H. Mulish. Recensione di D. Federici

L’attentato

di Harry Mulish (Neri Pozza, 2021)

a cura di Daniela Federici

Parole chiave: etica, uneimlich, après-coup, tempo, memoria.

Guardati allo specchio

e dì al volto che vedi

che è ormai tempo per quel viso

di crearne un altro.

Shakespeare, Sonetti

Gennaio 1945. Mentre l’Europa viene poco alla volta liberata, ad Haarlem, poco fuori Amsterdam, tedeschi e polizia fascista imperversano con le loro rappresaglie.

La famiglia Steenwijk vive in una casa di periferia dal nome spensierato, “In quiete”. Anton, secondogenito dodicenne, ha in realtà sempre associato quella denominazione all’inquietudine, a una quiete prima della tempesta.

Un vissuto che, posto in apertura del romanzo, sembra fungere da presagio della vicenda.

Heimlich-uneimlich: il familiare fidato che si fa perturbante, annuncio di riscritture.

Un uomo, camminando a ritroso sulla sua chiatta, spinge una pertica piantata di traverso sul fondo del canale; è un mistero che affascina Anton: come sia possibile che camminando all’indietro si spinga qualcosa in avanti pur restando sempre allo stesso posto.

La trama del romanzo si ordisce nel risuonare sapiente di chi sembra conoscere molto bene i labirinti e la dimensione dinamica della memoria.

Nel buio del coprifuoco, la famiglia sta concludendo la giornata; mentre la madre disfa all’indietro un maglione dentro un gomitolo, per strada esplodono alcuni spari. Peter, il figlio maggiore, vede dalla finestra Ploeg, ispettore e feroce assassino, riverso a terra accanto alla sua bicicletta. Dall’altra parte della strada, il vicino e la figlia escono trascinando il cadavere proprio davanti a casa degli Steenwijk. Peter si precipita fuori per spostarlo ma arriva una squadriglia, chi lo insegue sparando, chi fa irruzione in casa loro e la brucia. Istanti concitati, sullo sfondo dei quali l’autore rende bene l’effetto obnubilante del colpo traumatico sul giovane protagonista. 

Anton vedeva e sentiva tutto, ma in qualche modo non era più del tutto presente. Si formano nella sua mente inquadrature indelebili che si dissolveranno e insieme lo accompagneranno per tutta la vita.

Tutto era immobile, e tuttavia il tempo scorreva.

Anton, strappato ai suoi – che non rivedrà più – viene portato al comando dove trascorre la notte nel buio di una cella con una donna ferita che gli parla dei tedeschi, della resistenza e di ciò che capirà solo quando sarà grande.

L’oscurità che sbarra la vista come acqua torbida

Affidato agli zii ad Amsterdam grazie a un poliziotto mosso a pietà per quello scricciolo infreddolito cui hanno sterminato la famiglia, pare volersi lasciare tutto alle spalle, spezzato fra il prima perduto che lo fonda e un presente cui non sente di appartenere davvero.

Caduto il Reich, lo zio cerca di tessere per lui la vicenda della fucilazione dei suoi, ma è una verità che Anton riesce ad assumere solo a tratti. Lo abitano immagini che balenano all’improvviso come sprazzi di luce accecanti, in una deformazione che avrebbe costituito più tardi la causa della sua incapacità a spiegare ai suoi figli cosa fosse stata effettivamente la guerra.

I salti temporali con cui il romanzo prosegue come onde di maree, sembrano lo specchio dei moti d’oblio del protagonista e degli snodi salienti dove il trauma sospinge i suoi inevasi in cerca di una riscrittura, eclissi e squarci che aprono a un altro tempo e alle sue possibilità trasformative.

Il Freud della metafora archeologica della Roma antica, ci ha illustrato la dinamica di vestigiatutt’altro che inerti, sopravvivenze che resistono e infiltrano il presente delle influenze dei suoi molteplici passati, idea di un tempo eterogeneo, che non scorre linearmente ma si definisce solo attraverso una relazione attiva fra i modi di passato, presente e futuro.

La teoria del bifasismo psichico, la concezione del trauma e quella della Nachträglichkeit (dove nach significa dopo ma anche indietro e tragen è portare, nel senso del movimento ma anche della portata)definiscono un modello trascrittivo dello psichismo, espressione di un campo di forze e di un montaggio di epoche diverse in cui la storia si inscrive e dissolve, per poi tornare a presentarsi sullo scenario del presente, consentendo all’accaduto e al possibile ancora inevaso di riorganizzarsi in un supplemento di significato. Quello dell’après-coup è un doppio movimento indivisibile, dell’essere portato in avanti che è spinta dell’inconscio, e del riportarsi indietro in riprese plurime che mancheranno sempre di tradurre qualcosa – a causa dell’inafferrabilità dell’oggetto -, resti che torneranno a urgere cercando di legare il pulsionale.

È in questo movimento che prende senso la cura: analisis è disfare ma anche risalire verso l’alto.

Harry Mulish è un figlio delle molte traiettorie dei sopravvissuti di quella guerra. Il padre, collaborazionista dei nazisti, fu il motivo per cui lui e la madre, ebrea, sfuggirono alla deportazione a differenza del resto della famiglia. Questo romanzo, come molta della sua produzione, lavora temi filosofico-morali, l’etica, la colpa, la responsabilità, senza scioglierne i dilemmi ma rendendo in mirabili descrizioni lo sforzo della storicizzazione di eventi personali e collettivi.

