Cultura e Società

“L’età fragile” di D. di Pietrantonio. Recensione di D. Federici

18/01/24
"L’età fragile" di D. di Pietrantonio. Recensione di D. Federici

parole chiave: #fragilità, #condivisione, #tempo

L’età fragile

di Donatella di Pietrantonio (Einaudi, 2023)

recensione di Daniela Federici

Come la freccia regge la corda,

tutta raccolta nel balzo, per essere più di se stessa.

Che il rimanere non ha un luogo.

Rilke, Elegie duinesi

Un romanzo dedicato alle sopravvissute che racconta l’età fragile come dimensione irriducibile dell’umano, esposto alle cadute e alle perdite che i passaggi di vita e i traumi ci infliggono.

Forse la nostra unica eredità sono le ferite.

Con la sua consueta forza narrativa e una lucida sapienza di scavo, Donatella Di Pietrantonio ci porta dentro una storia che attinge al reale per rappresentare i rapporti fra genitori e figli e la complessa tessitura dei sentimenti lungo le varie età della vita. Un racconto intenso di paure e desideri inespressi, di solitudini e legami, omissioni e solidarietà, che mostra come occorra occuparsi della sofferenza per liberare il proprio divenire.

Il disordine che trovo al mattino mi ricorda che non sono più sola. Amanda è tornata…

Lucia, la voce narrante, è una madre che non si è mai sentita sicura di saperla prendere sua figlia.

Milano o niente. Così diceva del suo futuro. Niente era il paese, restare. Milano la città dove la vita le sarebbe accaduta davvero.

Così l’aveva guardata partire, pensando che avrebbe scoperto un po’ del mondo che a lei non era riuscito di affrontare. Ma ora Amanda è tornata. Spenta. La sospensione della pandemia suona solo incidentale in quella chiusura imbelle, svuotata. Lucia non sa come approcciare il silenzio riottoso della figlia, la sua inerzia a ritrovare un senso e una direzione, quei libri rovesciati sempre sulle stesse pagine. È un tempo fermo, per entrambe. Lucia riempie la loro convivenza nervosa di piccoli gesti che spesso revoca, consapevole di trattarla ancora come la bambina che non è più, anche se indugiano entrambe in una impasse.

Onde di disordine che rompono l’immobilità in cui la protagonista cercava di tenere la sua vita, compresa una separazione coniugale da tempo fattiva ma che non ha mai svuotato gli armadi o pronunciato un’intenzione. E dall’altra parte suo padre, che si rifiuta di invecchiare.

Mio padre mi chiede di accompagnarlo nel suo ultimo tratto, insiste che prenda quel terreno. A mia figlia devo restituire il mondo. Mi tirano ognuno dalla propria parte, al proprio bisogno. Mi spezzano.

Quel possedimento di famiglia, il Dente del Lupo, trent’anni prima era stato teatro di un efferato fatto di cronaca. Un morso feroce per il paese, un cheloide doloroso su cui tutti sembravano aver steso il silenzio e che ora, attraverso il lascito che il padre vuole farle, Lucia è costretta a ripensare.

Ogni passaggio d’esistenza che richiede nuove forme di soggettivazione è per definizione un’età fragile. Lì le cesure all’interno del Sé, le vicende che hanno lasciato rappresentazioni mute, forzano per far tornare in scena il reale che non ha ancora trovato il modo di essere pensato, allestendo la matrice potenziale di un’elaborazione più complessa dei vissuti. Sono momenti di fragilità dello psichico perché profilano conflitti e moti separativi, le angosce di perdere un Sé fusionale che si vorrebbe magico e onnipotente, per una processualità che si avventura nell’ignoto incontrollato del divenire altro.

Eppure è proprio questo a costituire il nostro sviluppo: l’inesausta trascrizione di un presente intessuto di passato che riprende le sue infinite giacenze inespresse per creare nuovi legami storicizzati.

È il senso della costruzione del tempo, quel che Green considera il vero oggetto dell’analisi, della cura come liberazione da un tempo immobile soggetto a una cieca ripetizione.

Violenza, colpa, segreto, ogni inelaborato lungo questo percorso ostacola la fluidità trasformativa e condiziona silente il nostro vivere, potendosi trasmettere come un legato a chi viene dopo. 