Anton diventa anestesista, ennesimo richiamo all’attenuazione di coscienza, del sentire il dolore, dell’ausilio a dimenticarlo.

Il mondo è un inferno… era impossibile riparare tutto quello che era successo… Solo dopo la scomparsa di ogni ricordo, solo allora il mondo sarebbe tornato a essere puro…

Ogni episodio che riapre la narrazione, lo coglie in momenti di vita del dopoguerra in cui schegge di quel passato sepolto sopraffanno la sua pretesa amnesica, collassando le contingenze a ricucire i lembi strappati, portandogli altri frammenti di significato a ponteggiare sui vuoti della sua vita. 

Reincontra il figlio di Ploeg, suo compagno di classe sui banchi delle elementari, un lontano primo incontro solidale con l’altro da sé in cui rispecchiarsi e il dialogo con il figlio del collaborazionista solleva quesiti universali, ciascuno dal vertice delle proprie avversità sullo scenario della Storia.

Una sera a cena fra alcuni reduci della resistenza, ascolta una conversazione e domanda senza volerlo, istintivamente, come un nervo che reagisce al colpo del martelletto.

L’après-coup.

Il passato gli si eviscera davanti nella foggia dell’attivista che la sera di quell’inverno di fame aveva ucciso Ploeg, causando la rappresaglia contro la sua famiglia. E da lì, all’indietro, alla donna che insieme a lui, quella notte, sparò e fu ferita. I singhiozzi spaccano il guscio del sé bambino che voleva perduto, copre con le mani quel viso che lei gli tastò nel buio della cella, sporcandolo del sangue del suo ventre aperto dalla pallottola di Ploeg.

Tutto era ancora lì dentro, non era sparito nulla.

Ritrovarsi di nuovo in quella notte, quando lei stava morendo, ritornata viva a un tratto, ancora lì a significare ciò che era stata per lui in tutto quel tempo, avvolta nell’oscurità e senza che lui l’avesse mai pensata sapendo di farlo.

La resa dei conti… La malattia di cui stiamo soffrendo aveva avuto bisogno di una ventina d’anni di incubazione.

Mulish è fascinoso nella sua narrazione di un tempo ciclico.

Se a volte gli capitava di riflettere sul corso del tempo, non vedeva gli avvenimenti farsi incontro provenendo dal futuro, per incrociare l’oggi e finire nel passato: per lui era a partire dal passato che gli avvenimenti si andavano realizzando nel presente, nel loro fluire verso un futuro nebuloso.

Ogni passaggio della storia sospinge e illumina a posteriori la trama, infondendole una nuova forza causale, come se i diversi strati temporali svelassero solo via via il disegno del fato che li sottendeva fin dall’origine. Stupenda rappresentazione dell’après-coup.

Le vicende di Anton si snodano come un thriller che compone i suoi frammenti per sciogliere gli enigmi, ripercorrendoli a ritroso fino a chiarire il perché di quel gesto di deporre il corpo di Ploeg proprio davanti a casa loro.

Viene in mente l’episodio della cicogna che Karen Blixen inserisce ne La mia Africa. Racconta di un uomo che una notte fu svegliato da un rumore tremendo e uscito di casa per vedere cosa fosse accaduto, inciampa e cade e si rialza ripetute volte e corre in diverse direzioni, precipita in buchi e tappa falle, nel buio più assoluto, ignaro del senso di tante tribolazioni. Solo al mattino, destandosi, scopre che tutto quel travaglio ha tracciato sul terreno antistante casa sua la figura di una cicogna.

Una tale compiutezza naturalmente è solo un desiderio, ma la filigrana tensiva inestinguibile verso un senso, anima la nostra esistenza nella spinta delle sue riscritture. Così come spesso il nostro saperci condurre, da analisti, nei lunghi bui del non comprendere, si appoggia più o meno fiducioso alla possibilità che un qualche disegno, prima o poi, legherà in un abbozzo traduttivo provvisorio  l’assoluto insensato.  

L’attentato è un libro d’atmosfera, intenso e suggestivo (la sua trasposizione cinematografica vinse l’oscar come miglior film straniero nel 1986), capace di immergere il lettore nelle spirali di un tempo preda dei suoi incantesimi di ripetizione, fra il desiderio di mantenerli immobili e frangerli per riaprire un futuro al passato che stagna dentro ognuno di noi. Mulish sa rendere con maestria gli intervalli di latenza e i momenti di svolta che il trauma reca con sé, così come l’attrazione e l’ineluttabile fallimento dell’oblio di cui va in cerca.

…qualcosa che lo risucchiava, un buco nero, dentro cui le cose cadevano senza mai toccare il fondo

Perché se è l’iscrizione rappresentativa nel presente di ciò che, dal punto di vista psichico, non si è potuto vivere, l’unico modo per appropriarsi dell’esperienza e trasformarla, ogni ripresa trascrittiva di un trauma deve guardarsi dal male che risveglia, nella speranza che l’accaduto possa finalmente raggiungere il gran riposo del passato.

Laplanche (2006) Problematiche VI. L’après-coup, La Biblioteca.

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