A un certo punto la vita accelera. Dopo resta tutto fissato a un’immagine, un suono del momento. Si torna sempre lì. … Da allora ogni momento delle nostre vite sarebbe caduto in un prima o in un dopo, non c’era nemmeno bisogno di nominarlo, il fatto.

… eravamo giovani, ma non invincibili. Eravamo fragili. Scoprivo da un momento all’altro che potevamo cadere, perderci, e perfino morire.

… avevo vent’anni, e ancora mi sembrava così facile cancellare un danno. Forse era la mia ultima occasione per crederlo, quella sera, sotto le stelle di fine agosto.

Ma anche quando Amanda viene scippata a Milano, Lucia pensa che in fondo non era successo nulla di grave … la ferita era superficiale, si sarebbe presto rimarginata. Non vedevo il danno più duraturo, la fiducia nel mondo che le avevano strappato insieme alla borsa.

Quella volta ho proprio sbagliato a non prenderlo, il treno. Nel rispetto della sua libertà, le sono mancata quando aveva bisogno di me. Certi confini sono troppo sottili per una madre indecisa come io sono. … non ha più voluto parlarne…

La vita segreta dei figli. Sappiamo che esiste, ma non siamo mai pronti a toccarla. Restano per sempre angeli senza sesso nel chiuso delle nostre teste. Indifferenziati, mai del tutto partoriti.

È così difficile separarsi, riconoscere l’altro fuori del nostro controllo, diverso, non pienamente conoscibile. 

Il malessere di mia figlia devo ancora capirlo, non viene da una parte sola.

Ma la fatica di comprendere di Lucia sta anche nell’infermità di un pensiero che custodisce i propri inascoltati, il suo morso di Lupo dentro che ha sempre cercato di dimenticare.

A me non era successo niente. Ero stata colpita, come tutti, ma non di persona. E la mia amica era sopravvissuta. Eppure avevo perso la forza, i nervi si erano spezzati, azzerata la volontà.

I mancati contenimenti dell’infanzia favoriscono una tonalità potenzialmente traumatica nella riemersione dei fantasmi, emozioni che sentite intollerabili e pericolose, sono molto più difficili da pensare, finendo facilmente proiettate o eluse. Il riguardo è ciò che riconosce la pertinenza di ciò che ci accade e ci richiama a uno sguardo più in profondità, è la pietas che ci fa prendere cura, che lavora i nodi sofferenti, le iniquità, le colpe, i lutti.

Il romanzo da forma a un presente che si ripiega sui suoi inevasi e riporta al centro della scena una terra abbandonata all’incuria che sembra raffigurare anche dei paesaggi interni nei personaggi. La terra aspra della violenza che si prova a dimenticare, dei climi patriarcali che non sanno tanto dire l’affetto e contro cui le figlie ingaggiano una lotta fiera, i forti legami comunitari e un desiderio di altrove che conferisce al restare e all’andarsene risvolti intimi, esistenziali.

“Un paese ci vuole – scriveva Pavese -, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti” (La luna e i falò).

Ma lo spaesamento non è solo di chi si avventura lontano per allargare i propri orizzonti; anche chi resta non ha protezione dalla fragilità e dal potersi sentire ‘fuori luogo’ quando il male esce dalle sue tane e convoca le ombre dell’incontro con l’altro.

A volte l’esilio dell’erranza e la fatica di separarsi dicono di una stessa difficoltà: il tenere dentro l’altro di ciò che muta e si perde, fuori e dentro di noi. La nostalgia del ritorno spesso non riguarda solo i luoghi, ma è desiderio di ritrovare un passato, il Sé di un tempo idealizzato e sicuro che precede le ferite, che si aspira a rendere mai accadute. Una fantasia così umana nella sua vanità. Perché non sfuggiamo a ciò che siamo stati e abbiamo vissuto, così come non possiamo fermare il tempo, mentre possiamo fare i conti con i cambiamenti e prenderci cura delle nostre inquietudini e delle fragilità, per abitare una migliore domesticità in una vita più libera di diventare.

Il brano che sappiamo a memoria suona diverso nel mondo cambiato.

Lucia e Amanda hanno ancora molto da imparare l’una dall’altra, nell’impegno di farsi carico del proprio mondo come qualcosa che le riguarda.

I ragazzi riparano lo sfregio al prato e forse, dopo trent’anni, la ferita che ancora ci portiamo dentro.

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